IL CALO DEL DOLLARO
PREVISIONI DIFFICILI SUL LIVELLO DEL CAMBIO
INCENTIVI ALLE IMPRESE ARTIGIANE
AL VIA IL PRIMO BANDO DEL POR CAMPANIA
IL CALO DEL DOLLARO
PREVISIONI DIFFICILI SUL LIVELLO DEL CAMBIO
Il protezionismo per arginare i crescenti squilibri commerciali e monetari
Sàntolo
Cannavale
Esperto di mercati finanziari
s.cannavale@virgilio.it
Il dollaro americano prosegue la sua corsa al ribasso nei confronti dell'euro, ma perde colpi anche verso yen giapponese e franco svizzero. Il cambio dollaro contro euro, oscilla intorno a 1,35 e sembra avviato verso quota 1,50. Il governo americano non pare intenzionato a frenare il declino della propria moneta, visto il vantaggio che in tal modo ricevono le esportazioni USA. Il segretario al Tesoro John Snow afferma che l'America lavora per un dollaro forte ma che è compito del mercato fissare il livello adeguato di cambio. Un modo questo per dire che le cose vanno bene così. Bisogna ritornare al 4 gennaio 1999, quando iniziano gli scambi sull'euro, per ritrovare un rapporto di cambio dollaro contro euro pari a 1,1906, prossimo alle attuali dimensioni. Dopo quella data, il dollaro va rapidamente rafforzandosi. La Banca centrale europea il 22 settembre 2000 interviene per sostenere l'euro che però scivola al minimo di 0,8225. Il cambio si stabilizza intorno a 0,90 dollari per un euro fino al primo trimestre 2002. L'attacco alle torri di New York dell'11 settembre 2001 di per sé non comporta conseguenze dirette e immediate sui rapporti di cambio valutario. Nel periodo considerato, dopo la prima elezione di Bush alla Presidenza americana avvenuta il 7 novembre 2000, la bilancia corrente con l'estero degli USA registra anomali deficit rivenienti da eccessivi livelli di importazioni di merci dal resto del mondo. Nel giugno 2002 i mercati hanno conferma di un deficit USA record nella bilancia corrente con l'estero: 482 miliardi di dollari per fine 2002, rispetto ai 394 del 2001. La corsa è proseguita con previsione di 640 miliardi di dollari nel 2004 (5,7% del Prodotto interno lordo). A tale passività si sommano gli effetti di una politica di spesa del Governo americano che porta a un crescente deficit del bilancio federale - 430 miliardi di dollari nel 2004 - con annullamento degli avanzi registrati dalla precedente amministrazione. Viene attuata, in particolare, una decisa politica di riduzione di imposte per accrescere il potere di acquisto dei consumatori e dare forza all'apparato produttivo americano. Gli economisti, riferendosi alla contemporanea crescita del deficit delle partite correnti e di bilancio usano la definizione di "deficit gemelli" e fanno riferimento a essi per spiegare i negativi riflessi sul valore della moneta americana. É l'inizio del deprezzamento del dollaro che, in maniera progressiva, si avvia verso l'attuale rapporto di 1,36 dollari per un euro. L'attacco anglo-americano all'Iraq del 20 marzo 2003 (con l'appoggio e la condivisione di pochi Paesi) tende ad accentuare detto ridimensionamento, in considerazione delle maggiori spese militari da sostenere e dell'ulteriore, prevedibile, finanziamento in deficit. Gli USA godono di una condizione privilegiata che deriva dagli eccezionali flussi di investimenti in Buoni del Tesoro provenienti dal resto del mondo. Alla fine del 2004 sono 3.250 miliardi di dollari, pari al 28% del Prodotto interno lordo Usa. Molti di questi investimenti hanno la funzione specifica di riserve monetarie dei Paesi esteri che puntano sul dollaro quale moneta di riferimento internazionale. Tali flussi di risorse finanziarie dall'estero consentono di fronteggiare le emergenze connesse ai "deficit gemelli". L'intenzione di Cina, Russia, Giappone e Paesi emergenti di ridistribuire e riposizionare le proprie riserve ricorrendo ad altre valute è una delle ragioni premianti per l'euro in forte crescita, indirettamente favorita dall'azione della Banca centrale europea che della stabilità monetaria ha fatto la propria missione principale. A Washington vi è consapevolezza di tale situazione e si ipotizza, tra l'altro, di privatizzare il sistema pensionistico, collocando fuori bilancio l'enorme onere della relativa riforma (104 miliardi di dollari il primo anno, che cresceranno gradualmente fino a 194 miliardi dopo dieci anni). La storia verificherà se la strategia attuata dall'America sarà vincente, tale da riequilibrare il saldo delle partite correnti e quello del bilancio federale e preservare le necessarie quote del mercato mondiale a beneficio del sistema produttivo americano. In passato ha funzionato, quando l'economia mondiale rifletteva essenzialmente i rapporti tra USA, Europa e Giappone. Oggi non è più così. Paesi emergenti conquistano quote crescenti di commercio mondiale e, potendo contare su lavoro a basso costo e su oneri sociali pressoché inesistenti, impongono con facilità i loro prezzi minimi, stravolgendo i mercati di consumo, squilibrando quelli di approvvigionamento di materie prime, costringendo alla chiusura molte aziende operanti nei Paesi occidentali. Mi riferisco in particolare alla straripante crescita dell'economia cinese e indiana. Negli ultimi tre anni il surplus commerciale cinese e gli interventi sui mercati finanziari (in particolare acquisti di Buoni del Tesoro USA) anche per evitare l'apprezzamento della propria moneta (yuan o renminbi) hanno portato oltre 200 miliardi di dollari nelle casse della Banca centrale di Pechino. Con tali disponibilità, la Cina ha avviato programmi di investimenti in Paesi ricchi di materie prime e risorse energetiche, tra questi il Brasile con acquisizioni di aziende di industria pesante per 10 miliardi di dollari. Di recente ha annunciato investimenti in Argentina per 19,7 miliardi di dollari, da realizzare nell'arco dei prossimi dieci anni: 8 miliardi nelle ferrovie, 5 nell'energia, 6 nell'edilizia, 710 milioni nelle telecomunicazioni. Questo intervento spiazza, in parte, il Fondo monetario internazionale che, dal settembre scorso, ha sospeso il programma di prestiti all'Argentina per 13,5 miliardi di dollari per sollecitare la definizione dei rimborsi ai creditori (fra essi 450 mila italiani) dopo la crisi valutaria e il mancato pagamento dei titoli di stato del 2001-2002. Come è stato acutamente osservato, di colpo le leve finanziarie dell'Occidente sembrano obsolete stampelle. All'orizzonte si profila un'altra realtà da seguire con attenzione: l'Associazione dei Paesi del Sud-Est asiatico (Asean) fondata nel 1967 cui partecipano Indonesia, Singapore, Malaysia, Filippine, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Myanmar e Cambogia. Si tratta di un'area produttiva che guarda al modello dell'Ue, anche per attirare investimenti dall'estero. Il vertice dell'Associazione tenuto a fine novembre a Ventiane, capitale del Laos, ha dato una spinta alla coesione economica tra i dieci Paesi partecipanti, prevedendo la creazione entro il 2010 di un'area di libero scambio, con un mercato di 530 milioni di persone, e la liberalizzazione dei servizi finanziari. Attraverso il forte deprezzamento della propria valuta, l'Amministrazione USA tende a recuperare quote di mercato, spingendo sulle proprie esportazioni, agendo sulla leva dell'innovazione tecnologica e dei bassi tassi d'interesse nonché sulla presenza attiva nelle zone strategiche del mondo. É un'avvincente sfida sostenuta per non arretrare nei prossimi anni di fronte ai nuovi colossi dell'Oriente. In questa ottica è difficile prevedere il livello di cambio cui approderà il dollaro. Obiettivo essenziale della Federal Reserve è il sostegno all'economia USA, con azioni a tutto campo riferite a tassi d'interesse e quantità di moneta offerta. Alle favorevoli prospettive di molti analisti, si contrappone il pessimismo di Stephen Roach, economista di Morgan Stanley: «Potrebbe giungere il giorno in cui gli investimenti stranieri reclamano migliori condizioni per il finanziamento della furia consumatrice dell'America (e la sua assenza di risparmio). Quello sarà il giorno in cui il dollaro affonderà e i tassi d'interesse saliranno a razzo. Con una tale crisi, una recessione americana sarebbe quasi certa. E il resto del mondo che gravita intorno all'America, la seguirà rapidamente» (Fonte: La Repubblica del 29 novembre 2004). L'Europa sembra smarrita, sovente in disaccordo di fronte alle scelte americane, poco incline a considerare la probabilità di un forte arretramento economico e produttivo dell'Occidente. Intanto, allineandosi a Giappone, Canada, Brasile, India, Messico, Cile e Corea del Sud si oppone agli stessi USA, sollecitando l'Organizzazione mondiale del commercio (WTO) ad autorizzare l'applicazione di sanzioni su una lista di prodotti statunitensi, come risposta a un comportamento irregolare degli USA in materia antidumping (vendita all'estero di prodotti sottocosto). Oggetto della controversia è “l'emendamento Byrd”, un meccanismo col quale Washington versa il ricavato di alcune sue azioni antidumping alle stesse imprese colpite dal dumping. Le moderne economie danno preminenza alle esportazioni di merci e servizi, ma di fronte ai crescenti squilibri commerciali e monetari il protezionismo si ripresenta come strumento di ultima istanza. L'allargamento dell'Ue assicura margini di manovra per gli sbocchi produttivi delle aziende operanti all'interno dell'area. Le sollecitazioni rivenienti dai nuovi blocchi commerciali mondiali non tarderanno però a mettere in discussione i nuovi equilibri connessi all'ingresso dei Paesi aggregati, nonostante le opportunità di produzioni a costi relativamente contenuti e l'allargamento della platea di consumatori a redditi crescenti.
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