l’innovazione “invisibile”
fuori il coraggio e la creativitÀ
PARTNERSHIP EUROPA-CINA
UN MATRIMONIO CHE S’ADDA FARE
l’innovazione “invisibile”
fuori il coraggio e la creativitÀ
L’Italia ha bisogno di mutazioni
profonde nel suo sistema produttivo
Marco
Tronchetti Provera
Vice Presidente Confindustria per Finanza d’Impresa, Diritto Societario
e Fisco
Inutile girarvi intorno: la domanda che tutti ci facciamo e che soprattutto
si fanno i cittadini italiani a qualsiasi latitudine è se il nostro
Paese riuscirà a farcela, se riuscirà a uscire dalla gabbia
della stagnazione. Ed è inutile anche girare intorno alla risposta:
nessuno può saperlo. Sconfortante? Nient'affatto. Significa semplicemente
che il destino non è segnato. Non è segnato nel bene, che
pure ci auguriamo, ma neanche nel male, che invece esorcizziamo. Auguri
ed esorcismi lasciano il tempo che trovano. Qui c'è solo una cosa
da fare: rimboccarsi le maniche, lavorare, crescere. La crescita. Sembra
di parlare dell'Araba Fenice. Sono più di vent'anni che l'Italia
progredisce più lentamente degli altri Paesi, di antica o di più recente
industrializzazione. Una palese contraddizione con le nostre capacità:
di lavoro, di innovazione, d'imprenditorialità. Ma evidentemente
né il lavoro, né l'innovazione, né l'imprenditorialità,
sono mediamente ai livelli necessari. Con le dovute eccezioni. Perché in
Italia comunque sono riuscite a emergere realtà aziendali che si
stanno facendo valere nel mondo: al di là di quel che si può dire
sul sistema produttivo nel suo complesso, c'è stato in Italia chi
ha saputo fare impresa bene e chi meno bene; chi ha saputo affermarsi e
chi no. Solo che la vita per i bravi è stata più difficile
che altrove. Uscire dalle difficoltà si può, se si vuole.
Anche nella vecchia Europa. La Germania apparentemente non sta meglio di
noi e ha certo i suoi problemi seri, ma intanto è l'unico tra i
Paesi del G7 che negli ultimi cinque anni - e nonostante la Cina! - ha
migliorato la sua quota nel commercio mondiale grazie anche a un aumento
della produttività che non ha niente da invidiare agli Stati Uniti.
La Francia, che peraltro se la passa meglio delle altre grandi economie
continentali, sta puntando ad accelerare il tasso di innovazione della
propria industria.
L'innovazione: una capacità che i tedeschi hanno diffusa (grazie
anche alla qualità delle loro risorse umane) e che stanno coniugando
da ormai alcuni anni con un sensibile contenimento del costo del lavoro;
una capacità che i francesi vogliono rilanciare coniugandola con
ciò che di meglio hanno e cioè, più che l'indubbia
qualità della pur invasiva amministrazione pubblica, con la loro
grande passione per le tecnologie di punta e il loro formidabile senso
della sfida nazionale. E noi? Naturalmente l'Italia è altra cosa
rispetto a Germania e Francia. Di sicuro non possiamo paragonare a quelli
tedeschi o francesi il livello di qualificazione del nostro fattore lavoro,
il volume dei nostri investimenti in ricerca, il peso dei nostri settori
tecnologicamente avanzati e tanto meno l'efficienza dell'amministrazione
pubblica. Quanto al senso della sfida nazionale, abbiamo sempre bisogno
di qualche emergenza che lo susciti. A dire il vero, l'emergenza c'è.
Lo dicono tutti gli indicatori e lo sentono i cittadini sulle proprie spalle.
Quel che colpisce e contrasta con la storia civile del Paese degli ultimi
cinquant'anni è che questa volta di fronte ad una situazione veramente
critica - anche perché l'Italia è il solo grande Paese in
tale condizione - non sembra che sia la volontà di fare e cambiare
a prevalere.
Stiamo vivendo in una sorta di limbo. Tutti si aspettano che sia qualcun
altro a fare il primo passo e naturalmente nulla o quasi si muove. Ma più scorre
il tempo e più le scelte si fanno difficili, impegnative e onerose.
Se l'Italia è sempre meno capace di creare ricchezza, il problema
dell'allocazione delle poche risorse disponibili si fa più arduo
e l'urgenza di interventi anche impopolari più pressante. Ma la
questione non sta solo nelle mani - e nelle responsabilità - del
Governo. Credo che ci riguardi tutti. Capisco che "il coraggio, uno
non se lo può dare". Ma l'imprenditore, per sua scelta, non è un
Don Abbondio. Come ha avuto il coraggio di cominciare, deve avere il coraggio
di portare avanti la sua battaglia e fare lui, se altri non lo fanno, il
primo passo. «Noi industriali - disse Angelo Costa in uno dei suoi
più importanti interventi all'Assemblea di Confindustria, nel 1949
- più di ogni altra categoria, abbiamo il diritto di essere classe
dirigente del Paese, ma di questo diritto dobbiamo essere degni»;
cioè «capaci di produrre maggiore ricchezza non solo nel nostro
interesse, ma anche in quello della collettività». Essere
degni di questo diritto oggi ha un nome ben preciso: innovazione, appunto.
In Italia, in realtà, se ne fa molto più di quel che si dice
e che i depositi di brevetti documentano. Ciò che manca, a mio parere, è un
approccio sistematico, metodico, continuo a questa innovazione invisibile,
ma sono anche quelle scelte strategiche forti, quelle scelte d'investimento
che puntino a raggiungere traguardi importanti a cinque, a dieci anni.
Non c'è ambito industriale in cui non si possa fare qualcosa di
nuovo e di diverso per quel che riguarda i prodotti, il modo di produrli
e commercializzarli, il modo di fornire o utilizzare i servizi, il modo
di organizzare e distribuire geograficamente le risorse. Non lasciamoci
ingannare dai soliti discorsi sulle produzioni "mature". Di maturo
non c'è niente. Quando c'è creatività e voglia di
innovare anche il prodotto più tradizionale può diventare
tutt'altra cosa - produttivamente e tecnologicamente parlando - rimanendo
se stesso, ma con molto valore aggiunto in più. Se questo - e penso
alla mia personale esperienza - può avvenire nella produzione di
un bene così "tradizionale" come gli pneumatici, può avvenire
quasi dovunque. Un'innovazione molto più intensa, molto più radicale
di quella che tradizionalmente ha caratterizzato il sistema industriale
italiano presuppone tante cose. Per esempio, la capacità di sfruttare
quel formidabile strumento di produttività che, come insegna l'esperienza
americana, sono le tecnologie dell'informazione. Ma non solo. Occorre investire
di più nella formazione e riqualificazione delle professionalità.
Occorre sviluppare una più solida e più diffusa "cultura
del brevetto": per molte piccole imprese la protezione della proprietà intellettuale
può essere un traguardo molto complicato da raggiungere, ma tutto
ciò che crea un differenziale competitivo va salvaguardato. Occorre
investire in modo mirato sulla ricerca, per recuperare terreno nelle aree
produttive che possono rafforzare la nostra capacità di produrre
valore aggiunto (l'Italia si colloca troppo in basso, e i suoi costi sociali
non sono compatibili con questa posizione). E occorre fare di tutto per
coinvolgere nella scommessa dell'innovazione il mondo della scienza, in
cui non mancano i talenti. Giustamente, lamentiamo la debolezza dei legami
tra università e imprese in Italia. Ma la sua spiegazione non sta
nella cattiva volontà dell'una o delle altre; sta in buona sostanza
nel fatto che ancora non sentono la reciproca necessità di un più stretto
legame. Se non c'è ragione di parlarsi, perché farlo? Eppure
quei pochi che lo fanno in genere non ne restano delusi; ma se anche fosse,
nell'epoca della globalizzazione chi ha bisogno di scienza può andare
a cercarla da qualsiasi parte nel mondo.
Certo, a penalizzare la capacità innovativa e la competitività italiane
vi sono questioni - le riforme economiche e sociali - che non spetta agli
imprenditori risolvere. L'innovazione è una questione di coraggio
e di creatività. Ma anche di contesto più o meno favorevole.
E il nostro certamente non è tra i più positivi. Non lo dimostra
solo il fiacco andamento degli investimenti non immobiliari degli imprenditori
italiani; lo dimostra - e da molti anni - il basso livello degli investimenti
diretti esteri che arrivano nel nostro Paese, meno della metà di
quelli che vanno in Spagna, un terzo della Francia. Per un Paese che ha
un grandissimo bisogno di mutazioni profonde nel suo sistema produttivo è una
tendenza che va invertita, ma purtroppo non lo possono fare da soli gli
imprenditori. Tuttavia se chiediamo al Governo e agli altri interlocutori
sociali di fare la loro parte, dobbiamo essere noi i primi a fare la nostra.
Non portiamo la sfiducia fino al punto di dubitare in noi stessi. Mettiamo
a valore le qualità che la nostra storia, la nostra cultura ci hanno
consegnato: un mix pressoché unico di gusto estetico, propensione
alla soluzione dei problemi, combinazione di saperi, apertura e relazione
con gli altri, creatività individuale. Diventare più competitivi
si può. Considerati il privilegio che noi imprenditori abbiamo nei
confronti della collettività e la nostra legittima ambizione a essere
classe dirigente, si deve. Ci servono forse un po' più di coraggio
innovativo e certamente molta più fiducia nelle nostre capacità.
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