CONFINDUSTRIA CAMPANIA
l’intervista A Luigi nicolais - La pa deve imparare
ad avere “uno sguardo lungo”
l’intervista A Daniele capezzone - Sette giorni
per un’impresa
l’intervENTO A Enzo boccia - I numeri da brivido
della PA italiana
l’intervISTA A Andrea abbamonte - Anche la trasparenza rallenta la macchina amministrativa
Riforma della P.A.:
le resistenze al cambiamento
L’Italia offre alle imprese un ambiente ostico, caratterizzato da ipertrofia normativa, disfunzioni organizzative
e lentezza della giustizia
a cura dell’avvocato Fabrizio MURINO
La qualità della pubblica amministrazione è un fattore decisivo per la competitività delle imprese, le quali hanno un ruolo cardine nella crescita del "sistema Paese": il loro intervento sul territorio crea occupazione, beni utili ai cittadini, circolazione di moneta, entrate fiscali indispensabili ai fini del finanziamento di settori strategici per la collettività (istruzione, sanità, ordine pubblico, welfare). Ne consegue che il problema della costruzione di un rapporto virtuoso tra p.a. ed operatori economici è di straordinaria attualità.
Le imprese dovendo fare i conti con l'attuale repentina mutevolezza delle condizioni di mercato (vincoli dell'UE, globalizzazione, crescita vertiginosa delle economie asiatiche, innovazione dei processi e dei prodotti), devono verificare la riallocazione continua della produzione e operare scelte molto rapide anche per il mantenimento occupazionale.
Per un Governo ed una pubblica amministrazione che intenda effettivamente operare per creare condizioni di benessere diffuso, diventa essenziale determinare un miglioramento del contesto generale nel quale esse devono operare.
L'Italia attualmente offre alle imprese un ambiente ostico, ancora fortemente condizionato dal "rischio amministrativo", cioè dall'insieme di elementi negativi riconducibili alle regole ed ai comportamenti della p.a.: ipertrofia normativa, disfunzioni organizzative, scarsa cultura innovativa della dirigenza, carenza di un puntuale regime di responsabilità correlato ai danni causati dalla inerzia, lentezza della giustizia e non risolutività delle sue pronunce. E il "rischio amministrativo", che può essere in sintesi rappresentato come un gravoso "onere obbligatorio" per chi intende investire, determina la regressione dell'indice di competitività complessiva del nostro Paese e la progressiva marginalizzazione della sua economia.
Nella classifica del "Global competitiveness report" stilata dal Word Economic Forum per il 2003-2004, l'inefficienza dell'apparato burocratico è indicato come la principale causa della scarsa competitività dell'economia italiana; un fattore di debolezza ancora più importante della pur grave inadeguatezza delle infrastrutture, della legislazione del lavoro ancora eccessivamente restrittiva, della tassazione troppo elevata. A causa di tali elementi, nella graduatoria sulle potenzialità di crescita di circa cento Paesi, l'Italia è scesa dal trentatreesimo posto del 2002, al quarantunesimo nel 2003, al quarantasettesimo nel 2004 e nel 2005; l'Inghilterra è al tredicesimo posto, la Germania al quindicesimo, la Francia al trentesimo (W.E.F. 2005).
Eppure, il tema della razionalizzazione dell'apparato amministrativo e della semplificazione dei suoi procedimenti, nonostante il susseguirsi di interventi legislativi ad hoc, è un nodo ancora desolatamente irrisolto. Talché, la p.a., che dovrebbe rappresentare il più efficiente volano di sviluppo del sistema economico nazionale, continua con miopia a frustrare l'attività di impresa.
Fattori critici: iper regolamentazione ed inefficienza
Nel ventesimo secolo i governi di tanti Paesi hanno introdotto regolamentazioni molto rilevanti dell'attività delle imprese, ritenendo che essa andasse disciplinata sia sotto il profilo economico (tetto ai prezzi di alcuni prodotti, ridistribuzione del reddito), sia sotto quello sociale (tutela della sicurezza dei lavoratori, del consumatore, dell'ambiente), sia sotto quello amministrativo (controllo dell'attività con imposizione di formalità amministrative e di procedimenti autorizzatori). Solo verso la fine degli anni settanta ci si rese conto che una tale scelta aveva generato un sistema fuori controllo. E, soprattutto, ingiustificatamente oneroso per le imprese.
Una indagine condotta da Cassese e Galli nel 1998 rilevò che negli anni novanta l'Italia "vantava" oltre 100.000 leggi vigenti, la Francia ne aveva 7.000, la Germania 5.000, la Gran Bretagna solo 3.000. Una delle conseguenze di un tale parossismo normativo, secondo la ricerca Cassese-Galli, era che ogni anno una impresa era costretta mediamente a 190 contatti con la p.a., dalla quale subiva circa 15 controlli attinenti l'ambiente, la sicurezza sul lavoro, la previdenza sociale. A distanza di quasi un decennio, la situazione non è granché mutata se proprio l'attuale Ministro per la Funzione pubblica, Luigi Nicolais ha recentemente riferito, nel corso della sua audizione presso la I Commissione del Senato del 4 luglio 2006, che per aprire una carrozzeria in Italia sono oggi necessari 76 adempimenti presso 18 amministrazioni diverse (!). Ma la stratificazione regolamentare non caratterizza solo i procedimenti autorizzatori. Basti pensare alla materia fiscale, in cui un'incessabile attività normativa di Stato, Regione, Comune ed altri vari soggetti (Consorzi di Bonifica, Consorzi ASI, ecc.) produce una sempre mutevole babele di imposte, tasse, contributi e balzelli vari. Ne consegue che, non solo le imprese sono soggette ad oneri la cui entità risulta tra le più alte dei Paesi industrializzati, ma anche che esse sono costrette a dotarsi di un costoso staff di consulenti (consulente finanziario, legale, tributario) che assicuri loro una corretta interpretazione ed attuazione della disciplina al momento vigente. E cosa dire, poi, del tema degli incentivi economici e del continuo ripensamento del Governo e delle Regioni sulla scelta tra incentivi automatici ed altri regimi di aiuti? Si può mai esprimere un giudizio positivo sull'utilizzo in favore dell'impresa dei finanziamenti attribuiti dalla UE per la crescita economica dei territori compresi nelle aree definite di "Obiettivo 1", quando la loro attribuzione è prevalentemente delegata dalle Regioni ad una messe di incomprensibili strumenti concertativi "fotocopia", quasi sempre del tutto inadeguati ad un tale ruolo (in Campania Patti Territoriali, Contratti di programma, PI, PIR, GAL,)? E come commentare la balzana "settorializzazione" della "488"?
Per di più, anche nell'affrontare temi nuovi il nostro Paese non ha saputo approntare risposte semplici ed efficaci. Cosa è stato, ad esempio, della grande questione della "privacy", svilita da una disciplina che piuttosto che centrare concretamente l'obiettivo di tutela, ha generato un magma di inutili vincoli e di complicatissimi adempimenti amministrativi che si sono tradotti in ulteriori, elevati oneri economici a carico degli imprenditori?
Una così gravosa situazione di disagio diventa, poi, assolutamente insostenibile quando l'elevato numero di norme e di procedimenti amministrativi si combinano con l'inefficienza delle amministrazioni. I molteplici controlli della p.a., pur di dubbio senso con una burocrazia efficiente, diventano insostenibili nel caso contrario, poichè allungano i tempi di attesa e possono generare fenomeni di discrezionalità impropria da parte dell'amministrazione, potendo essa decidere quali procedimenti accelerare e quali rallentare. In proposito, va sottolineato che dirigenti e funzionari amministrativi appaiono spesso (tranne le felici e non rare eccezioni) poco pronti, da un punto di vista culturale, a recepire i cambiamenti che dal mondo esterno si irradiano sulla amministrazione pubblica. Così, di frequente, il loro atteggiamento conserva una caratterizzazione fortemente formalistica, legata ad una burocrazia che vive ancora di atti e non di risultati e la loro attività si svolge su un piano di asfissiante controllo del rispetto di prescrizioni di qualsivoglia natura, piuttosto che dipanarsi per favorire la migliore soluzione possibile dei problemi, per assicurare qualità dei servizi, per creare condizioni attrattive di investimenti sul territorio. Tutto ciò trova il suo naturale "humus" nella anacronistica rigidità del lavoro nel pubblico impiego, nella distorta applicazione del meccanismo della "premialità" (che quasi sempre, per non scontentare nessuno, scatta "a pioggia") e nella sostanziale irresponsabilità dei funzionari rispetto a comportamenti censurabili e dannosi per gli utenti. Tutto questo, alla fine, si può "semplificare", per gli operatori economici, in un'unica parola: "costo".
Nel 1996, il Centro Studi di Confindustria realizzò una ricerca con la quale cercò di quantificare il costo complessivo dei vincoli burocratici, tenendo conto sia degli oneri interni (giornate dedicate ai contatti con la p.a. ed agli adempimenti amministrativi) sia di quelli esterni (per consulenze professionali e spese legali): ne risultò un costo superiore all'1% del PIL. Tale cifra, pur essendo di per sé assai rilevante, tuttavia non contemplava altri elementi essenziali (ritardi di attuazione dei programmi aziendali, investimenti non effettuati per i lunghi tempi necessari, perdita di opportunità di finanziamenti, incertezza sulla positiva conclusione dell'iter in corso e conseguente disincentivazione ad operare).
Successivamente, una indagine promossa nel 2002 da Formez e Fondazione Rosselli stimò che i costi per gli adempimenti amministrativi gravavano sulle imprese per circa 10 miliardi di euro annui; in particolare, emerse che il costo medio sostenuto da ciascuna impresa per la gestione solo dei principali adempimenti amministrativi era di 33.000 euro per le imprese da 10 a 49 addetti, 66.000 euro per quelle da 50 a 99 addetti, 116.000 euro per quelle da 100 a 499 addetti, 320.000 euro per quelle da 500 addetti in su. Siffatte cifre - peraltro riferite a quattro anni orsono - non hanno bisogno di alcun altro commento.
Evoluzione degli strumenti normativi per il riassetto e la semplificazione della P.A. in Italia
Bisogna ammettere che dal 1990 l'Italia ha vissuto una stagione senza precedenti nella storia delle riforme amministrative dall'unità in poi. Fra il 1990 ed il 2005 sono state approvate leggi di riassetto che per numero e rilevanza superano quelle di qualsiasi altro periodo della storia d'Italia: procedimento amministrativo e pubblico impiego, elezione diretta dei Sindaci, dei Presidenti di Provincia e di Regione, privatizzazione di imprese pubbliche, riordino dei ministeri, semplificazione amministrativa, sistema dei controlli, federalismo fiscale, ecc.. Le principali direttrici strategiche delle riforme furono individuate, nell'ottica di una rinnovata lettura dell'art. 97 della Costituzione che prendeva atto di una inesorabile contrazione dei poteri autoritativi della p.a., lungo la direttrice della semplificazione delle procedure amministrative, del rafforzamento degli organi di governo, della valorizzazione delle autonomie locali. La stagione del rinnovamento si aprì con le leggi n. 142 e n. 241 del 1990 che introdussero una regolamentazione generale dell'autonomia degli enti locali, sottolineando esplicitamente le esigenze di efficacia, efficienza, celerità ed economicità dell'attività amministrativa. La legge n. 142 cercò di stabilire ordine nella attribuzione delle funzioni amministrative fra i diversi livelli di governo locale. Alle Regioni, vennero, perciò, affidati compiti di legislazione, di programmazione e coordinamento del sistema delle autonomie locali, nonché di organizzazione dell'esercizio delle funzioni amministrative a livello locale, applicando il principio per cui esse esercitano normalmente le proprie funzioni delegandole a Province, Comuni e Comunità Montane. La legge 241 ruppe finalmente l'isolamento della p.a. dalla società civile, consentendo ai privati di intervenire nel procedimento, di prendere visione degli atti procedimentali, di poter contare su un termine certo di chiusura delle pratiche, di poter concludere con l'amministrazione un accordo sostitutivo del provvedimento amministrativo normalmente da adottare. Nello stesso anno fu emanata la misconosciuta e mai applicata legge n. 50 che introdusse, seppure a livello sperimentale, il sistema dell'analisi dell'impatto della regolamentazione (cd. "AIR") che prevede l'assoggettamento preventivo di ogni nuova norma ad una puntuale valutazione del rapporto costi/benefici, con la finalità di varare solo norme effettivamente necessarie ed efficaci.
Nel 1993, con la legge n. 81, fu sancita l'elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Province e Regioni, con l'obiettivo sostanziale di determinare uno stretto rapporto di causa-effetto tra efficienza amministrativa e consenso politico.
Successivamente, l'allora Ministro della Funzione pubblica, Franco Bassanini, promosse l'emanazione di tre leggi di grande rilievo, conosciute ancor oggi con il suo nome: la n. 59 (cd. legge Bassanini) e la n. 127 (cd. Bassanini bis) del 1997 e la n. 191 del 1998 (cd. Bassanini ter). Il principio fondante della riforma Bassanini fu l'esigenza di avvicinare lo Stato ai cittadini, semplificando massimamente il sistema normativo sulla base di una nuova concezione della amministrazione, che valorizzasse il criterio dell'efficacia (e quindi il risultato), accanto a quello più tradizionale della legittimità (forma, dunque, atti). Ne derivò il trasferimento dallo Stato alle Regioni ed agli altri enti locali di tutte le funzioni amministrative connesse alla cura degli interessi ed alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità o localizzabili nei territori. Nacque così, il principio della sussidiarietà. Furono introdotti anche altri importanti principi: la netta separazione tra esercizio di funzioni politiche e di funzioni amministrative, la autonomia regolamentare ed organizzativa degli enti locali, la copertura finanziaria delle azioni amministrative, la semplificazione dei procedimenti e la deregolamentazione (l'art. 20 della l. n. 59/97 prevede che il Governo debba presentare ogni 31 gennaio un d.d.l. teso a conseguire la delegificazione di norme concernenti procedimenti amministrativi ed a riordinare e semplificare le materie attraverso la concentrazione in un unico testo).
Nel 1998 venne emanato il D.Lgs. n. 112, da citare perché, nell'ambito di un riassetto di funzioni e compiti tra Stato e Regioni, introdusse il "rivoluzionario" principio di semplificazione secondo il quale le funzioni concernenti l'attività di impresa si esercitano attraverso un unico procedimento ed un unico strumento: lo Sportello Unico per le Attività Produttive.
Assoluto rilievo, per le implicazioni relative al tema trattato, assume la modifica del titolo V della Costituzione, avvenuta con la legge costituzionale n. 3 del 2001. La modifica dell'art. 117 della Costituzione ha determinato la ripartizione della potestà legislativa di Stato e Regioni, elencando le materie di legislazione esclusiva dello Stato, quelle di legislazione concorrente tra Stato e Regioni e prevedendo la potestà legislativa delle Regioni per le materie non espressamente riservate allo Stato. La nuova formulazione dell'art. 118 Cost. ha, poi, stabilito l'attribuzione delle funzioni amministrative ai Comuni (salvo che esse non siano conferite a Province, città metropolitane, Regioni e Stato). Infine il nuovo art. 119 ha affermato l'autonomia finanziaria delle autonomie locali.
La legge n. 229/2003 ha introdotto alcune norme incentrate sul principio di liberalizzazione dell'attività produttiva; tale legge ha, infatti, disposto l'eliminazione degli interventi amministrativi autorizzatori e delle misure di condizionamento dell'autonomia contrattuale «ove non vi contrastino specifici interessi pubblici» ed ha sancito l'obiettivo della revisione e della riduzione delle funzioni amministrative non direttamente rivolte ad una serie predefinita di finalità di interesse generale, nonché l'eliminazione dei limiti all'accesso ed all'esercizio dell'attività economica.
Molto significative sono state le innovazioni apportate alla legge n. 241/90 dalla legge n. 15/2005. Il fondamentale principio da esse introdotto è contenuto nell'art. 1 bis, secondo il quale, la p.a., nell'adozione di atti di natura non autoritativa (ordinanze, decreti, ecc.), agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga altrimenti. Si tratta di una norma di eccezionale portata innovativa. Essa, invero, impone una profonda inversione culturale agli operatori della p.a., mettendo in crisi il modello formalistico secondo il quale essi erano abituati ad operare, inducendoli ad assumere una attitudine negoziale nei rapporti con i privati. In tale ottica la l. n. 15/05 ha anche sensibilmente ampliato la possibilità di utilizzo dello strumento degli accordi (tra amministrazione e privato) sostitutivi del provvedimento.
Di grande rilievo sono anche le modifiche apportate alla previgente disciplina della "conferenza di servizi" (artt. 14 e 14 bis l. n. 241/90). L'art. 8 della l. n. 15/05 ha, infatti, reso la conferenza di servizi preliminare, relativa ad insediamenti complessi e produttivi, convocabile anche su motivata istanza dell'interessato, sulla base di un semplice studio di fattibilità; tale strumento è così diventato, almeno potenzialmente, un efficace modello di semplificazione di cui le imprese possono avvalersi direttamente.
Vanno, poi, segnalate alcune riforme introdotte alla disciplina della l. n. 241 dal D.L. n. 35/2005 ( poi l. n.80/05.) La più importante riguarda l'art. 20 della 241, con l'affermazione del principio generale che il silenzio dell'amministrazione, ove sia protratto oltre il termine prescritto di conclusione del procedimento, vale come assenso. Tuttavia la positiva portata semplificativa, di tale norma è contraddittoriamente compressa dalle previsioni di sbarramento per una sequela di materie e di casi. Infine, un breve cenno va fatto al d.lgs. n.82/2005 che ha introdotto il cd. "Codice dell'amministrazione digitale". Con il varo del "C.a.d." è stato affrontato, per la prima volta in modo organico, il tema dell'utilizzo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione nella P.A.. Trattasi di una disciplina giuridica che può contribuire non solo alla erogazione di servizi più efficienti e veloci, ma anche a consentire forme innovative, più aperte e democratiche, di partecipazione alla vita amministrativa e politica. Essa, in particolare, impone alle amministrazioni pubbliche, entro il periodo tra giugno 2007 e gennaio 2008, adempimenti di grande impatto semplificativo: accesso degli utenti ai documenti ed ai procedimenti amministrativi, nonché effettuazione di pagamenti mediante strumenti ICT; utilizzazione della posta elettronica certificata per scambio di documenti e di informazioni con i privati richiedenti; organizzazione dei S.U.A.P. in modalità informatica, con erogazione dei servizi in via telematica; predisposizione presso il Ministero delle Attività produttive di un registro informatico degli adempimenti delle imprese (con l'elenco puntuale e certo di ciò che è necessario per l'avvio e l'esercizio di un'impresa e con una specifica banca dati); predisposizione di modulistica in modalità informatica; dotazione di procedure e strumenti per la verifica della "firma digitale"; convocazione telematica delle conferenze di servizi; dotazione di una casella di posta elettronica certificata; dotazione del protocollo telematico; dotazione ai cittadini della carta d'identità elettronica (con la quale poter anche accedere ad una serie di servizi amministrativi); predisposizione di siti completamente interattivi.
Dalla esposizione normativa appena conclusa si direbbe che il nostro Paese negli ultimi anni abbia fatto passi giganteschi in materia di riassetto della p.a. e di semplificazione amministrativa. É innegabile che vi sia stata una reale sensibilità di Governo e Parlamento circa l'importanza del problema. Eppure, nonostante tutti gli sforzi messi in campo, non si riscontrano i risultati sperati, né si avvertono quei forti segnali da cui si possa desumere una benefica inversione di tendenza. Purtroppo, anche in questo campo, sembra essersi affermata la italica logica "gattopardesca" dell'immutabilità dello "status quo" nonostante qualsiasi cambiamento.
Il raffronto con i Paesi industrializzati
É utile soffermarsi brevemente su alcuni rapporti di autorevolissimi organismi internazionali recanti analisi di dati risalenti agli anni 2001-2002, vale a dire, a circa 12 anni dalle riforme introdotte dalle Leggi 142 e 241 ed a circa 5 anni dalle prime due leggi Bassanini. Nella classifica relativa all'incidenza delle nuove leggi sulla competitività economica (Word competitiveness Yearbook 2002), l'Italia occupa la ventunesima posizione, dietro, tra le altre, ad l'Irlanda (8°), Austria (9°) e Spagna (10°). Peggio accade nell'analisi del livello qualitativo delle infrastrutture, nella cui graduatoria (da Word economic forum: "The "Global competitiveness report" 2002-2003), il nostro Paese risulta al trentacinquesimo posto, a ruota anche del Portogallo. Ma assai allarmante si presenta la condizione del nostro Paese, il quale appare agli ultimi posti in tema di tempi necessari per risolvere una controversia contrattuale: 645 giorni (!), a fronte dei 39 dell'Olanda, dei 54 degli Stati Uniti, dei 60 del Giappone, dei 101 del Regno Unito, dei 154 della Germania e perfino dei 315 della Grecia! (da G.C.R.cit.); cosicché il 38% delle imprese preferisce rinunciare alla riscossione di, pur sacrosanti, crediti.
L'Italia, secondo l'Ocse, è anche agli ultimi posti per grado di istruzione medio-alta: solo il 13% della forza lavoro tra i 25 ed i 64 anni è laureata, mentre negli Stati Uniti lo è il 41%, nel Regno Unito il 29%, in Francia il 26%.
Secondo una classifica 2001 della Commissione Europea, avente ad oggetto le difficoltà ad avviare un'attività imprenditoriale in termini di oneri amministrativi, il nostro Paese è settantaseiesimo, su ottanta nazioni censite, in buona compagnia con il Portogallo e dietro la Grecia. In valore assoluto, avviare un'impresa - secondo un rapporto ("Doing business") della Banca Mondiale del 2006 - costa 4.101 dollari in Italia, contro i 207 dollari degli Stati Uniti, i 238 dollari del Regno Unito, i 361 dollari della Francia. Il medesimo documento colloca il nostro Paese al sessantesimo posto su 152 per il numero degli adempimenti occorrenti per avviare un'impresa. Più in dettaglio, in Italia, al momento dell'analisi 2001 della CE, erano necessarie mediamente ben 13 procedure amministrative per registrare una impresa (in Canada, 2, in Irlanda, 3, nel Regno Unito, 5) e 64 giorni per l'avvio di una nuova impresa (in Canada, 2 giorni, in Danimarca, 3 giorni, nel Regno Unito, 5 giorni). Sul tema, il citato rapporto Confindustria del 1996 aveva già evidenziato che occorrono in media 8 mesi per la realizzazione di uno stabilimento, termine che, a volte, slitta anche a 5 anni. Di grande significato è il rilievo (da W.C.Y. 2002 cit) sul grado di ostacolo determinato dalla burocrazia all'attività d'impresa, dal quale l'Italia, sui 46 Paesi censiti, risulta al 41° posto, dietro Finlandia (2°), Irlanda (8°), Regno Unito (28°) Francia (34°), Grecia (40°). Ma esso assume ancor più pregnanza se comparato a quello del 1997 - anno del varo della "Riforma Bassanini"- che segna l'Italia al 46° posto. Appare evidente che, nonostante un poderoso riassetto della P.A. - comportante deregolamentazioni e semplificazioni procedimentali - la zavorra burocratica ha ceduto pochissimo e che, sostanzialmente, la P.A. italiana continua a non stimolare l'attività d'impresa. Tutti i dati fin qui riportati danno, più di tanti ragionamenti, il senso della grave anomalia del sistema amministrativo italiano e delle resistenze al cambiamento.
Le proposte
Cosa si può fare, allora, per affermare finalmente un modello di good governance che, partendo dal sensibile miglioramento delle performances amministrative, sappia fornire al sistema economico italiano i mezzi per ridurre l'attuale divario di competitività con gli altri Paesi industrializzati?
Innanzitutto, è opportuno partire dalla consapevolezza che i problemi da affrontare sono sostanzialmente due, i soliti due: a) l'ipertrofia e la complicazione delle regole; b) l'inefficienza burocratica. Circa il tema delle regole, mutuando l'esperienza dei Paesi che vantano i migliori risultati, bisognerebbe ricorrere ad alcune specifiche tecniche: la delegificazione, la deamministrativizzazione, la deregolamentazione, la semplificazione e la flessibilità dei procedimenti amministrativi.
La delegificazione è una scelta di opportunità, in funzione della flessibilità della normazione, che, però, in se stessa comporta solo la concentrazione delle norme in testi unici, non necessariamente la riduzione del numero e dell'incidenza. Dunque, è utile in termini di chiarezza e di certezza del diritto ma non è risolutiva sotto il profilo della riduzione delle regole. In ogni caso, bisogna condurre a semplicità e coerenza l'attuale quadro normativo: la disciplina deve essere chiara, facilmente accessibile ai destinatari e non contraddittoria. Vanno abolite le disposizioni inutilmente dettagliate che, più che certezza giuridica, generano deleterie rigidità. A tal proposito, v'è da rammentare che recentemente il Legislatore nazionale (legge di semplificazione 2005), ha proceduto a delineare un riordino normativo per settori omogenei o per materie di tutta la normativa di competenza statale pubblicata prima del 1970, prevedendo l'abrogazione, entro due anni, di tutte le disposizioni ritenute dal Governo obsolete.
La deamministrativizzazione consiste nel sottrarre interi settori alla regolazione amministrativa. É una misura di grande prospettiva, soprattutto alla luce del riferito principio generale introdotto dalla L. n.15/05, secondo cui la p.a., quando non esercita poteri autoritativi, agisce secondo norme privatistiche. Ma non è ancora diffusa a causa della attuale difficoltà - o meglio, della limitata disponibilità- di Stato e Regioni ad individuare settori in cui gli interessi pubblici cedano il campo ai diritti dei singoli.
La deregolamentazione è tesa a limitare la normativa pubblica ai casi in cui essa è necessaria, con obiettivi chiaramente individuati e con il rispetto del requisito della proporzionalità (vale la pena di ricordare che in Italia vigono ancora norme risalenti al 1865). A tal fine, si ritiene essenziale procedere a dotare almeno le riforme più significative, dell'"Analisi dell'impatto regolamentare (AIR)", magari condotta dalle Università e con il ricorso a qualificati stakeholders (associazioni delle imprese, associazioni di consumatori) nonchè alla "Verifica di impatto della regolamentazione (VIR)", meccanismo di analisi ex post, finalizzato al riconoscimento di una sorta di "certificazione di qualità" delle nuove norme sulla base di una verifica del raggiungimento delle finalità e degli effetti prodotti sulle pubbliche amministrazioni, sui cittadini, sulle imprese. Con un tale sistema di "filtri" (preventivo l'uno, successivo l'altro) si impedirebbe l'emanazione o la vigenza di norme improduttive se non addirittura nocive per l'economia nazionale e, dunque, per l'interesse pubblico; altresì, si determinerebbero interventi normativi "concertati" di Stato e Regione, nella misura realmente necessaria e con le modalità più semplici ed efficaci.
La semplificazione e la flessibilità dei procedimenti amministrativi, in parte è conseguenza dell'applicazione delle tre tecniche in precedenza illustrate, in parte contempla una forte "liberalizzazione" delle pratiche amministrative concernenti interventi di natura concessoria o autorizzativa della p.a.. Prioritariamente occorre puntare alla riduzione dell'intervento pubblico nelle decisioni individuali di carattere economico, con specifico riferimento agli oneri ed ai vincoli che impropriamente condizionano o ritardano le scelte e le azioni imprenditoriali. Cosicché, ad esempio, un'impresa che intenda intraprendere, proseguire o modificare una qualsivoglia attività produttiva possa "autocertificare" il possesso dei requisiti necessari presso una sola autorità ed un solo ufficio (Comune-SUAP), provvedendo solo dopo aver compiuto l'intervento, a comprovare, con una essenziale documentazione, la veridicità di quanto dichiarato. Ma semplificare significa anche attrezzare, "sensibilizzare" la macchina burocratica per affrontare situazioni concrete tenendo presente non solo gli interessi collettivi ma anche quelli individuali. Il "buon andamento della pubblica amministrazione", di cui all'art. 97 della Costituzione, non può più misurarsi su un piano formale, badando solo a realizzare un astratto interesse generale; esso, al contrario, deve essere misurato con i peculiari problemi in campo, con la consapevolezza che realizzare un interesse privato, che sia, naturalmente, legittimo e qualificato, quasi sempre comporta una ricaduta in termini di benefici pubblici.
Nell'affrontare la questione dell'efficienza amministrativa bisogna che Governo e Regioni sostengano, con vigore e perseveranza, pochi ma ben qualificati interventi che possono essere così sintetizzati:
- Investimento sulla formazione continua del personale della p.a., con possibilità di scambio di esperienze significative (non gite di piacere) con colleghi italiani ed esteri.
- Intervento sulla attuale rigidità del pubblico impiego, con possibilità di un semplificato ricorso alla mobilità interna ed esterna, di rilevanti premialità per i soggetti più meritevoli e di licenziamento in caso di comprovata inerzia che produca danno agli utenti o alla stessa p.a..
- Investimento, senza risparmio di mezzi, sulle più moderne tecnologie di informazione e di comunicazione; puntuale rispetto dei tempi di operatività del Codice dell'amministrazione digitale: rapida sostituzione delle procedure e dei documenti cartacei coquelli digitali.
- Definizione di un termine massimo di risposta della p.a. alle istanze provenienti da privati con previsione automatica, in caso di mancato rispetto, del silenzio assenso, oppure, ove sia diversamente statuito, con rimborso per gli eventuali ritardi (sul modello della l. n.89/01 - cosiddetta "legge Pinto"- vigente in materia di contenzioso giudiziale) e con immediato addebito a carico del funzionario o del dirigente competente.
- Potenziamento degli Sportelli Unici per le Attività produttive: totale informatizzazione dei sistemi; titolarità al rilascio dell'autorizzazione unica; specializzazione in settori specifici ed innovativi; fornitura di informazioni sulla opportunità di impresa; fornitura di servizi integrati alle imprese connesse alla loro attività; formazione e conservazione del fascicolo informatico dell'impresa.
- Potenziamento dello strumento della Conferenza di servizi, con previsione di tempi certi per l'adozione del provvedimento finale e di iniziativa e di partecipazione dei privati.
Prendendo spunto da quanto finora rappresentato, oltre a tali riforme - già da tempo al centro del dibattito tecnico-politico, nonchè fortemente sostenute da Confindustria - si propone un ulteriore elemento innovativo, peculiarmente puntato sui rapporti tra p.a. e mondo economico. Quasi sempre l'amministrazione pubblica assume decisioni e svolge attività che direttamente o indirettamente coinvolgono interessi economici, senza alcun confronto con gli "addetti ai lavori". Ciò significa che tali scelte spesso sono frutto di processi che si sviluppano su un piano meramente teorico o, peggio, di ragionamenti estemporanei; altre volte esse sono determinate da contingenze politico-amministrative completamente avulse dalle esigenze degli operatori economici. Si pensi, ad esempio, alla elaborazione di uno strumento urbanistico generale, alla individuazione e alla progettazione di un P.I.P., alle decisioni inerenti la progettazione o la realizzazione di infrastrutture, alle scelte relative alla viabilità, a quelle inerenti la progettazione, l'attivazione o il riassetto dello S.U.A.P..
Ebbene, la riforma che si intende promuovere prevede: l'introduzione, con legge nazionale o regionale, dell'obbligo per la p.a. di consultazione delle associazioni datoriali nazionali e locali nella fase di elaborazione di nuove discipline normative (generali e di dettaglio), nonché nella fase di progettazione di azioni amministrative che direttamente o indirettamente producano effetti sull'attività di impresa; l'introduzione, con legge nazionale o regionale, del principio generale secondo cui, per l'esercizio delle proprie funzioni nel settore produttivo, la p.a. promuove, ove possibile, azioni comuni con le associazioni datoriali nazionali e locali per definire scelte condivise e per costruire attività o strumenti amministrativi in partnership.
É bene chiarire subito che in tali previsioni non v'è alcun intento di comprimere o di condizionare l'autonomia dei poteri e dell'azione della p.a..
La ratio della proposta è, invece, quella di dare trasparenza al processo di formazione delle regole in campo economico: un confronto sulle proposte in discussione, favorito da appropriate e lineari procedure di consultazione dei soggetti interessati, può consentire la piena valorizzazione di un consistente patrimonio di conoscenze estraneo al settore pubblico e la definizione di soluzioni condivise ed efficaci. Si vuole, così, dare forza e dignità normativa a quello spirito di collaborazione tra mondo della PA e mondo delle imprese sempre evocato e senza il quale il nostro Paese non è in grado di recuperare competitività di mercato nei confronti degli altri Paesi europei e di quelli asiatici.
Se si è convinti che la p.a. non possa essere ancora quella di un mondo e di un tempo che non ci sono, bisogna avere il coraggio di puntare su processi di riforma incisivi, che la rendano flessibile ai cambiamenti e capace di organizzare azioni adeguate. Dunque non ha senso il timore di "contaminarla" con contributi provenienti da terzi se questi possono positivamente indirizzarla nell'assumere decisioni impattanti in settori strategici per la vita dei cittadini e la crescita del sistema socio-economico.
In proposito, è opportuno segnalare che in Italia, al Sud, vi sono amministrazioni locali sensibili ai temi dello sviluppo che stanno già maturando esperienze fondate sui principi contenuti nella proposta di riforma. É il caso del Comune di Salerno, che sta per varare un interessante progetto di nuovo S.U.A.P. in partnership con Confindustria; in particolare, esso prevede che nella struttura tecnica vi sia la stabile presenza dell'associazione datoriale salernitana che, nell'ambito di un iter amministrativo fortemente semplificato, collabori fattivamente alla definizione delle pratiche, rappresentando, con cognizione, il punto di vista degli operatori economici.
Conclusioni
Per dotare l'Italia di una moderna p.a. le modifiche normative non sono sufficienti. Occorre curare quotidianamente la loro attuazione e superare le forti e diffuse resistenze al cambiamento; per questo è indispensabile un impulso politico permanente ed un forte coordinamento tra istituzioni centrali e locali.
Nessun successo di riforma della p.a. e di semplificazione delle sue regole e delle sue procedure potrà dirsi conseguito fin quando un tale cambiamento non sarà nitidamente percepito dai cittadini e dalle imprese.
Va tuttavia riconosciuto che nel nostro Paese non si può riportare tutta la pubblica amministrazione ad un unicum, poichè non tutta la p.a. italiana presenta i deficit culturali e di efficienza di cui finora si è discorso. Molte amministrazioni del Nord Italia hanno posto in essere azioni di semplificazione amministrativa assai favorevoli allo sviluppo competitivo. Alle volte, anche amministrazioni del Sud hanno saputo ben operare in questa direzione.
Da una recente ricerca Formez sugli indicatori regionali di capacità competitiva delle amministrazioni locali emerge che la qualità della semplificazione amministrativa è molto elevata in Lombardia, in Emilia Romagna e in Toscana. Ma è avanzata anche in Puglia ed in Basilicata. É molto scarsa, invece, in Campania. La qualità degli interventi legislativi a favore degli insediamenti produttivi è rilevante in Emilia Romagna e Piemonte. É deficitaria, al contrario, in tutte le Regioni del Sud, compresa la Campania.
L'operatività degli SS.UU.PP.AA. trova i suoi picchi in Toscana e in Emilia Romagna, ma è importante anche in Sicilia, in Abruzzo, in Calabria e nelle Marche. In Campania, nonostante il numero di tali strutture sia tra i più alti di Italia, l'operatività è tra le peggiori. Solo sulla qualità degli SS.UU.AA.PP. la Campania raggiunge livelli decorosi, anche se ancora molto distanti da quelli della solita Emilia Romagna, del Piemonte, della Toscana.
Sotto il profilo legislativo, poi, è interessante riportare e raffrontare le esperienze di due Regioni, entrambe strategiche nell'area geografica di contesto: la Lombardia, proiettata verso i mercati del Nord Europa e la Regione Campania, riferimento dell'area del Mediterraneo. Ebbene, v'è da ammettere che la Regione Lombardia, in materia di semplificazione ha saputo, con rapidità e profitto, esercitare i nuovi poteri e le nuove funzioni derivanti dalle modifiche al Titolo V della Costituzione. Essa, con l'adozione della legge n. 1/2005, titolata "Interventi di semplificazione - Abrogazione di leggi e regolamenti regionali - Legge di semplificazione 2004", ha dato prova di come sia possibile incidere efficacemente sulla "giungla" regolamentare e procedimentale. In sintesi: ha disposto l'abrogazione tout court di circa 200 atti normativi; ha introdotto l'obbligo di attivazione dell'AIR (Analisi di impatto della regolamentazione) per quasi tutte le leggi ed i regolamenti; ha liberalizzato l'attività di impresa, con l'esclusione di provvedimenti abilitativi, salvo nei casi espressamente previsti a tutela dell'art.41 Cost. o in ottemperanza ad obblighi di natura comunitaria; ha prescritto l'individuazione puntuale dei procedimenti di autorizzazione, di licenza o di assenso di cui si stima necessaria la sopravvivenza (con l'abrogazione di tutti gli altri) e di quelli per i quali non è applicabile il silenzio-assenso; ha stabilito che le conferenze di servizio si svolgano secondo procedure informali e siano aperte alla partecipazione dei privati interessati.
La Regione Campania, invece, sembra aver dato l'esempio opposto: con la legge n.17/2005, rubricata "Disposizioni per la semplificazione del procedimento amministrativo" (e composta da un unico articolo), ha disciplinato esclusivamente gli atti di competenza del Consiglio e delle commissioni consiliari, introducendo, sulla scia del Legislatore nazionale, il meccanismo del silenzio-assenso. Fine. (a parte, naturalmente, disegni di legge eternamente tali, convegni, seminari, corsi formativi, indagini e consulenze).
Al di là della non esaustività di un mero raffronto legislativo (comunque impietoso) o di meri dati statistici, è inconfutabile che vi siano in Italia amministrazioni pubbliche che, con grande qualità, fanno esattamente ciò di cui le imprese hanno bisogno e che spesso chiedono invano: "leggono" con prontezza i cambiamenti che provengono dal mondo esterno ed adeguano la loro azione a tali novità; queste stesse amministrazioni talvolta anticipano addirittura le istanze degli operatori economici, mettendo in campo attività e strutture che indirizzano le attività di impresa ed elaborando soluzioni a fattori di crisi, anche solo potenziali. Purtroppo al Sud, in Campania, si è ancora lontani da questo modo di fare amministrazione. Qui, di frequente, l'impresa è ancora un oggetto misterioso, qualcosa di avulso dai primitivi e "sicuri" ambiti di azione della burocrazia, un "fastidio" quando insiste per ottenere risposte che si perdono nei paludosi labirinti procedimentali.
Affermare che la p.a. è un fattore chiave dello sviluppo economico e sociale di un Paese comporta la responsabilità per Governo centrale e Governo periferico di moltiplicare gli sforzi per realizzare un profondo mutamento della "mission" dell'amministrazione pubblica e di mantenere costante il proprio impegno. Qualsiasi pur lungimirante strategia di intervento in materia di riforma della p.a. e di semplificazione dei procedimenti amministrativi, sarebbe del tutto priva di efficacia se non fosse accompagnata da un grande cambiamento nella cultura e negli atteggiamenti quotidiani delle amministrazioni. In un sistema economico globalizzato, anche in conseguenza del processo di integrazione europea e del boom delle economie asiatiche, la competizione tra Paesi avviene soprattutto in relazione alla qualità ed al costo dei servizio offerti dalla p.a..
Bisogna capire, dunque, che le situazioni di monopolio su cui le pubbliche amministrazioni si sono potute adagiare per anni si sono esaurite, se è vero che oggi le imprese non hanno alcuna difficoltà a localizzare in altri Paesi, in altri contesti territoriali più favorevoli, i loro stabilimenti produttivi.
Occorre che venga meno la convinzione ideologica che riducendo i vincoli normativi all'azione amministrativa, aumenti automaticamente l'arbitrio dei pubblici funzionari e percepire che, al contrario, proprio la attuale fitta rete di oneri burocratici alimenta l'inerzia, perché favorisce la richiesta ai pubblici funzionari di "facilitazioni" alla definizione di pratiche che altrimenti avrebbero una durata inconciliabile con le esigenze del privato.
Bisogna soprattutto comprendere che l'interesse pubblico non è un concetto astratto o qualcosa che trova la sua realizzazione solo con la minuziosa applicazione delle norme, anche di quelle più insignificanti, con una "più sicura" risposta negativa alla richiesta del privato, piuttosto che con una "più rischiosa" disponibilità. L'interesse collettivo, invece, si materializza proprio nel momento in cui l'amministrazione riesce ad agire secondo un "unicum sentire" con il privato, creando condizioni di collaborazione tali individuare, anche con uno sforzo aggiuntivo, la migliore soluzione possibile alla sua istanza. La buona amministrazione si realizza da un lato con una elevata capacità di adattamento alle mutevoli condizioni dell'ambiente esterno e dall'altro, accettando il principio dell'"accountability": trasparenza dell'azione e piena assunzione di responsabilità attiva nei confronti dei privati, con la conseguenza di fare tutto ciò che serve ai cittadini ed alle imprese ed accettare di essere chiamati a rispondere dei risultati negativi. É necessario essere finalmente consapevoli e convinti che favorendo il compimento di un legittimo interesse privato non si compie né peccato, né reato, che l'autorizzazione ad un insediamento produttivo non può generare casi di coscienza o passare attraverso stucchevoli dibattiti politico-culturali.
Se nasce una impresa su un territorio nasce una speranza di sviluppo per tutti: questa è la lezione che va imparata e praticata. Esattamente in tal senso va la specifica riforma proposta: "istituzionalizzare" la collaborazione tra PA e mondo delle imprese, riconoscendole il crisma di fattore irrinunciabile di sviluppo.
Quando ciò avverrà avremo una democrazia più matura. Potremo finalmente smettere di pensare e proporre ricette sempre nuove e immaginifiche per riformare la PA, potremo contare sull’effettiva applicazione di semplici e chiare soluzioni che negli altri Paesi ogni giorno danno dignità alle Istituzioni ed ai cittadini. |