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  Dicembre 2012

Articoli n° 6
Luglio 2005
 
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l’innovazione “invisibile”
fuori il coraggio e la creativitÀ

PARTNERSHIP EUROPA-CINA
UN MATRIMONIO CHE S’ADDA FARE

l’innovazione “invisibile”
fuori il coraggio e la creativitÀ
L’Italia ha bisogno di mutazioni profonde nel suo sistema produttivo

Marco Tronchetti Provera
Vice Presidente Confindustria per Finanza d’Impresa, Diritto Societario e Fisco


Inutile girarvi intorno: la domanda che tutti ci facciamo e che soprattutto si fanno i cittadini italiani a qualsiasi latitudine è se il nostro Paese riuscirà a farcela, se riuscirà a uscire dalla gabbia della stagnazione. Ed è inutile anche girare intorno alla risposta: nessuno può saperlo. Sconfortante? Nient'affatto. Significa semplicemente che il destino non è segnato. Non è segnato nel bene, che pure ci auguriamo, ma neanche nel male, che invece esorcizziamo. Auguri ed esorcismi lasciano il tempo che trovano. Qui c'è solo una cosa da fare: rimboccarsi le maniche, lavorare, crescere. La crescita. Sembra di parlare dell'Araba Fenice. Sono più di vent'anni che l'Italia progredisce più lentamente degli altri Paesi, di antica o di più recente industrializzazione. Una palese contraddizione con le nostre capacità: di lavoro, di innovazione, d'imprenditorialità. Ma evidentemente né il lavoro, né l'innovazione, né l'imprenditorialità, sono mediamente ai livelli necessari. Con le dovute eccezioni. Perché in Italia comunque sono riuscite a emergere realtà aziendali che si stanno facendo valere nel mondo: al di là di quel che si può dire sul sistema produttivo nel suo complesso, c'è stato in Italia chi ha saputo fare impresa bene e chi meno bene; chi ha saputo affermarsi e chi no. Solo che la vita per i bravi è stata più difficile che altrove. Uscire dalle difficoltà si può, se si vuole. Anche nella vecchia Europa. La Germania apparentemente non sta meglio di noi e ha certo i suoi problemi seri, ma intanto è l'unico tra i Paesi del G7 che negli ultimi cinque anni - e nonostante la Cina! - ha migliorato la sua quota nel commercio mondiale grazie anche a un aumento della produttività che non ha niente da invidiare agli Stati Uniti. La Francia, che peraltro se la passa meglio delle altre grandi economie continentali, sta puntando ad accelerare il tasso di innovazione della propria industria.
L'innovazione: una capacità che i tedeschi hanno diffusa (grazie anche alla qualità delle loro risorse umane) e che stanno coniugando da ormai alcuni anni con un sensibile contenimento del costo del lavoro; una capacità che i francesi vogliono rilanciare coniugandola con ciò che di meglio hanno e cioè, più che l'indubbia qualità della pur invasiva amministrazione pubblica, con la loro grande passione per le tecnologie di punta e il loro formidabile senso della sfida nazionale. E noi? Naturalmente l'Italia è altra cosa rispetto a Germania e Francia. Di sicuro non possiamo paragonare a quelli tedeschi o francesi il livello di qualificazione del nostro fattore lavoro, il volume dei nostri investimenti in ricerca, il peso dei nostri settori tecnologicamente avanzati e tanto meno l'efficienza dell'amministrazione pubblica. Quanto al senso della sfida nazionale, abbiamo sempre bisogno di qualche emergenza che lo susciti. A dire il vero, l'emergenza c'è. Lo dicono tutti gli indicatori e lo sentono i cittadini sulle proprie spalle. Quel che colpisce e contrasta con la storia civile del Paese degli ultimi cinquant'anni è che questa volta di fronte ad una situazione veramente critica - anche perché l'Italia è il solo grande Paese in tale condizione - non sembra che sia la volontà di fare e cambiare a prevalere.
Stiamo vivendo in una sorta di limbo. Tutti si aspettano che sia qualcun altro a fare il primo passo e naturalmente nulla o quasi si muove. Ma più scorre il tempo e più le scelte si fanno difficili, impegnative e onerose. Se l'Italia è sempre meno capace di creare ricchezza, il problema dell'allocazione delle poche risorse disponibili si fa più arduo e l'urgenza di interventi anche impopolari più pressante. Ma la questione non sta solo nelle mani - e nelle responsabilità - del Governo. Credo che ci riguardi tutti. Capisco che "il coraggio, uno non se lo può dare". Ma l'imprenditore, per sua scelta, non è un Don Abbondio. Come ha avuto il coraggio di cominciare, deve avere il coraggio di portare avanti la sua battaglia e fare lui, se altri non lo fanno, il primo passo. «Noi industriali - disse Angelo Costa in uno dei suoi più importanti interventi all'Assemblea di Confindustria, nel 1949 - più di ogni altra categoria, abbiamo il diritto di essere classe dirigente del Paese, ma di questo diritto dobbiamo essere degni»; cioè «capaci di produrre maggiore ricchezza non solo nel nostro interesse, ma anche in quello della collettività». Essere degni di questo diritto oggi ha un nome ben preciso: innovazione, appunto. In Italia, in realtà, se ne fa molto più di quel che si dice e che i depositi di brevetti documentano. Ciò che manca, a mio parere, è un approccio sistematico, metodico, continuo a questa innovazione invisibile, ma sono anche quelle scelte strategiche forti, quelle scelte d'investimento che puntino a raggiungere traguardi importanti a cinque, a dieci anni.
Non c'è ambito industriale in cui non si possa fare qualcosa di nuovo e di diverso per quel che riguarda i prodotti, il modo di produrli e commercializzarli, il modo di fornire o utilizzare i servizi, il modo di organizzare e distribuire geograficamente le risorse. Non lasciamoci ingannare dai soliti discorsi sulle produzioni "mature". Di maturo non c'è niente. Quando c'è creatività e voglia di innovare anche il prodotto più tradizionale può diventare tutt'altra cosa - produttivamente e tecnologicamente parlando - rimanendo se stesso, ma con molto valore aggiunto in più. Se questo - e penso alla mia personale esperienza - può avvenire nella produzione di un bene così "tradizionale" come gli pneumatici, può avvenire quasi dovunque. Un'innovazione molto più intensa, molto più radicale di quella che tradizionalmente ha caratterizzato il sistema industriale italiano presuppone tante cose. Per esempio, la capacità di sfruttare quel formidabile strumento di produttività che, come insegna l'esperienza americana, sono le tecnologie dell'informazione. Ma non solo. Occorre investire di più nella formazione e riqualificazione delle professionalità. Occorre sviluppare una più solida e più diffusa "cultura del brevetto": per molte piccole imprese la protezione della proprietà intellettuale può essere un traguardo molto complicato da raggiungere, ma tutto ciò che crea un differenziale competitivo va salvaguardato. Occorre investire in modo mirato sulla ricerca, per recuperare terreno nelle aree produttive che possono rafforzare la nostra capacità di produrre valore aggiunto (l'Italia si colloca troppo in basso, e i suoi costi sociali non sono compatibili con questa posizione). E occorre fare di tutto per coinvolgere nella scommessa dell'innovazione il mondo della scienza, in cui non mancano i talenti. Giustamente, lamentiamo la debolezza dei legami tra università e imprese in Italia. Ma la sua spiegazione non sta nella cattiva volontà dell'una o delle altre; sta in buona sostanza nel fatto che ancora non sentono la reciproca necessità di un più stretto legame. Se non c'è ragione di parlarsi, perché farlo? Eppure quei pochi che lo fanno in genere non ne restano delusi; ma se anche fosse, nell'epoca della globalizzazione chi ha bisogno di scienza può andare a cercarla da qualsiasi parte nel mondo.
Certo, a penalizzare la capacità innovativa e la competitività italiane vi sono questioni - le riforme economiche e sociali - che non spetta agli imprenditori risolvere. L'innovazione è una questione di coraggio e di creatività. Ma anche di contesto più o meno favorevole. E il nostro certamente non è tra i più positivi. Non lo dimostra solo il fiacco andamento degli investimenti non immobiliari degli imprenditori italiani; lo dimostra - e da molti anni - il basso livello degli investimenti diretti esteri che arrivano nel nostro Paese, meno della metà di quelli che vanno in Spagna, un terzo della Francia. Per un Paese che ha un grandissimo bisogno di mutazioni profonde nel suo sistema produttivo è una tendenza che va invertita, ma purtroppo non lo possono fare da soli gli imprenditori. Tuttavia se chiediamo al Governo e agli altri interlocutori sociali di fare la loro parte, dobbiamo essere noi i primi a fare la nostra. Non portiamo la sfiducia fino al punto di dubitare in noi stessi. Mettiamo a valore le qualità che la nostra storia, la nostra cultura ci hanno consegnato: un mix pressoché unico di gusto estetico, propensione alla soluzione dei problemi, combinazione di saperi, apertura e relazione con gli altri, creatività individuale. Diventare più competitivi si può. Considerati il privilegio che noi imprenditori abbiamo nei confronti della collettività e la nostra legittima ambizione a essere classe dirigente, si deve. Ci servono forse un po' più di coraggio innovativo e certamente molta più fiducia nelle nostre capacità.

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