FINANZIAMENTO AZIENDALE PER R&S
IL PRIVATE EQUITY
INCENTIVI ALLE IMPRESE ARTIGIANE
AL VIA IL PRIMO BANDO DEL POR CAMPANIA
FINANZIAMENTO AZIENDALE PER R&S
IL PRIVATE EQUITY
Il sistema bancario è interessato
a sostenere le imprese in attività innovative
Sàntolo
Cannavale
Esperto di mercati finanziari
s.cannavale@virgilio.it
Josè Manuel Durao Barroso con un approccio da buon padre
di famiglia, il 1° febbraio scorso davanti all’Europarlamento,
ha ribadito i due obiettivi da raggiungere entro il 2010: crescita
dell’Unione Europea nell’ordine del 3% del Pil
(ricchezza prodotta) dall’attuale 2,2% (a fronte del
4,3% degli Stati Uniti) e creazione di 6 milioni di nuovi posti
di lavoro, seguendo le risoluzioni dei consigli di Lisbona
del 2000 e di Barcellona del 2002. Ha esordito con queste parole: «Io
ho tre figli e se uno di loro si ammala, corro immediatamente
da lui. Ma questo non significa che smetta di amare gli altri.
Anche come presidente della Commissione europea ho tre figli:
la competitività dell’economia, la sicurezza sociale,
la tutela dell’ambiente. Oggi dobbiamo correre in aiuto
al grande malato, che è la nostra capacità di
competere, senza trascurare solidarietà e impatto ambientale».
Gli strumenti da utilizzare sono rappresentati da: investimenti
in ricerca e sviluppo (fino al 3% del Pil europeo rispetto
all'attuale 1,9%); integrazione dei mercati finanziari; infrastrutture;
flessibilità e formazione. Questo programma ambizioso
si intreccerà con il bilancio pluriennale 2007-2013
e con il Patto di stabilità, che si applicherà in
maniera più flessibile negli Stati che hanno fatto riforme
strutturali, come le pensioni, o investimenti in ricerca e
infrastrutture. Il piano per lo sviluppo e la competitività in
preparazione in Italia, ad opera dei Ministri dell'Economia
e delle Attività produttive, segue lo schema adottato
dal Presidente Barroso. Gli investimenti in ricerca e sviluppo
sono determinanti per promuovere innovazione e competitività e
di ciò vi è diffusa consapevolezza a livello
europeo e nel nostro Paese. Una struttura industriale, come
quella italiana, prevalentemente costituita da realtà imprenditoriali
piccole e medio piccole non è strutturalmente adatta
ad affrontare i costi fissi e il profilo di rischio associati
agli investimenti in ricerca e sviluppo. I limiti del sistema
bancario a intervenire, in assenza di specifici correttivi,
sono non solo strutturali ma auspicabili, se non si vogliono
trasferire su di esso i costi di operazioni con maggiori percentuali
di insuccesso, su periodi più lunghi e caratterizzati
da minori informazioni di partenza e assenza di garanzie collaterali.
Queste considerazioni rappresentano la sintesi di uno studio
pubblicato sulla rivista "Bancaria" di dicembre 2004,
edita dall'Associa-zione bancaria italiana (ABI). Gli autori,
Mario Calderini del Politecnico di Torino, Raffaele Oriani
e Maurizio Sombrero dell'Università di Bologna, ritengono
che l'impegno richiesto all'industria di finanziare i due terzi
degli investimenti complessivi in ricerca e sviluppo non sia
facilmente sostenibile. Precisano altresì che il finanziamento
degli investimenti in innovazione presenta dei problemi specifici
rispetto ad altri progetti industriali. Il risultato (intermedio)
atteso di tali investimenti è un'attività intangibile,
rappresentata da nuova conoscenza, la cui definizione, misurazione
e valutazione rappresentano problemi ancora in gran parte non
risolti.
Questa specificità comporta possibili fallimenti di
mercato che richiedono alcune riflessioni sulle modalità del
relativo finanziamento. Un primo problema è legato alla
presenza di asimmetrie informative tra l'inventore e il finanziatore.
Queste nascono dalla circostanza che l'inventore ha una migliore
conoscenza della natura e della probabilità di successo
tecnico e commerciale dell'innovazione rispetto ai soggetti
esterni che dovrebbero finanziare l'impresa.
Da qui la richiesta dell'investitore esterno di un tasso di
rendimento del capitale prestato più elevato rispetto
a quello delle fonti interne all'azienda. Come evidenziato
dallo studio, il finanziamento dell'innovazione è complicato
da problemi di misurazione e valutazione dei rendimenti attesi
degli investimenti in ricerca e sviluppo. Alcuni analisti (Hall
e Oriani, 2004) hanno messo in luce che mentre in Francia,
Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti il mercato azionario
valuta positivamente le spese in ricerca e sviluppo delle società quotate,
in Italia tale valutazione non è significativamente
diversa da zero e in alcuni casi perfino negativa. Le imprese
di minori dimensioni, più giovani e maggiormente basate
sullo sviluppo di nuove tecnologie, hanno sicuramente maggiori
difficoltà ad ottenere finanziamenti esterni. In tal
caso il "private equity", capitale di rischio messo
a disposizione di imprese non quotate da fondi appositamente
costituiti, può essere lo strumento idoneo per sviluppare
il programma di innovazione. Il segmento più rischioso
e rilevante per lo sviluppo dell'innovazione all'interno delle
imprese più giovani e con maggiori prospettive di crescita
viene definito "venture capital".
Le società di "venture capital" mirano per
lo più alla quotazione delle imprese assistite, allo
scopo di monetizzare l'investimento originariamente effettuato.
In Italia un'analisi estesa della relazione tra le fonti di
finanziamento e gli investimenti in ricerca e sviluppo non
risulta possibile poiché l'attuale normativa contabile
non obbliga le imprese a riportare in bilancio questa tipologia
di investimenti in una voce separata. Tra i vari attori del
mercato vi è consapevolezza che il rapporto tra innovazione
e crescita della impresa rappresenta un legame bivalente, nel
quale l'innovazione è condizione necessaria per la crescita
e, viceversa, la crescita è condizione necessaria per
l'attività innovativa. Il sistema bancario, pur con
tutte le riserve e cautele, è interessato a sostenere
le imprese impegnate in attività innovative. Secondo
i tre studiosi menzionati, solo un sistema territorialmente
distribuito come quello bancario può, infatti, incidere
profondamente su un sistema industriale del tutto peculiare,
caratterizzato da imprese spesso molto piccole, con forte valenza
locale e assetti manageriali ancora largamente inadeguati a
instaurare rapporti con il grande capitale nazionale e internazionale. É quindi
presumibile che il sistema bancario possa giocare un ruolo
rilevante nelle fasi di avvio di un processo di crescita fondato
sull'innovazione del nostro sistema industriale, accompagnandolo
verso soglie dimensionali e capacità manageriali adatte
ad accedere ad altre forme di finanziamento, strutturalmente
più adeguate al profilo di rischio dell'attività innovativa. É interesse
del sistema bancario lavorare nella direzione di migliorare
gli standard contabili in materia di innovazione. É anche
opportuno riconoscere l'assenza di competenze tecniche specifiche
da parte del management e dei funzionari delle banche quando
questi si trovano a valutare proposte di finanziamento di elevato
contenuto scientifico e tecnologico.
Appare quindi opportuna una specializzazione tecnologica settoriale,
tipica ad esempio di molti "venture capitalist" (investitori
in iniziative ad alto rischio), accompagnata dalla crescita
di competenze specifiche interne. Potrebbe costituire un'opzione
di un certo interesse la formulazione di un quadro di accordi
con istituzioni e centri di ricerca pubblici e privati, dove
tipicamente risiedono le competenze necessarie alle attività di
technology assessment (apprezzamento della consistenza tecnologica)
e di prospezione tecnologica, o di fare leva sul ruolo del
finanziamento pubblico della ricerca. Su questo specifico punto,
i tre studiosi ricordano l'esperienza statunitense del programma
Sbir, che finanzia, con risorse pubbliche, il trasferimento
tecnologico dai laboratori federali alle piccole e medie imprese,
con contributi a fondo perduto e sotto forma di credito agevolato
di medio periodo. I dati dimostrano che l'ammissione al finanziamento
migliora per le imprese beneficiarie l'accesso al credito e
aumenta le probabilità di accedere successivamente a
finanziamento di "venture capital" per sostenere
lo sviluppo. Ovviamente si tratta di programmi caratterizzati
da un alto livello di selettività e non indirizzati
alla distribuzione indifferenziata di contributi non effettivamente
controllabili nella destinazione finale. Le banche contribuiscono
attualmente al finanziamento dei fondi di "private equity" con
una quota pari al 30% del totale. L'apporto dei fondi pensione
e delle compagnie di assicurazione è pari, rispettivamente
al 10% e al 9% (dati Aifi). Gli investimenti in "venture
capital" presentano spesso per loro natura un profilo
di rischio che non è compatibile con il portafoglio
di investimenti della banca. La distanza tra banche e società di "venture
capital" è interpretata sovente come un segnale
di scarsa lungimiranza o indisponibilità a investire
delle prime, ma potrebbe rappresentare una conseguenza logica
del profilo di rischio e delle caratteristiche dei progetti
sui quali meglio si concentrano le seconde. A tal riguardo è opportuno
propiziare lo sviluppo dei mercati azionari, agevolandolo in
ogni modo, per sostenere la crescita delle imprese innovative
del sistema industriale italiano. La possibilità per
il "venture capitalist" di monetizzare l'investimento
in "start-up" di grande potenziale innovativo (società assistite
finanziariamente ed avviate verso la quotazione in borsa) costituisce
un elemento chiave per lo sviluppo del mercato del finanziamento
all'innovazione. In questa ottica, rilevano i tre studiosi,
la debolezza del sistema italiano ed europeo rispetto ad altre
realtà è almeno in parte spiegata dallo scarso
sviluppo e dall'elevata volatilità dei mercati azionari,
in particolare di quelli nuovi.
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