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  Dicembre 2012

Articoli n° 9
novembre 2005
 


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Unione di avellino

Relazione del presidente Silvio Sarno

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Ormai proprio non c'è più tempo per abbandonarsi a sterili fatalismi. Occorrono idee e strategie importanti per cambiare rotta e sfuggire dall'insidia di un futuro che, se si resta inermi, si tinge inevitabilmente di grigio. Questo è quanto emerso dai numerosi confronti, dibattiti e discorsi tenutisi a Capri in occasione dell'annuale kermesse dei Giovani Imprenditori di Confindustria, nell'ottobre scorso. Da più parti, in primis dalla squadra under 40 presieduta da un motivato e propositivo Matteo Colaninno, si invocano interventi da “capitani coraggiosi” per rilanciare il sistema economico italiano, oggi in inequivocabile affanno. Negli affari, si sa, le cose migliori da fare sono quelle semplici, ma farle è sempre molto difficile. Sull'isola azzurra, però, esponenti del mondo industriale, del sistema creditizio e politico, hanno scommesso di farcela, dichiarando di non volersi arrendere alla cultura del declino. Tra questi, riportiamo, in sintesi, le analisi di Casini, Scajola, Urso, Barca, Modiano e Abete sul da farsi perchè l'Italia torni a essere protagonista dello sviluppo e della competizione sul mercato globale. La partita del futuro è ancora aperta e, pare, nessuno voglia rinunciarvi.

Pier Ferdinando Casini
Presidente della Camera



Presidente, per il nostro Paese è pensabile una governance del coraggio?
In una situazione così difficile, affrontare con spirito aperto il futuro che ci attende è possibile. Abbiamo però bisogno di verità e onestà, due fattori con cui si devono confrontare politica ed economia, per superare la sensazione di incertezza in cui vive oggi l'Italia, che sembra in attesa di un evento miracoloso per trascinarci fuori dalle secche della stagnazione. In questa condizione, il rischio dell'assuefazione o la speranza che le cose possano risolversi da sole rappresentano l'ipoteca più insidiosa per il futuro del Paese. Se non vogliamo rassegnarci al declino e alla subalternità, per la politica come per l'economia c'è una sola strada: verificare concretamente ciò che è stato fatto in questi anni e quanto resta, invece, ancora da fare. Sul finire della legislatura come Presidente della Camera mi sento di affermare che il Parlamento ha svolto un ruolo assai positivo nell'indirizzare la competizione tra gli schieramenti politici secondo le regole del gioco democratico. I contrasti e gli scontri, anche aspri, verificatisi in Parlamento, hanno consentito all'opinione pubblica di conoscere con chiarezza e trasparenza gli orientamenti delle forze politiche sulle grandi questioni del Paese. Né possiamo dire che siano mancati i risultati. Sono state realizzate due riforme decisive, come il riordino del diritto societario e la legge Biagi: in termini di governance del Paese, si tratta di due conquiste oggettive e indiscutibili. Sono state avviate anche le riforme della scuola e della previdenza: interventi coraggiosi, che è pretestuoso contestare assumendo la prospettiva del "qui e adesso", quando è evidente a tutti che si tratta di misure strutturali destinate a produrre effetti nel medio-lungo termine. Bisogna però riconoscere che in Parlamento si sono anche evidenziati i fattori di debolezza più preoccupanti del nostro sistema politico-istituzionale. Uno su tutti: i tempi della politica ancora lenti per il mondo globalizzato. Su alcune questioni cruciali i risultati della politica spesso non sono stati all'altezza delle aspettative: la riforma fiscale e le misure a sostegno della competitività stentano a tradursi in una ripresa consistente; la durata dei processi è ben oltre la soglia della tolleranza per un Paese moderno. Al fondo di queste difficoltà, tuttavia, non c'è solo la politica. C'è anche la zavorra degli interessi particolari, dei veti incrociati frutto di un assetto corporativo duro a morire, della difesa strenua del proprio particolare, dell’incapacità di mettere in fase le proprie esigenze con quelle di tutti. Ognuno si lamenta di come vanno le cose e, allo stesso tempo, pensa che i propri problemi siano più importanti di quelli altrui. È un circolo vizioso dal quale non si esce e nel quale la politica e il mondo dell'economia sono rimasti a lungo invischiati. È questa la frontiera più avanzata della "governance del coraggio" in Italia: superare una volta per tutte l'idea di un sistema in cui, da un lato, si invoca la flessibilità del lavoro ma, dall'altro, si assiste inerti al consolidarsi di nicchie protette e di rendite di posizione.

In questo quadro quali le priorità cui far fronte?
Occorre portare a compimento una liberalizzazione vera nei settori dell'energia e dei servizi, che alleggerisca consumatori e imprese dal carico di tariffe insostenibili nel confronto internazionale: un modo per prendersi carico responsabilmente delle esigenze delle famiglie e dei redditi più bassi, creando al contempo un volano efficace per chi fa impresa. Lo stesso va fatto per le professioni, che godono tuttora dei privilegi antistorici previsti da una normativa protezionista, figlia di un'epoca definitivamente tramontata. Ancora, bisogna avere il coraggio di introdurre nelle università procedure di selezione che operino secondo il criterio del merito, sottoponendo a una verifica attenta e realistica la continuità delle attività didattiche e di ricerca. Non possiamo più permetterci che il successo dei migliori nell'università e nella ricerca venga precluso da una specie di "ecosistema" chiuso e autoreferenziale, spesso scenario di episodi di malcostume e di familismo che arrecano danno all'immagine dell’Università e del Paese. Ma anche per l'economia e le imprese si profilano compiti impegnativi nell'immediato futuro. Con l'introduzione della moneta unica e la progressiva integrazione dei mercati, l'economia italiana si è trovata di fronte a una concorrenza fortissima nel momento stesso in cui ha perso gli strumenti di protezione offerti dal governo della moneta, come le svalutazioni competitive. Anche il sistema economico ha dimostrato incertezze e ritardi nel rispondere ai nuovi quesiti. Solo ultimamente è maturata la consapevolezza che la concorrenza globale è un dato di fatto irreversibile, che è illusorio pensare di arrestare con dazi e barriere sul versante dei costi di produzione. È necessario applicare oggi a 360° la nostra vocazione storica al prodotto di qualità. Dobbiamo andare oltre gli ambiti produttivi in cui siamo da sempre all'avanguardia e metterci alla prova nei settori emergenti e a più alto contenuto tecnologico. Nei mercati finanziari è indispensabile, poi, favorire l'incontro tra il risparmio e l'iniziativa imprenditoriale, oggi mediato dal sistema bancario che non sempre privilegia criteri di selezione a sostegno di iniziative imprenditoriali di qualità.
Quali dovranno essere gli obiettivi della futura classe dirigente?
Su uno di fondo, non ho dubbi: costruire una nuova etica di valori e comportamenti, che si raggiunge istaurando un clima di fiducia e dinamismo, che si crea con l'impegno, la credibilità che discende da una costante considerazione dell'interesse del Paese, commisurando gli obiettivi alle risorse disponibili. Un risultato ambizioso che si ottiene con la diffusione di un'etica della responsabilità, praticata nei fatti e non solo proclamata negli slogan.
di Raffaella Venerando


Claudio Scajola
Ministro delle Attività Produttive



Ministro, una sua riflessione sul tema della governance.
Nella delicata fase che attraversa l'economia, si avverte una domanda pressante di governance per uscire dalle incertezze del cambiamento e procedere verso il rinnovamento e il rilancio economico. Questo tema coinvolge molti soggetti, non solo lo Stato. Tocca le imprese, le forze sociali, i poteri locali, la scuola, la giustizia, i centri del sapere. Ed è bene ricordare che, tra tutti, lo Stato è l'unico che, pur conservando un ruolo importante, ha visto ridursi la sua area di intervento. Molte delle sue prerogative sono passate, da una parte, alle istituzioni comunitarie e, dall'altra, alle autorità sul territorio e al libero agire dei mercati, senza limitazioni di frontiere nazionali. Questo processo è positivo, ma implica la necessità di raccogliere gli apporti di ciascuno in un quadro di sinergia per costruire un sistema migliore di governance. Di questo impegno comune vi è particolare bisogno nella fase, per molti aspetti difficile, che attraversiamo, in cui comunque emergono alcuni dati confortanti. Dopo due trimestri difficili, la produzione dà segni di ripresa, fatturato e ordinativi nell'industria sono in recupero, le esportazioni in crescita e il tasso di occupazione continua ad aumentare. È, infatti, al 57,7%, livello tra i più alti degli ultimi 30 anni. È un'evoluzione favorevole, ma non sufficiente, poiché i dati ci dicono che gli investimenti ristagnano e le nostre vendite all'estero non tengono il passo dell'espansione dei commerci mondiali.
Quali sono le ragioni di un simile ritardo?
Il Paese paga il costo di una specializzazione produttiva troppo concentrata in comparti esposti all'accanita concorrenza delle economie emergenti. Paga l'insufficiente investimento in ricerca e innovazione tecnologica, la frammentazione del tessuto produttivo, e un contesto che non attrae gli investitori. Sconta, in particolare, l'eccesso di norme che ostacolano le attività economiche; sconta la burocrazia, il fisco, le infrastrutture ancora carenti, le rigidità del lavoro e, nei mercati finanziari, i costi impropri.
Ma il declino della competitività è davvero il grande problema del Paese?
La competitività non è più recuperabile con le facili scorciatoie della svalutazione monetaria, ma resta il presupposto indispensabile per ritornare a far crescere l'economia. Occorre attuare con rapidità miglioramenti su molti fronti. Per questa ragione, ci siamo dotati di una mappa di percorso che esprime una visione strategica e indirizza la politica: il Piano triennale di politica industriale.
Con quali obiettivi?
In sintesi, sono tre le linee strategiche: il riposizionamento competitivo del sistema industriale; il miglioramento del contesto in cui si fa impresa e si investe e la salvaguardia del patrimonio industriale in difficoltà. Il riposizionamento competitivo implica spostarsi su produzioni di maggior pregio per qualità, specificità e caratteristiche innovative. Vogliamo che si affermino, accanto al Made in Italy, sia l'Italian concept, ovvero la nostra capacità di ideare e progettare per produzioni anche lontane dal nostro territorio, sia l'Italian style, come modello di civiltà e distinzione. Si tratta di indirizzi complementari e non alternativi fra loro. In questa prospettiva siamo impegnati nel sostenere i progetti di ricerca e innovazione, la nascita di imprese nei comparti tecnologicamente avanzati e l'attività di brevettazione.
In questo processo di rinnovamento come si posizionano le PMI italiane?
Le piccole e medie imprese ne sono, senza dubbio, gli attori principali. Per aiutarle a crescere e a finanziarsi, a inserirsi nelle grandi reti produttive e distributive, abbiamo messo in campo importanti misure con la Finanziaria 2005 e il Piano dell'Agenda di Lisbona. Mi riferisco, in particolare, alle diverse agevolazioni previste per le imprese che si aggregano in distretti, una realtà sempre più importante nell'organizzazione produttiva italiana. Con le misure adottate, le imprese, raggruppandosi in distretti, potranno beneficiare di un ventaglio di sostegni che vanno dai vantaggi fiscali alla semplificazione amministrativa, all'emissione di bonds di distretto, alle garanzie su finanziamenti e ai servizi per l'innovazione. Vi sarà anche una nuova Agenzia per l'innovazione che farà da canale, assieme alla rete esistente dei centri di innovazione, per avvicinare le piccole e medie imprese alle nuove tecnologie. Nello stessa direzione vanno anche altre due misure: la detassazione delle spese per commesse affidate a Università e centri di ricerca pubblici, e l'eliminazione della tassa sui brevetti. Il Piano Triennale di Politica Industriale prevede il potenziamento dei meccanismi di garanzia pubblica per ampliare l'accesso delle PMI al credito, come pure al capitale di rischio. Questa attenzione verso le PMI va accompagnata a un'azione di rilancio della grande impresa, proprio per il suo ruolo di traino, e perché è in posizione migliore per consolidare la nostra presenza in settori importanti come l'aerospaziale, la chimica di base, l'auto, la metallurgia e i grandi progetti su scala europea.
Il Mezzogiorno come si inserisce nell’insieme di azioni mirate del Governo?
Abbiamo mantenuto e rafforzato le preferenze nelle agevolazioni per gli investimenti e l'occupazione anche con la nuova 488. Continueremo a prestare attenzione al Sud che resta la grande opportunità da cogliere.
di Gaia Sigismondi


Adolfo Urso
Viceministro Attività Produttive



Onorevole, un tempo il Sud veniva spesso definito “ponte”. I G.I. di Confindustria a Capri, invece, quest’anno lo hanno ribattezzato “porta del nuovo mondo”. Lei, è d'accordo con questo cambio di prospettiva?
Il temine giusto per il Mezzogiorno di oggi è, senz'altro, quello di porta. Una porta che apre verso il nuovo mondo. Il ponte, infatti, geograficamente unisce senza che necessariamente quanto prodotto, o il valore aggiunto creato, si fermi nel territorio-legame. Il Mezzogiorno, per la sua stessa natura e conformazione geografica, è una liason verso Sud, ma soprattutto verso l'Est. Guardando la cartina dell'Italia, infatti, ci accorgiamo che questo segue una direttrice sud-est, direttrice che va oggi assecondata e battuta tanto più poiché la parte del mondo che cresce di più sta appunto verso il bacino del sud-est asiatico e quello del Medio-Oriente. Vogliamo che il Mezzogiorno d’Italia si candidi a essere una porta ultimando quelle grandi linee di comunicazione, materiali e immateriali, che si vanno formando tra il continente europeo, che resta comunque il più ricco del mondo, e il sud e l'est dell'Europa, che possano consentire al nostro Mezzogiorno di diventare non un semplice luogo di passaggio e transito delle merci, ma un sito di produzione e trasformazione. Gioia Tauro si avvia a diventare il più grande porto di Europa, almeno per il traffico di containers, perché intercetta le merci che giungono in Europa da Sud, ma soprattutto da est, attraverso il canale di Suez e poi permette a queste di incanalarsi verso il grande mercato europeo. Il problema è che a Gioia Tauro si deve realizzare un centro di trasformazione tale da far "rimanere" un valore aggiunto significativo nel territorio calabrese. Ed è proprio questa la grande scommessa del Mezzogiorno che sicuramente diventerà, soprattutto se riusciamo a completare i progetti di comunicazione e le infrastrutture che abbiamo messo in campo da tempo, il luogo di passaggio delle merci da oriente e da sud verso l'Europa e viceversa. La vera sfida è, però, lo ribadisco, trasformare il Mezzogiorno da mero luogo di passaggio, e quindi da “ponte”, a luogo di lavorazione dei prodotti che poi giungeranno nei grandi mercati europei e asiatici, rendendolo “porta”, ovvero la soglia di ingresso delle merci nei nuovi mercati di sviluppo del mondo.
Sud e incentivi. Ci parli della nuova 488.
La nuova 488 premia le imprese migliori e rappresenta un incentivo a fare più innovazione, formazione e internazionalizzazione. è una riforma estremamente importante che avvia una nuova spinta propulsiva al processo di modernizzazione industriale, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia. I criteri per poter accedere alla nuova 488 sono infatti orientati a favorire la crescita dimensionale, l’innovazione e l’export, soprattutto per le nostre piccole e medie imprese cui sono destinate risorse significative.
di Monica De Carluccio


Fabrizio Barca
Capo Dipartimento Politiche di Sviluppo e Coesione Ministero Economia e Finanze



Dottor Barca, il Mezzogiorno “porta del nuovo mondo”. È un'ipotesi davvero realizzabile?
In questo Paese si ha la straordinaria capacità di consumare le parole. Concorrenza, governance societaria, integrazione territoriale. Abbiamo l'abitudine, pessima, di "consumare prima di fare". Anche rispetto al Sud, spesso, i termini risultano abusati. Abbiamo un anno di lavoro davanti per aprire la porta, ora chiusa, del Sud verso Est. I numeri parlano chiaro: la quota di mercato italiano nei 7-8 Paesi dell'area balcanica è pari a 4 volte la quota di mercato media che l'Italia ha in ogni altra area del mondo; viaggiamo tra il 10 e il 20% di esportazioni in Romania, Bulgaria, Serbia, Bosnia, Croazia e in Albania, sfioriamo il 40%. Sono numeri alti ma il Sud ne prende pochissimi: solo il 10% dell'interscambio italiano. Le direttrici di accesso a quell'area sono due: quella nord sud che favorisce l'Austria e la Germania, quella est-ovest che passa ovviamente dal mare. Quella è la porta del Sud, ancora chiusa che impedisce al Mezzogiorno di esportare. Uno studio condotto dal mio dipartimento rivela che c'è una perdita ogni anno di export nei confronti di quest'area pari a 2 miliardi di euro. Ciò vuol dire che esiste quest’export potenziale che però rimane inutilizzato. Il punto è rilevante se guardiamo all'evoluzione del Sud degli ultimi anni che, come sapete, è migliore di quella del centro-nord poiché il Mezzogiorno cresce a un tasso tre decimi superiore da ormai 7/8 anni. È un valore importante poiché "esiste" nonostante una minore crescita della spesa pubblica. Ciò significa che la crescita del Sud è di qualità, fatta di investimenti privati ed esportazioni nette. Il Sud storicamente ha sempre avuto un deficit molto forte nei confronti del resto del mondo, ma negli ultimi anni le esportazioni nette sono aumentate e quindi la vocazione all'internazionalizzazione si è manifestata in modo concreto. L'assenza di comunicazioni con quell'area è un grosso impedimento a questi processi di avanzamento. Come aprire, allora, quella porta? Le cose da fare vanno realizzate entro il 2008/2009, quando il complesso di Corridoio 5 e Corridoio 10 avrà raggiunto una maturazione tale che i flussi commerciali avranno un'alternativa significativa di penetrazione est-ovest. I punti di impatto sono il porto di Bar, da riorganizzare perché in pessime condizioni, e quello di Durazzo. Per il primo, che apre verso la Serbia e Belgrado, bisogna lavorare sulla ferrovia, consentendo il passaggio dei mezzi di grande volume. Durazzo, invece, presenta problemi di snellimento delle procedure doganali e su questo va concentrata l’attenzione. Dobbiamo impegnarci su questi due fronti, puntando su una partnership pubblico-privato che coinvolga gli interlocutori serbi-montenegrini, ma farlo in tempi rapidi.
Per il Mezzogiorno quindi si prospetta un futuro migliore?
Non sussistono dubbi sul fatto che, per la sua stessa natura, l'industria nel Mezzogiorno rimarrà un elemento fondamentale. Il Sud può contribuire alla crescita delle esportazioni del Paese fattivamente e da qui deriva la scelta di apertura della porta verso i Balcani. Perchè il Sud diventi però realmente competitivo, occorre lavorare al miglioramento dei servizi collettivi in questa area. Bisogna, inoltre, concentrarsi sull'istruzione che versa in condizioni insoddisfacenti. Basti pensare che la competenza matematica dei quindicenni al Sud è drammatica. Un indice più basso lo presenta solo il Messico, ma non la Grecia, il Portogallo o la Spagna. Attuare azioni specifiche in quest’ambito non è facile perché non si tratta di un problema di spesa o di qualità delle scuole, ma di una questione di "pressione sociale", di "voice bassa", come avrebbe detto Hirschmann. Il divario di istruzione tra Nord e Sud prescinde dalla tipologia di scuola e dalla situazione socio-economica dei singoli studenti. Un elemento esplicativo è invece quello del "contesto per sé"; ossia, a parità di tipologia di scuola, di condizioni delle infrastrutture scolastiche e di qualità delle risorse didattiche, e persino a parità di insegnante, l'efficacia di una scuola del Sud è inferiore a quella di una del Nord poiché ci sarebbe un'aspettativa più modesta da parte di studenti, famiglie e contesto civile, che si traduce in una minore pretesa e pressione sulla scuola. Solo colmando queste distanze "strutturali" il Sud potrà diventare competitivo.
di Vito Salerno


Pietro Modiano
Direttore Generale Sanpaolo Banco di Napoli

Direttore, secondo lei, come è possibile porre freno alla cultura dilagante del declino industriale?
Il paventato declino industriale italiano non trova alcuna fondatezza nei numeri. Il problema, semmai, è che le imprese sane preferiscono non indebitarsi con le banche anche a costo di crescere poco. La cultura dei declineasti, che va diffondendosi sempre più, è sbagliata e assolutamente ascientifica. Io sono ossessionato positivamente da un numero: 3,9%. A tanto assomma, infatti, la quota che l'Italia ha sul commercio mondiale fin dal 2000, prima ancora che la Cina, come un rullo compressore, si portasse via tre punti percentuali di quota di mercato mondiale. Ma, passata la fase di crescita esponenziale della Cina e l'impatto destabilizzante dell'euro, la quota italiana sul mercato mondiale è rimasta esattamente la stessa: 3,9%. Mentre gli Stati Uniti hanno perso circa tre punti percentuali, la Gran Bretagna almeno mezzo, l'Italia e la Germania rimangono stabili. Non sono io a dirlo, sulla base di una spinta ottimistica, ma è una cifra calcolata in virtù dei dati del Fondo Monetario Internazionale. Questo vuol dire che il nostro sistema industriale sta reggendo.
E allora dov'è realmente il problema?
Oggi si verifica un fatto stranissimo. L'industria non chiede prestiti al mondo bancario. È totalmente assente dal mercato del credito, e questa assenza penalizza lo sviluppo dell'industria e del Paese. Il dubbio che mi viene è questo: dov'è, mi chiedo, l'industria che sta crescendo, che regge la concorrenza con la Cina e con l'euro? Dove sono gli imprenditori di successo? Sui giornali ci va l'immobile, il trader, la speculazione. C'è quindi un drammatico problema di rappresentanza delle classi dirigenti, di quelli che portano su di sé i problemi dell'attuale contesto internazionale, rispetto al quale, lo ripeto, gli Stati Uniti perdono quota, il Regno Unito altrettanto, mentre l'Italia e la Francia conservano, invariate, le proprie quote di mercato mondiale.
Cosa suggerisce, quindi, agli imprenditori italiani per cambiare rotta?
Consiglio, a quanti riescono a ripagare i crediti, di indebitarsi, perché una crescita senza credito, basata sull'autofinanza, appare a mio avviso destinata a restare davvero troppo bassa. Vuol dire cioè che la propensione a investire degli imprenditori bravi di questo sistema è seriamente a rischio. In banca voglio vedere gli imprenditori che ci permettono di dire che l'economia italiana sta reggendo, non gli speculatori finanziari. Agli industriali coraggiosi dico: chiedete credito e buona finanza e noi senz'altro ci saremo.
di Monica De Carluccio


Luigi abete
Presidente Unione Industriali di Roma

Presidente, qual è il ruolo della finanza oggi?
La finanza, come l'industria, va internazionalizzata. Se un mercato è internazionalizzato lo si vede soprattutto nel rapporto con il consumatore-cliente. Quanti sono gli sportelli bancari in Italia realmente gestiti da sistemi internazionalizzati? Appena il 2%. Quante, invece, sono le politiche di innovazione che le banche italiane riescono a fare all'estero? Fatta la dovuta esclusione per il caso di una o due banche italiane, purtroppo sono pochissime, anche perché qualche anno fa era stato detto ai nostri istituti di credito di non andare all'estero. Non dimentichiamoci che dopo la crisi della bolla si è diffuso un sentimento di paura per cui le banche sono state frenate nell'andare all'estero e le conseguenze delle scelte non fatte le paghiamo adesso, che i mancati rischi di ieri sono inevitabilmente le perdute opportunità di oggi.
Esiste ancora una centralità dell'industria?
Quando agli inizi degli anni novanta dicevamo che ci voleva più stato e più mercato non affermavamo un'ovvietà, né tanto meno uno slogan, ma ponevamo sinteticamente un obiettivo: ognuno doveva fare il proprio dovere nel migliore dei modi e la dimensione dell'impegno dello stato e degli operatori del mercato doveva essere in crescita, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Abbiamo bisogno di un sistema industriale che mantenga la competitività persa negli ultimi 7/8 anni in maniera rilevante per ragioni che non sono certo da addebitare alla Cina, all'undici settembre o all'euro, ma alle nostre minori capacità, rispetto ad altri paesi europei come la Francia o la Germania, di evolvere verso la dimensione di un mercato in evoluzione. Abbiamo bisogno di più industria. Ma questo cosa significa? Vuol dire più medie imprese innovative e internazionalizzate. Dobbiamo rafforzare la competitività individuando dove investire avendo precise risorse, destinando le stesse sui nostri punti di differenza. Tra questi, uno è proprio dato dalle medie imprese innovative e internazionalizzate. In questo modo, cambierebbe anche la politica dei distretti, che quindici anni fa era una politica di territorio, dieci anni fa di reti informatiche, mentre oggi è una politica di relazione con il mercato. Una media impresa innovativa e internazionalizzata è essa stessa un distretto perché ha un sistema di aziende, piccole e medie, di fornitori e di collegamenti, che fanno parte della sua dimensione competitiva, per cui investendo, su quella media impresa internazionalizzata, risorse per l'innovazione, non a pioggia, e risorse l'internazionalizzazione noi investiamo direttamente sui distretti del futuro. Più industria significa anche "non solo manifatturiero". Bisogna investire, infatti, nell'economia del tempo libero e dell'intrattenimento, propria delle società post-industriali, che va organizzata senza sprechi ulteriori, con un'offerta sistematica. Se nel nostro Paese riuscissimo a fare un po' più di offerta e domanda industrializzata in questo settore, non solo rafforzeremmo i processi di attrazione turistica ma aumenteremmo sensibilmente la crescita del PIL, altrimenti il Prodotto Interno Lordo al 3% possiamo dimenticarcelo. Chiunque governi. Dobbiamo avere più coraggio perché per amministrare la polis, come diceva Platone, occorrono quattro virtù fondamentali: la saggezza che è prerogativa dei custodi, la temperanza che è il dominio da parte di ogni cittadino sulle tendenze sensibili dell'uomo, la giustizia e il coraggio. Un ceto dirigente che vuole amministrare la polis, sia quella ideale - la collettività - sia quella puntuale e di nostra stretta pertinenza - le imprese -, deve armarsi soprattutto di coraggio, come hanno anche sottolineato a ottobre anche i Giovani Imprenditori di Confindustria nel corso della Convention caprese.
di Gaia Sigismondi

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