RECUPERARE L'ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE
il valore DI UN PATRIMONIO DISMESSO
Nuove norme rispetto alla gestione e la salvaguardia di beni culturali
in disuso
Stefano
Castelli Gattinara
Architetto - Studio Castelli Gattinara
studio-architettura@castelli-gattinara.it
Le testimonianze di archeologia industriale nel nostro Paese sono
considerevoli e rientrano a pieno titolo in quel patrimonio artistico
e culturale da salvaguardare. Gli stabilimenti dismessi, infatti, sono
da considerarsi come documento storico, sociale e culturale. Essi possono
essere visti come frutto dell'ingegno umano, come tappa di un'evoluzione
tecnologica o, ancora, come testimonianza di fatiche, di lotte sindacali
e, perché no, di fortune economiche di alcune famiglie. Spesso
gli edifici di archeologia industriale ricadono in ex grandi aree industriali,
le stesse che oggi sono a ridosso dei centri urbani. Cancellare, quindi,
grosse volumetrie corrisponde a lasciare un grande vuoto nel tessuto
urbano esistente. In alcuni casi il valore acquisito da un'area può essere
notevole, sia perché molti di questi spazi si trovano, come già detto,
a ridosso del centro cittadino, sia perchè l'area circostante
rivive grazie alla nuova funzione data al vecchio sito dismesso. Alla
luce di ciò, le tipologie, come pure gli interessi economici in
gioco, sono diversi; per tali ragioni il restauro del patrimonio industriale
incontra non pochi problemi. A volte l'interesse per l'uso del suolo
come area edificabile è talmente elevato da determinare l'abbattimento
degli edifici e lo smantellamento delle attrezzature produttive. La conoscenza
dettagliata del bene, anche nelle sue specificità costruttive,
risulta, quindi, di fondamentale importanza nell'indirizzare gli interventi
di recupero e cambio di destinazione d'uso, nel rispetto delle peculiari
caratteristiche tecniche e tipologiche. Occorre, inoltre, valutare gli
spazi e i percorsi di connessione al tessuto urbano limitrofo di un oggetto
che continua a permanere nella sua struttura, ma che comunque muta nella
sua funzione. Andranno ricalibrate tutte le infrastrutture a servizio
dell'intera area urbana interessata. Si tratta di attivare una progettazione
minuta, il meno ideologica possibile, in un confronto continuo tra i
vari aspetti coinvolti: sociali, architettonici, economici, gestionali.
Gli interventi de quo presuppongono investimenti elevati. Questi sono
dettati sia dalla vastità delle aree, sia da adattamenti di cambio
della funzione d'uso. Risulta evidente, quindi, che se gli investimenti
necessari a un'operazione di restauro e recupero di aree non hanno un
ritorno economico soddisfacente e limitato nel tempo, difficilmente si
potrà sperare in una realizzazione con il coinvolgimento di capitali
privati. Il nostro Paese offre diversi esempi di recupero di tipologie
industriali, più o meno riusciti. Il
primo, sia per grandezza di dimensioni sia per aver fatto tanto parlare
di sè, è il "Lingotto" a
Torino. Negli anni '20, quando fu progettato e costruito dall'architetto
Giacomo Mattè Trucco, lo stabilimento del Lingotto della Fiat
era un esempio modernissimo di architettura industriale, capace di coniugare
i modelli di sviluppo delle grandi case automobilistiche nordamericane
con le esigenze e le tendenze dell'architettura contemporanea. Le sue
misure imponenti erano il simbolo delle aspirazioni alla modernità dell'Italia
dell'epoca: due corpi longitudinali di 507 m di lunghezza e 24 di larghezza,
uniti da 5 corpi trasversali; la larghezza complessiva di 80 m e cinque
piani di officine. Nella sua storia sessantennale la fabbrica principale
della FIAT ha visto uscire, dalle proprie catene di montaggio, più di
80 modelli di auto. Poi, nel 1982, la Fiat ne annunciò la chiusura.
La fabbrica dismessa fu un emblema di quell'archeologia industriale che
iniziava a caratterizzare tante città europee. Le misure grandiose,
che negli anni '20 avevano affascinato i contemporanei, ora divenivano
una difficoltà ulteriore al suo recupero. Nel 1983 venne indetto
un concorso internazionale per stabilire cosa fare dello stabilimento.
Parteciparono i nomi più prestigiosi dell'architettura internazionale
e vinse il genovese Renzo Piano. Il suo progetto di "nuova vita" della
struttura fu poi realizzato e oggi, il Lingotto, è simbolo del
terziario avanzato. La struttura ospita, infatti, oltre a un enorme Centro
Congressi, una pinacoteca, un auditorium, un hotel, un centro servizi,
un'area shopping, una serie di uffici direzionali e la sede della Facoltà di
Ingegneria Automobilistica del Politecnico. Questo esempio si può ripercorrere
per tanti interventi di importanza più limitata sparsi sul territorio
di piccoli o medi comuni italiani. Ne è un esempio l'area intorno
a Terni, la cosiddetta "conca ternana". Essa comprende un paesaggio
unico dal punto di vista industriale avendo conosciuto, nel corso di
oltre due secoli, modificazioni territoriali dovute a tipologie industriali
differenti. La successiva fase di deindustrializzazione ha sollevato
il problema della tutela di tutto il patrimonio immobiliare e documentale
che coincide con la storia dell'intera "conca ternana". L'idea
predominante per il recupero è quella di realizzare, sull'esempio
di esperienze europee e italiane già avanzate, un ecomuseo, cioè un
museo a cielo aperto dell'archeologia e del patrimonio industriale. Si
tratterebbe di un percorso per descrivere e documentare i modi in cui
il territorio si è modificato, nel corso dei secoli, che potrebbe
fornire soluzioni su come riqualificare e mettere a reddito queste aree,
coinvolgendo investimenti pubblici e privati nel recupero e nella valorizzazione
delle aree dismesse, favorendo la creazione di nuovi posti di lavoro,
accrescendo l'offerta culturale complessiva dell'Umbria. Un intervento
studiato e ben realizzato diviene interessante nell'intento di voler
coniugare memoria e sviluppo, nel voler ricreare nuovi spazi nella città utilizzandoli
come strumenti di crescita. Il recupero delle aree industriali necessita,
però, di idonei finanziamenti. Questo rappresenta uno dei problemi
fondamentali; ancora una volta, il caso ternano, può essere un
esempio perseguibile: i progetti, oggetto del recupero industriale, sono
stati inseriti nel Piano integrato territoriale e, parallelamente, il
Comune di Terni ha pensato di avvalersi dei fondi ministeriali per l'ambiente,
per bonificare le aree interessate. Il progetto finanziario si conclude
con il coinvolgimento del privato nella gestione degli immobili recuperati.
Negli ultimi anni la legislazione ha aiutato la valorizzazione del patrimonio
archeologico industriale, attribuendo maggiore potere alle autorità locali.
In un paese, infatti, dove il patrimonio culturale è diffuso,
il decentramento appare vitale, il lavoro delle Regioni e degli Enti
Locali, nella catalogazione dei siti, è stato fondamentale grazie
al conferimento di funzioni dello Stato a questi ultimi nel settore dei
beni culturali (art. 148-155 del D.Lgs. 31.3.1998 n.112). Sulla base
dell'assetto istituzionale così delineato, anche in questo settore
viene dato sempre più spazio alla "programmazione negoziata" che
attraverso le intese istituzionali e gli accordi di programma, mira a
individuare programmi d'intervento riconosciuti dall'amministrazione
centrale e da quella regionale. Esperienze concrete in tal senso sono
state avviate da numerose regioni. Allo stato attuale risultano conclusi
gli accordi quadro in Lombardia, Toscana, Lazio e Molise, mentre altre
sono state avanzate al Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Quest'insieme di norme apre scenari nuovi rispetto alla gestione e alla
valorizzazione dei beni culturali. In questa direzione sembra orientato
anche il "Testo unico in materia di beni culturali e ambientali" del
1999: negli articoli attinenti la tutela scompare la generica dizione "cose
di interesse storico-artistico", per far posto alle più attuali
nozioni di "bene culturale", e di "patrimonio", confermando
che il nostro ordinamento ha superato definitivamente la concezione estetizzante
di "bene culturale" riconoscendogli quella di "risorsa
economica". La collaborazione tra enti e soggetti privati (cui generalmente
fa capo la proprietà dei siti), oltre alla sensibilizzazione della
collettività, appare necessaria per estendere le iniziative di
recupero e di riuso, il tutto sempre con l'obiettivo di non snaturare
quelle testimonianze dello sviluppo industriale che ha caratterizzato
e influenzato la nostra cultura.
|