Ormai proprio non c'è più tempo per abbandonarsi
a sterili fatalismi. Occorrono idee e strategie importanti
per cambiare rotta e sfuggire dall'insidia di un futuro che,
se si resta inermi, si tinge inevitabilmente di grigio. Questo è quanto
emerso dai numerosi confronti, dibattiti e discorsi tenutisi
a Capri in occasione dell'annuale kermesse dei Giovani Imprenditori
di Confindustria, nell'ottobre scorso. Da più parti,
in primis dalla squadra under 40 presieduta da un motivato
e propositivo Matteo Colaninno, si invocano interventi da “capitani
coraggiosi” per rilanciare il sistema economico italiano,
oggi in inequivocabile affanno. Negli affari, si sa, le cose
migliori da fare sono quelle semplici, ma farle è sempre
molto difficile. Sull'isola azzurra, però, esponenti
del mondo industriale, del sistema creditizio e politico, hanno
scommesso di farcela, dichiarando di non volersi arrendere
alla cultura del declino. Tra questi, riportiamo, in sintesi,
le analisi di Casini, Scajola, Urso, Barca, Modiano e Abete
sul da farsi perchè l'Italia torni a essere protagonista
dello sviluppo e della competizione sul mercato globale. La
partita del futuro è ancora aperta e, pare, nessuno
voglia rinunciarvi.
Pier
Ferdinando Casini
Presidente della Camera
Presidente,
per il nostro Paese è pensabile una governance
del coraggio?
In una situazione così difficile, affrontare con spirito
aperto il futuro che ci attende è possibile. Abbiamo
però bisogno di verità e onestà, due fattori
con cui si devono confrontare politica ed economia, per superare
la sensazione di incertezza in cui vive oggi l'Italia, che
sembra in attesa di un evento miracoloso per trascinarci fuori
dalle secche della stagnazione. In questa condizione, il rischio
dell'assuefazione o la speranza che le cose possano risolversi
da sole rappresentano l'ipoteca più insidiosa per il
futuro del Paese. Se non vogliamo rassegnarci al declino e
alla subalternità, per la politica come per l'economia
c'è una sola strada: verificare concretamente ciò che è stato
fatto in questi anni e quanto resta, invece, ancora da fare.
Sul finire della legislatura come Presidente della Camera mi
sento di affermare che il Parlamento ha svolto un ruolo assai
positivo nell'indirizzare la competizione tra gli schieramenti
politici secondo le regole del gioco democratico. I contrasti
e gli scontri, anche aspri, verificatisi in Parlamento, hanno
consentito all'opinione pubblica di conoscere con chiarezza
e trasparenza gli orientamenti delle forze politiche sulle
grandi questioni del Paese. Né possiamo dire che siano
mancati i risultati. Sono state realizzate due riforme decisive,
come il riordino del diritto societario e la legge Biagi: in
termini di governance del Paese, si tratta di due conquiste
oggettive e indiscutibili. Sono state avviate anche le riforme
della scuola e della previdenza: interventi coraggiosi, che è pretestuoso
contestare assumendo la prospettiva del "qui e adesso",
quando è evidente a tutti che si tratta di misure strutturali
destinate a produrre effetti nel medio-lungo termine. Bisogna
però riconoscere che in Parlamento si sono anche evidenziati
i fattori di debolezza più preoccupanti del nostro sistema
politico-istituzionale. Uno su tutti: i tempi della politica
ancora lenti per il mondo globalizzato. Su alcune questioni
cruciali i risultati della politica spesso non sono stati all'altezza
delle aspettative: la riforma fiscale e le misure a sostegno
della competitività stentano a tradursi in una ripresa
consistente; la durata dei processi è ben oltre la soglia
della tolleranza per un Paese moderno. Al fondo di queste difficoltà,
tuttavia, non c'è solo la politica. C'è anche
la zavorra degli interessi particolari, dei veti incrociati
frutto di un assetto corporativo duro a morire, della difesa
strenua del proprio particolare, dell’incapacità di
mettere in fase le proprie esigenze con quelle di tutti. Ognuno
si lamenta di come vanno le cose e, allo stesso tempo, pensa
che i propri problemi siano più importanti di quelli
altrui. È un circolo vizioso dal quale non si esce e
nel quale la politica e il mondo dell'economia sono rimasti
a lungo invischiati. È questa la frontiera più avanzata
della "governance del coraggio" in Italia: superare
una volta per tutte l'idea di un sistema in cui, da un lato,
si invoca la flessibilità del lavoro ma, dall'altro,
si assiste inerti al consolidarsi di nicchie protette e di
rendite di posizione.
In questo quadro quali le priorità cui
far fronte?
Occorre portare a compimento una liberalizzazione vera nei
settori dell'energia e dei servizi, che alleggerisca consumatori
e imprese dal carico di tariffe insostenibili nel confronto
internazionale: un modo per prendersi carico responsabilmente
delle esigenze delle famiglie e dei redditi più bassi,
creando al contempo un volano efficace per chi fa impresa.
Lo stesso va fatto per le professioni, che godono tuttora dei
privilegi antistorici previsti da una normativa protezionista,
figlia di un'epoca definitivamente tramontata. Ancora, bisogna
avere il coraggio di introdurre nelle università procedure
di selezione che operino secondo il criterio del merito, sottoponendo
a una verifica attenta e realistica la continuità delle
attività didattiche e di ricerca. Non possiamo più permetterci
che il successo dei migliori nell'università e nella
ricerca venga precluso da una specie di "ecosistema" chiuso
e autoreferenziale, spesso scenario di episodi di malcostume
e di familismo che arrecano danno all'immagine dell’Università e
del Paese. Ma anche per l'economia e le imprese si profilano
compiti impegnativi nell'immediato futuro. Con l'introduzione
della moneta unica e la progressiva integrazione dei mercati,
l'economia italiana si è trovata di fronte a una concorrenza
fortissima nel momento stesso in cui ha perso gli strumenti
di protezione offerti dal governo della moneta, come le svalutazioni
competitive. Anche il sistema economico ha dimostrato incertezze
e ritardi nel rispondere ai nuovi quesiti. Solo ultimamente è maturata
la consapevolezza che la concorrenza globale è un dato
di fatto irreversibile, che è illusorio pensare di arrestare
con dazi e barriere sul versante dei costi di produzione. È necessario
applicare oggi a 360° la nostra vocazione storica al prodotto
di qualità. Dobbiamo andare oltre gli ambiti produttivi
in cui siamo da sempre all'avanguardia e metterci alla prova
nei settori emergenti e a più alto contenuto tecnologico.
Nei mercati finanziari è indispensabile, poi, favorire
l'incontro tra il risparmio e l'iniziativa imprenditoriale,
oggi mediato dal sistema bancario che non sempre privilegia
criteri di selezione a sostegno di iniziative imprenditoriali
di qualità.
Quali dovranno essere gli obiettivi della futura classe dirigente?
Su uno di fondo, non ho dubbi: costruire una nuova etica di
valori e comportamenti, che si raggiunge istaurando un clima
di fiducia e dinamismo, che si crea con l'impegno, la credibilità che
discende da una costante considerazione dell'interesse del
Paese, commisurando gli obiettivi alle risorse disponibili.
Un risultato ambizioso che si ottiene con la diffusione di
un'etica della responsabilità, praticata nei fatti e
non solo proclamata negli slogan.
di Raffaella Venerando
Claudio
Scajola
Ministro delle Attività Produttive
Ministro, una sua
riflessione sul tema della governance.
Nella delicata fase che attraversa l'economia, si avverte una
domanda pressante di governance per uscire dalle incertezze
del cambiamento e procedere verso il rinnovamento e il rilancio
economico. Questo tema coinvolge molti soggetti, non solo lo
Stato. Tocca le imprese, le forze sociali, i poteri locali,
la scuola, la giustizia, i centri del sapere. Ed è bene
ricordare che, tra tutti, lo Stato è l'unico che, pur
conservando un ruolo importante, ha visto ridursi la sua area
di intervento. Molte delle sue prerogative sono passate, da
una parte, alle istituzioni comunitarie e, dall'altra, alle
autorità sul territorio e al libero agire dei mercati,
senza limitazioni di frontiere nazionali. Questo processo è positivo,
ma implica la necessità di raccogliere gli apporti di
ciascuno in un quadro di sinergia per costruire un sistema
migliore di governance. Di questo impegno comune vi è particolare
bisogno nella fase, per molti aspetti difficile, che attraversiamo,
in cui comunque emergono alcuni dati confortanti. Dopo due
trimestri difficili, la produzione dà segni di ripresa,
fatturato e ordinativi nell'industria sono in recupero, le
esportazioni in crescita e il tasso di occupazione continua
ad aumentare. È, infatti, al 57,7%, livello tra i più alti
degli ultimi 30 anni. È un'evoluzione favorevole, ma
non sufficiente, poiché i dati ci dicono che gli investimenti
ristagnano e le nostre vendite all'estero non tengono il passo
dell'espansione dei commerci mondiali.
Quali sono le ragioni di un simile ritardo?
Il Paese paga il costo di una specializzazione produttiva troppo
concentrata in comparti esposti all'accanita concorrenza delle
economie emergenti. Paga l'insufficiente investimento in ricerca
e innovazione tecnologica, la frammentazione del tessuto produttivo,
e un contesto che non attrae gli investitori. Sconta, in particolare,
l'eccesso di norme che ostacolano le attività economiche;
sconta la burocrazia, il fisco, le infrastrutture ancora carenti,
le rigidità del lavoro e, nei mercati finanziari, i
costi impropri.
Ma il declino della competitività è davvero
il grande problema del Paese?
La competitività non è più recuperabile
con le facili scorciatoie della svalutazione monetaria, ma
resta il presupposto indispensabile per ritornare a far crescere
l'economia. Occorre attuare con rapidità miglioramenti
su molti fronti. Per questa ragione, ci siamo dotati di una
mappa di percorso che esprime una visione strategica e indirizza
la politica: il Piano triennale di politica industriale.
Con quali obiettivi?
In sintesi, sono tre le linee strategiche: il riposizionamento
competitivo del sistema industriale; il miglioramento del contesto
in cui si fa impresa e si investe e la salvaguardia del patrimonio
industriale in difficoltà. Il riposizionamento competitivo
implica spostarsi su produzioni di maggior pregio per qualità,
specificità e caratteristiche innovative. Vogliamo che
si affermino, accanto al Made in Italy, sia l'Italian concept,
ovvero la nostra capacità di ideare e progettare per
produzioni anche lontane dal nostro territorio, sia l'Italian
style, come modello di civiltà e distinzione. Si tratta
di indirizzi complementari e non alternativi fra loro. In questa
prospettiva siamo impegnati nel sostenere i progetti di ricerca
e innovazione, la nascita di imprese nei comparti tecnologicamente
avanzati e l'attività di brevettazione.
In questo processo di rinnovamento come si posizionano le PMI
italiane?
Le piccole e medie imprese ne sono, senza dubbio, gli attori
principali. Per aiutarle a crescere e a finanziarsi, a inserirsi
nelle grandi reti produttive e distributive, abbiamo messo
in campo importanti misure con la Finanziaria 2005 e il Piano
dell'Agenda di Lisbona. Mi riferisco, in particolare, alle
diverse agevolazioni previste per le imprese che si aggregano
in distretti, una realtà sempre più importante
nell'organizzazione produttiva italiana. Con le misure adottate,
le imprese, raggruppandosi in distretti, potranno beneficiare
di un ventaglio di sostegni che vanno dai vantaggi fiscali
alla semplificazione amministrativa, all'emissione di bonds
di distretto, alle garanzie su finanziamenti e ai servizi per
l'innovazione. Vi sarà anche una nuova Agenzia per l'innovazione
che farà da canale, assieme alla rete esistente dei
centri di innovazione, per avvicinare le piccole e medie imprese
alle nuove tecnologie. Nello stessa direzione vanno anche altre
due misure: la detassazione delle spese per commesse affidate
a Università e centri di ricerca pubblici, e l'eliminazione
della tassa sui brevetti. Il Piano Triennale di Politica Industriale
prevede il potenziamento dei meccanismi di garanzia pubblica
per ampliare l'accesso delle PMI al credito, come pure al capitale
di rischio. Questa attenzione verso le PMI va accompagnata
a un'azione di rilancio della grande impresa, proprio per il
suo ruolo di traino, e perché è in posizione
migliore per consolidare la nostra presenza in settori importanti
come l'aerospaziale, la chimica di base, l'auto, la metallurgia
e i grandi progetti su scala europea.
Il Mezzogiorno come si inserisce nell’insieme
di azioni mirate del Governo?
Abbiamo mantenuto e rafforzato le preferenze nelle agevolazioni
per gli investimenti e l'occupazione anche con la nuova 488.
Continueremo a prestare attenzione al Sud che resta la grande
opportunità da cogliere.
di Gaia Sigismondi
Adolfo
Urso
Viceministro Attività Produttive
Onorevole, un tempo il Sud veniva spesso
definito “ponte”.
I G.I. di Confindustria a Capri, invece, quest’anno lo
hanno ribattezzato “porta del nuovo mondo”. Lei, è d'accordo
con questo cambio di prospettiva?
Il temine giusto per il Mezzogiorno di oggi è, senz'altro,
quello di porta. Una porta che apre verso il nuovo mondo. Il
ponte, infatti, geograficamente unisce senza che necessariamente
quanto prodotto, o il valore aggiunto creato, si fermi nel
territorio-legame. Il Mezzogiorno, per la sua stessa natura
e conformazione geografica, è una liason verso Sud,
ma soprattutto verso l'Est. Guardando la cartina dell'Italia,
infatti, ci accorgiamo che questo segue una direttrice sud-est,
direttrice che va oggi assecondata e battuta tanto più poiché la
parte del mondo che cresce di più sta appunto verso
il bacino del sud-est asiatico e quello del Medio-Oriente.
Vogliamo che il Mezzogiorno d’Italia si candidi a essere
una porta ultimando quelle grandi linee di comunicazione, materiali
e immateriali, che si vanno formando tra il continente europeo,
che resta comunque il più ricco del mondo, e il sud
e l'est dell'Europa, che possano consentire al nostro Mezzogiorno
di diventare non un semplice luogo di passaggio e transito
delle merci, ma un sito di produzione e trasformazione. Gioia
Tauro si avvia a diventare il più grande porto di Europa,
almeno per il traffico di containers, perché intercetta
le merci che giungono in Europa da Sud, ma soprattutto da est,
attraverso il canale di Suez e poi permette a queste di incanalarsi
verso il grande mercato europeo. Il problema è che a
Gioia Tauro si deve realizzare un centro di trasformazione
tale da far "rimanere" un valore aggiunto significativo
nel territorio calabrese. Ed è proprio questa la grande
scommessa del Mezzogiorno che sicuramente diventerà,
soprattutto se riusciamo a completare i progetti di comunicazione
e le infrastrutture che abbiamo messo in campo da tempo, il
luogo di passaggio delle merci da oriente e da sud verso l'Europa
e viceversa. La vera sfida è, però, lo ribadisco,
trasformare il Mezzogiorno da mero luogo di passaggio, e quindi
da “ponte”, a luogo di lavorazione dei prodotti
che poi giungeranno nei grandi mercati europei e asiatici,
rendendolo “porta”, ovvero la soglia di ingresso
delle merci nei nuovi mercati di sviluppo del mondo.
Sud e incentivi. Ci parli della nuova 488.
La nuova 488 premia le imprese migliori e rappresenta un incentivo
a fare più innovazione, formazione e internazionalizzazione. è una
riforma estremamente importante che avvia una nuova spinta
propulsiva al processo di modernizzazione industriale, soprattutto
nel Mezzogiorno d’Italia. I criteri per poter accedere
alla nuova 488 sono infatti orientati a favorire la crescita
dimensionale, l’innovazione e l’export, soprattutto
per le nostre piccole e medie imprese cui sono destinate risorse
significative.
di Monica De Carluccio
Fabrizio
Barca
Capo Dipartimento
Politiche di Sviluppo e Coesione
Ministero Economia e Finanze
Dottor Barca, il Mezzogiorno “porta del nuovo mondo”. È un'ipotesi
davvero realizzabile?
In questo Paese si ha la straordinaria capacità di consumare
le parole. Concorrenza, governance societaria, integrazione
territoriale. Abbiamo l'abitudine, pessima, di "consumare
prima di fare". Anche rispetto al Sud, spesso, i termini
risultano abusati. Abbiamo un anno di lavoro davanti per aprire
la porta, ora chiusa, del Sud verso Est. I numeri parlano chiaro:
la quota di mercato italiano nei 7-8 Paesi dell'area balcanica è pari
a 4 volte la quota di mercato media che l'Italia ha in ogni
altra area del mondo; viaggiamo tra il 10 e il 20% di esportazioni
in Romania, Bulgaria, Serbia, Bosnia, Croazia e in Albania,
sfioriamo il 40%. Sono numeri alti ma il Sud ne prende pochissimi:
solo il 10% dell'interscambio italiano. Le direttrici di accesso
a quell'area sono due: quella nord sud che favorisce l'Austria
e la Germania, quella est-ovest che passa ovviamente dal mare.
Quella è la porta del Sud, ancora chiusa che impedisce
al Mezzogiorno di esportare. Uno studio condotto dal mio dipartimento
rivela che c'è una perdita ogni anno di export nei confronti
di quest'area pari a 2 miliardi di euro. Ciò vuol dire
che esiste quest’export potenziale che però rimane
inutilizzato. Il punto è rilevante se guardiamo all'evoluzione
del Sud degli ultimi anni che, come sapete, è migliore
di quella del centro-nord poiché il Mezzogiorno cresce
a un tasso tre decimi superiore da ormai 7/8 anni. È un
valore importante poiché "esiste" nonostante
una minore crescita della spesa pubblica. Ciò significa
che la crescita del Sud è di qualità, fatta di
investimenti privati ed esportazioni nette. Il Sud storicamente
ha sempre avuto un deficit molto forte nei confronti del resto
del mondo, ma negli ultimi anni le esportazioni nette sono
aumentate e quindi la vocazione all'internazionalizzazione
si è manifestata in modo concreto. L'assenza di comunicazioni
con quell'area è un grosso impedimento a questi processi
di avanzamento. Come aprire, allora, quella porta? Le cose
da fare vanno realizzate entro il 2008/2009, quando il complesso
di Corridoio 5 e Corridoio 10 avrà raggiunto una maturazione
tale che i flussi commerciali avranno un'alternativa significativa
di penetrazione est-ovest. I punti di impatto sono il porto
di Bar, da riorganizzare perché in pessime condizioni,
e quello di Durazzo. Per il primo, che apre verso la Serbia
e Belgrado, bisogna lavorare sulla ferrovia, consentendo il
passaggio dei mezzi di grande volume. Durazzo, invece, presenta
problemi di snellimento delle procedure doganali e su questo
va concentrata l’attenzione. Dobbiamo impegnarci su questi
due fronti, puntando su una partnership pubblico-privato che
coinvolga gli interlocutori serbi-montenegrini, ma farlo in
tempi rapidi.
Per il Mezzogiorno quindi si prospetta un futuro migliore?
Non sussistono dubbi sul fatto che, per la sua stessa natura,
l'industria nel Mezzogiorno rimarrà un elemento fondamentale.
Il Sud può contribuire alla crescita delle esportazioni
del Paese fattivamente e da qui deriva la scelta di apertura
della porta verso i Balcani. Perchè il Sud diventi però realmente
competitivo, occorre lavorare al miglioramento dei servizi
collettivi in questa area. Bisogna, inoltre, concentrarsi sull'istruzione
che versa in condizioni insoddisfacenti. Basti pensare che
la competenza matematica dei quindicenni al Sud è drammatica.
Un indice più basso lo presenta solo il Messico, ma
non la Grecia, il Portogallo o la Spagna. Attuare azioni specifiche
in quest’ambito non è facile perché non
si tratta di un problema di spesa o di qualità delle
scuole, ma di una questione di "pressione sociale",
di "voice bassa", come avrebbe detto Hirschmann.
Il divario di istruzione tra Nord e Sud prescinde dalla tipologia
di scuola e dalla situazione socio-economica dei singoli studenti.
Un elemento esplicativo è invece quello del "contesto
per sé"; ossia, a parità di tipologia di
scuola, di condizioni delle infrastrutture scolastiche e di
qualità delle risorse didattiche, e persino a parità di
insegnante, l'efficacia di una scuola del Sud è inferiore
a quella di una del Nord poiché ci sarebbe un'aspettativa
più modesta da parte di studenti, famiglie e contesto
civile, che si traduce in una minore pretesa e pressione sulla
scuola. Solo colmando queste distanze "strutturali" il
Sud potrà diventare competitivo.
di Vito Salerno
Pietro
Modiano
Direttore Generale
Sanpaolo Banco di Napoli
Direttore, secondo lei, come è possibile
porre freno alla cultura dilagante del declino industriale?
Il paventato declino industriale italiano non trova alcuna
fondatezza nei numeri. Il problema, semmai, è che le
imprese sane preferiscono non indebitarsi con le banche anche
a costo di crescere poco. La cultura dei declineasti, che va
diffondendosi sempre più, è sbagliata e assolutamente
ascientifica. Io sono ossessionato positivamente da un numero:
3,9%. A tanto assomma, infatti, la quota che l'Italia ha sul
commercio mondiale fin dal 2000, prima ancora che la Cina,
come un rullo compressore, si portasse via tre punti percentuali
di quota di mercato mondiale. Ma, passata la fase di crescita
esponenziale della Cina e l'impatto destabilizzante dell'euro,
la quota italiana sul mercato mondiale è rimasta esattamente
la stessa: 3,9%. Mentre gli Stati Uniti hanno perso circa tre
punti percentuali, la Gran Bretagna almeno mezzo, l'Italia
e la Germania rimangono stabili. Non sono io a dirlo, sulla
base di una spinta ottimistica, ma è una cifra calcolata
in virtù dei dati del Fondo Monetario Internazionale.
Questo vuol dire che il nostro sistema industriale sta reggendo.
E allora dov'è realmente il problema?
Oggi si verifica un fatto stranissimo. L'industria non chiede
prestiti al mondo bancario. È totalmente assente dal
mercato del credito, e questa assenza penalizza lo sviluppo
dell'industria e del Paese. Il dubbio che mi viene è questo:
dov'è, mi chiedo, l'industria che sta crescendo, che
regge la concorrenza con la Cina e con l'euro? Dove sono gli
imprenditori di successo? Sui giornali ci va l'immobile, il
trader, la speculazione. C'è quindi un drammatico problema
di rappresentanza delle classi dirigenti, di quelli che portano
su di sé i problemi dell'attuale contesto internazionale,
rispetto al quale, lo ripeto, gli Stati Uniti perdono quota,
il Regno Unito altrettanto, mentre l'Italia e la Francia conservano,
invariate, le proprie quote di mercato mondiale.
Cosa suggerisce, quindi, agli imprenditori italiani per cambiare
rotta?
Consiglio, a quanti riescono a ripagare i crediti, di indebitarsi,
perché una crescita senza credito, basata sull'autofinanza,
appare a mio avviso destinata a restare davvero troppo bassa.
Vuol dire cioè che la propensione a investire degli
imprenditori bravi di questo sistema è seriamente a
rischio. In banca voglio vedere gli imprenditori che ci permettono
di dire che l'economia italiana sta reggendo, non gli speculatori
finanziari. Agli industriali coraggiosi dico: chiedete credito
e buona finanza e noi senz'altro ci saremo.
di Monica De Carluccio
Luigi
abete
Presidente
Unione Industriali di Roma
Presidente, qual è il ruolo della
finanza oggi?
La finanza, come l'industria, va internazionalizzata. Se un
mercato è internazionalizzato lo si vede soprattutto
nel rapporto con il consumatore-cliente. Quanti sono gli sportelli
bancari in Italia realmente gestiti da sistemi internazionalizzati?
Appena il 2%. Quante, invece, sono le politiche di innovazione
che le banche italiane riescono a fare all'estero? Fatta la
dovuta esclusione per il caso di una o due banche italiane,
purtroppo sono pochissime, anche perché qualche anno
fa era stato detto ai nostri istituti di credito di non andare
all'estero. Non dimentichiamoci che dopo la crisi della bolla
si è diffuso un sentimento di paura per cui le banche
sono state frenate nell'andare all'estero e le conseguenze
delle scelte non fatte le paghiamo adesso, che i mancati rischi
di ieri sono inevitabilmente le perdute opportunità di
oggi.
Esiste ancora una centralità dell'industria?
Quando agli inizi degli anni novanta dicevamo che ci voleva
più stato e più mercato non affermavamo un'ovvietà,
né tanto meno uno slogan, ma ponevamo sinteticamente
un obiettivo: ognuno doveva fare il proprio dovere nel migliore
dei modi e la dimensione dell'impegno dello stato e degli operatori
del mercato doveva essere in crescita, sia da un punto di vista
quantitativo che qualitativo. Abbiamo bisogno di un sistema
industriale che mantenga la competitività persa negli
ultimi 7/8 anni in maniera rilevante per ragioni che non sono
certo da addebitare alla Cina, all'undici settembre o all'euro,
ma alle nostre minori capacità, rispetto ad altri paesi
europei come la Francia o la Germania, di evolvere verso la
dimensione di un mercato in evoluzione. Abbiamo bisogno di
più industria. Ma questo cosa significa? Vuol dire più medie
imprese innovative e internazionalizzate. Dobbiamo rafforzare
la competitività individuando dove investire avendo
precise risorse, destinando le stesse sui nostri punti di differenza.
Tra questi, uno è proprio dato dalle medie imprese innovative
e internazionalizzate. In questo modo, cambierebbe anche la
politica dei distretti, che quindici anni fa era una politica
di territorio, dieci anni fa di reti informatiche, mentre oggi è una
politica di relazione con il mercato. Una media impresa innovativa
e internazionalizzata è essa stessa un distretto perché ha
un sistema di aziende, piccole e medie, di fornitori e di collegamenti,
che fanno parte della sua dimensione competitiva, per cui investendo,
su quella media impresa internazionalizzata, risorse per l'innovazione,
non a pioggia, e risorse l'internazionalizzazione noi investiamo
direttamente sui distretti del futuro. Più industria
significa anche "non solo manifatturiero". Bisogna
investire, infatti, nell'economia del tempo libero e dell'intrattenimento,
propria delle società post-industriali, che va organizzata
senza sprechi ulteriori, con un'offerta sistematica. Se nel
nostro Paese riuscissimo a fare un po' più di offerta
e domanda industrializzata in questo settore, non solo rafforzeremmo
i processi di attrazione turistica ma aumenteremmo sensibilmente
la crescita del PIL, altrimenti il Prodotto Interno Lordo al
3% possiamo dimenticarcelo. Chiunque governi. Dobbiamo avere
più coraggio perché per amministrare la polis,
come diceva Platone, occorrono quattro virtù fondamentali:
la saggezza che è prerogativa dei custodi, la temperanza
che è il dominio da parte di ogni cittadino sulle tendenze
sensibili dell'uomo, la giustizia e il coraggio. Un ceto dirigente
che vuole amministrare la polis, sia quella ideale - la collettività -
sia quella puntuale e di nostra stretta pertinenza - le imprese
-, deve armarsi soprattutto di coraggio, come hanno anche sottolineato
a ottobre anche i Giovani Imprenditori di Confindustria nel
corso della Convention caprese.
di Gaia Sigismondi
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