TURISMO: ESTATE 2005
VENTI DI CRISI PER LA CAMPANIA
La nostra regione scende ancora
nella graduatoria dei territori più visitati
di Luisa Cavaliere
Titolare Hotel Giacaranda
Muove decine di milioni di euro, sposta migliaia di persone,
muta per intere stagioni, il panorama dei luoghi che attraversa ma, spesso, è invisibile
o, peggio, guardato con indifferenza dai programmatori pubblici dello
sviluppo. Il turismo, un settore vitale per il nostro Paese e per le
regioni meridionali, soffre per una crisi che ha ragioni antiche e che
si intrecciano perversamente con le miopie e le sottovalutazioni di oggi.
L'estate 2005 va rapidamente archiviata come fra le più brutte
degli ultimi 10 anni (limito i miei appunti a quanto è avvenuto
in Campania e a quanto, nella nostra realtà, è deducibile
dalle prime cifre sulle presenze e sul volume complessivo di affari).
Un calo che si aggira intorno al 20%, differentemente distribuito nelle
varie aree, ma ugualmente drammatico. Questioni strutturali che si sommano
a fattori congiunturali. La crisi economica e la conseguente, vertiginosa,
riduzione delle spese "inutili" (e la vacanza è certamente
tra queste), hanno generato un vero e proprio crollo che non è stato
contrastato da nessuna scelta strategica capace di prevedere e, quindi,
di provvedere, a misure di contenimento del danno sul breve periodo e
di individuazione di scelte di prospettive per il futuro. L'immagine
che abbiamo trasmesso è stata quella di una regione assediata
dai rifiuti, di città aggredite da una malavita più che
mai arrogante e pericolosa (oltre che razzista), di spiagge sporche e
costose, di una proposta culturale scoordinata e "tradizionale".
Si ci può assuefare a tutto questo? Possiamo pensare, soprattutto
noi operatori e operatrici del settore, di rassegnarci a un declino che
appare minaccioso e inevitabile come un destino già segnato? Possiamo
rinunciare a contrastare tendenze che possono portarci, in pochissimi
anni, (come in parte è già avvenuto) a non essere più il
Bel Paese, meta sognata da tutti i viaggiatori e viaggiatrici del mondo?
Credo proprio di no. Continuo a pensare, nonostante tutto, che qui, più che
altrove, nel Mezzogiorno più che al Nord, sia necessario un coordinamento
continuo e fecondo fra gli attori di una scena che può (ancora)
costituire una grande occasione di ricchezza e di sviluppo. Protagonisti
pubblici (Regioni, Comuni, Enti territoriali minori) e privati; Università,
Associazioni di categoria, centri di ricerca, dovrebbero imparare a pensare
e a progettare insieme o, perlomeno, a programmare i propri interventi,
le proprie azioni, seguendo linee guida comuni, idee innovative, individuando
Paesi cui rivolgere la propria promozione, interlocutori da privilegiare,
definendo strategie capaci di cogliere i mutamenti verificatisi nella
figura del turista e nelle ragioni che spingono al viaggio senza cadere
nella trappola di quella demonizzazione (o, specularmente, della sottovalutazione)
del turismo di massa, che ha impedito a tanti programmatori dello sviluppo
di pensare a ciò che accadeva come una grande occasione economica
e culturale, e che ha lasciato, alla più distruttiva spontaneità,
un fenomeno che ha cambiato nel profondo i modelli culturali di milioni
di uomini e donne. Noi offriamo beni complessi (monumenti, siti archeologici,
tradizioni enogastronomiche, cultura materiale, natura) che hanno bisogno
di essere immessi sul mercato con grande attenzione e, anche, con la
consapevolezza che non è per esempio (come sciaguratamente, invece,
spessissimo si fa) offrendo identità fittiziamente conservate
(ricostruite ed esibite come originali) che si promuove un circuito virtuoso,
che si genera immagine, che si produce qualità. Nell'elegiaca
riproposizione (in centinaia di inutili convegni, e di stupide sagre)
della "dieta mediterranea" c'è la riduzione caricaturale
di un capitolo che potrebbe, invece, essere insieme oggetto della crescita
e della riflessione tanto sul versante nostro (dell'offerta) quanto su
quello del turismo da attrarre. Il Mediterraneo non è uno.
La
sua cultura e la grandissima rilevanza che ha avuto nella storia dell'umanità sta
proprio nelle sue differenze, nei suoi mille colori, nelle sue variegate
abitudini. Il rischio è di renderlo un grottesco simulacro di
ciò che fu, senza vedere ciò che realmente è diventato,
ciò che siamo noi oggi. Solo costruendo una relazione "moderna" con
il luogo che abitiamo, rispettandone le vocazioni ambientali e considerando
le sue bellezze, le tracce del passato che (spesso malamente) custodisce
come il vero "bene" che possiamo offrire, possiamo tentare
di invertire la sciagurata linea di tendenza che, in pochi anni, ci ha
fatto perdere il primo posto nella graduatoria mondiale dei Paesi più visitati.
Trovo irritante il proliferare degli "agriturismo" nella nostra
realtà per moltissime ragioni ma, soprattutto, perché,
da una parte, mutua da altre realtà un modello senza fare lo sforzo
di delinearne uno legato alla nostra cultura dell'ospitalità e
dell'abitare e, dall'altra, insegue il finanziamento pubblico (e su di
esso si modella) quasi come sua unica ragion d'essere. Il turista e la
turista sono "l'altro/a" che incontriamo, un ospite che viene
a farci visita e al quale dobbiamo offrire il meglio di noi preparandoci
in tempo alla sua venuta, invitandolo efficacemente nella sua lingua,
trovando nella sua cultura le ragioni che possono spingerlo a venire
da noi e a fermarsi costruendo con noi una feconda relazione, uno scambio
vero. I moderni nomadi si spostano per ragioni diverse da quelle del
passato. Si viaggia inseguendo un concerto rock o per visitare siti dell'archeologia
industriale, o per osservare i mutamenti che l'urbanistica impone alle
città, o per degustare un vino nella terra che lo produce. Più che
pensare a come "fregare" o "ingannare" chi arriva,
più che programmare iniziative culturali capaci (al massimo) di
soddisfare esigenze di ristretti gruppi di operatori, sarebbe tanto più produttivo
(anche economicamente) interrogarsi sulle implicazioni profonde del turismo,
sul suo significato "antropologico", sulle risorse finanziarie
che può generare, sugli effetti virtuosi che può produrre,
sull'occupazione che è capace di creare. Con aristocratico (e
ignorante) disprezzo in un incontro pubblico un'amministratrice, tra
l'altro autorevole, alla mia richiesta di interventi seri per il turismo
obiettò: «Non possiamo riempire il Mezzogiorno di receptionist
e camerieri! Sono altri i settori che producono sviluppo e competitività!».
Io, invece, continuo a pensare che le regioni meridionali debbano proprio
puntare sul turismo come settore strategico del loro rilancio economico.
E se dovessi suggerire al coordinamento dei "Governatori" del
Sud da poco avviato un ambito da privilegiare, gli direi di nominare
un'autorità (collegiale) capace di considerare il Sud come un'area "omogenea" e
insieme profondamente differenziata al suo interno, individuando strategie
efficaci per "venderla" sul mercato internazionale, guardando
alle locali vocazioni, privilegiando l'ambiente (non solo naturale),
promuovendo occasioni di formazione (anche di altissimo livello) per
quelli che già operano e per quanti nel turismo vogliono lavorare.
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