A cura della
Redazione Costozero
Articolo del Denaro di mercoledÌ 16 novembre 2005
Il Mezzogiorno È ancora il malato d'Italia
di Nicola Rossi - Ordinario di Economia
politica presso l'Università di Roma Tor Vergata, deputato Ds
Il Mezzogiorno d'Italia è oggi il luogo dove - più che
altrove, più che in altri comparti o settori - più significativo
e imperdonabile è lo spreco di risorse pubbliche. Dove - al di là delle
intenzioni, spesso nobili, di tanti - lo sforzo collettivo ha raggiunto
dimensioni inusitate senza conseguire risultati apprezzabili. E dove,
al tempo stesso, un uso per così dire particolarmente "disattento" di
consistenti risorse pubbliche si associa a gravi carenze nella fornitura
dei servizi che dovrebbero costituire invece la stessa ragion d'essere
del settore pubblico. Dove, in altre parole, ogni fonte di finanziamento
- ogni euro, ogni centesimo dì euro - dovrebbe essere allocata e
spesa come se fosse l'ultima e viene invece utilizzata come se fosse
solo una parte di una serie mai terminata e che mai terminerà. Fra
il 1998, anno di avvio della stagione di politiche regionali che va sotto
il nome di "nuova programmazione" - e il 2004, si sono riversati
sul Mezzogiorno, in termini reali, qualcosa come 120 miliardi di
euro di spesa pubblica in conto capitale. Per calcolare la spesa pubblica
in conto capitale specificamente destinata al Mezzogiorno, togliamo da
questa cifra (i 120 milioni di cui alla frase precedente) una somma pari
a quella che il Mezzogiorno avrebbe comunque ricevuto come parte del territorio
nazionale, cioè pari a quanto storicamente osservato nello stesso
periodo al Centro-Nord in percentuale sul prodotto. Ne risulta una spesa
pubblica in conto capitale specificamente dedicata al Mezzogiorno valutabile
in poco più di 55 milioni di euro sul periodo 1998-2004 ai prezzi
del 1995. Un ordine di grandezza più che significativo non solo
in termini assoluti ma anche in termini relativi. Per intendersi, si tratta
dì circa
tre volte lo stanziamento previsto nel 1950 al momento del varo della
Cassa del Mezzogiorno per i primi sette anni di operatività di quell'ente.
Poco meno del 40 per cento di quanto speso dalla Cassa per il Mezzogiorno,
prima, e dall'Agenzia per la promozione dello sviluppo nel Mezzogiorno,
dopo, nei quasi quarant'anni di vita dell'intervento straordinario.
Se poi i termini di paragone storici non sono sufficienti, non mancano
quelli attuali. E non sono meno sconcertanti. Il volume di spesa pubblica
in conto capitale riversatosi sul Mezzogiorno fra il 1998 e il 2004 è pari
al 40 per cento del costo del programma di grandi opere approvato
dal Comitato interministeriale per la programmazione economica nel dicembre
2001. Più precisamente
i citati 55 miliardi di euro sono molti prossimi alla spesa prevista
dal primo programma di infrastrutture strategiche della legge-obiettivo
nel Mezzogiorno. Anche se si desse per scontata - ed è fuor di dubbio
che lo si debba fare - una significativa sottostima nelle indicazioni
della legge-obiettivo, il raffronto, fra quel che poteva essere fatto e
quel che non è stato fatto rimane impressionante. Sette anni sembrano
essere passati, peraltro, pressoché invano. La debole crescita meridionale
degli ultimi anni si rivela infatti come sospinta da una spesa pubblica
di bassa qualità che non riesce a tradursi in fattore strutturale
di crescita e in potenziale di sviluppo. Una crescita in termini
pro capite dovuta in larga misura all'operare, da qualche anno, di processi
migratori interni di significativa intensità e non lontani, nell'ultimo
quinquennio, da quelli registrati negli anni Cinquanta. Una crescita addirittura
inferiore a quella che la stessa "nuova programmazione" stimava
come probabile in assenza di un miglioramento della qualità degli
investimenti pubblici. Le distanze fra il Centro-Nord e il Sud del paese
sono rimaste, nel complesso, inalterate (e se qualcosa è accaduto, è che
l'economia meridionale è diventata, in questi anni, molto meno competitiva
e un po' meno dipendente).
Se ci si aspettava che gli interventi adottati nell'ambito delle
azioni previste dal Piano di sviluppo del Mezzogiorno - in cui, nel 1999,
si tradusse formalmente la nuova programmazione - inducessero visibili
elementi di discontinuità nel contesto socio-economico meridionale,
ebbene, si è atteso a vuoto. Se ci si aspettava che la politica
degli investimenti pubblici avesse un impatto significativo sulle "variabili
di contesto" in modo tale da modificare strutturalmente il processo
di accumulazione del settore privato, ebbene ciò non è avvenuto.
Sotto tutti i principali punti di vista, il Mezzogiorno è e rimane,
oggi come ieri, il "malato d'Italia". La differenza - se se ne
vuole trovare una, e non piccola - è che oggi, diversamente da ieri,
l'Italia è il "malato d'Europa". Dopo dieci anni segnati
dalla retorica del definitivo superamento dell'intervento straordinario,
da un lato, e dei Mezzogiorni, dall'altro, forse è arrivato il momento
di riconoscere le difficoltà che questa ha generato: la frantumazione
dell'intervento pubblico, la moltiplicazione dei livelli di intermediazione,
la sproporzione fra l'impegno massiccio di energie e di risorse e l'esiguità dei
risultati.
Forse è arrivato il momento, prima ancora che tornare a discutere
delle politiche per il Mezzogiorno, di mettere in discussione il nostro
stesso modo di guardare al Mezzogiorno.
|