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  Dicembre 2012

Articoli n° 06
LUGLIO 2011
 
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FEDERALISMO, una scelta obbligata

Per il nostro Paese il rischio stagnazione è dietro l'angolo. Per evitarlo, le strade possibili da percorrere sono soltanto due: la drastica riduzione della spesa pubblica e la riforma della giustizia

È evidente che la scelta del federalismo più che un'opzione è diventata una necessità non più procrastinabile. Il federalismo è infatti l'unico strumento di cui la classe politica italiana oggi dispone per riorganizzare la spesa pubblica e porre fine al diffuso abuso di pratiche clientelari


Fuoco fatuo. I segnali di ripresa dell'economia nazionale registrati nei mesi scorsi si sono rivelati, infine, poco più che inconsistenti fiammelle.
Appena qualche giorno fa, nel rapporto annuale di metà anno sulle previsioni economiche, tagliando le stime sul Pil al +0,9% nel 2011 e al 1,1% nel 2012, gli economisti del Centro studi di Confindustria ci hanno ricordato che è stato «un errore fidarsi, con ottimismo superiore alla media, dei primi segnali di rilancio».
Tra i mali che affliggono il paese, impedendone la crescita, c'è l'enorme debito pubblico, che lascia nemmeno più briciole di risorse per gli investimenti. Stiamo ballando tutti sul Titanic, ma preferiamo infossare la testa nella sabbia, come gli struzzi: impegnati, come siamo, nella difesa dei privilegi acquisiti dalle caste alle corporazioni non realizziamo che stiamo affondando.
Al di là dell'effetto domino rappresentato dal possibile default della Grecia, che pure ci riguarda, il rischio stagnazione è dietro l'angolo per l'Italia.
Per evitarlo, le strade possibili da percorrere sono soltanto due, e non è detto che non debbano incrociarsi in qualche punto e per un lungo tratto: una manovra aggiuntiva di ulteriori 18 miliardi (oltre ai 39 già previsti) oppure varare riforme strutturali subito. Oggi, non domani. Su quest'ultimo aspetto, per quanto ampio il ventaglio degli interventi (tra rami secchi da tagliare e lacci e lacciuoli da rimuovere, ce n'è una selva), lo spettro delle possibili soluzioni obbliga, intanto, a perseguire immediatamente due obiettivi: la drastica riduzione della spesa pubblica e la riforma della giustizia.
Quest'ultima, evidentemente, non per gli assilli, in materia, del Premier, di cui non vale neanche più la pena parlare, ma semplicemente perché una macchina della giustizia appena più veloce si traduce in crescita del Pil. Il Centro Studi di Confindustria ha calcolato, infatti, che una semplice riduzione del 10% della lunghezza dei processi in Italia aggiungerebbe lo 0,8% al Pil nazionale.
Se, poi, la riduzione dei tempi del processo arrivasse al 60%, il recupero sarebbe di oltre due punti. Diverso e anche meno complicato, tutto sommato, il ragionamento sulla necessità di ridurre la spesa pubblica, nell'ambito della quale, per dire, il conto economico 2009 delle pubbliche amministrazioni fa registrare entrate per 718 miliardi e 54 milioni di euro e uscite per 798 miliardi e 854 milioni di euro.
Con un saldo negativo, cioè, di oltre 80 miliardi, di cui la quota degli investimenti ha un saldo negativo di quasi 50 miliardi. Pubbliche amministrazioni, tuttavia, assai larghe di maniche con i propri dipendenti, se è vero ed è vero che dal 1980 al 2009 gli stipendi sono saliti in termini reali del 43,9% contro il 26,9% dei privati, sicché un dipendente pubblico in media guadagna quasi 8.900 euro in più all'anno rispetto al collega impiegato nel privato.
É evidente che, in questo quadro, la scelta del federalismo (se n'è parlato recentemente a Caserta, vedi resoconto a pag. 24) più che un'opzione, è diventata una necessità non più procrastinabile, ormai. Nel senso che il federalismo è l'unico strumento di cui la classe politica italiana piaccia o meno oggi dispone per tentare di riorganizzare la spesa pubblica.
E porre fine si spera al diffuso abuso di pratiche clientelari mirate unicamente ad acquistare il consenso elettorale e non invece a garantire il bene pubblico. Sia benedetta, allora, questa riforma che obbliga finalmente il ceto dirigente alla responsabilità, con tutto quello che ne consegue.
Le riforme, del resto, possono essere programmate dai governi, imposte dai mercati oppure obbligate dalla piazza. E la prima ipotesi è di gran lunga da preferirsi.

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