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  Dicembre 2012

Articoli - n° 4 Maggio 2004
 



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IL GIUDIZIO DI IDONEITÀ CON PRESCRIZIONI
QUALI GLI OBBLIGHI DEL DATORE DI LAVORO?

AGRICOLTURA UN FUTURO PER I GIOVANI
L'UE GIOCA UN RUOLO CHIAVE

IL GIUDIZIO DI IDONEITÀ CON PRESCRIZIONI
QUALI GLI OBBLIGHI DEL DATORE DI LAVORO?
Come gestire correttamente il conflitto tra tutela della salute e i diritti dei dipendenti

Pasquale Paolillo
Consigliere Delegato Piccola Industria in materia di Sicurezza e Ambiente Assindustria Salerno
p.paolillo@medilam.it

Uno dei fattori di maggiore criticità in materia di sicurezza del lavoro è rappresentato, per le imprese, dalla gestione dei certificati di non idoneità o di idoneità con prescrizione redatti dal medico competente (m.c.) a seguito delle attività di sorveglianza sanitaria. In questo articolo cercheremo di analizzare i limiti di legittimità di questi giudizi e quali sono i reali obblighi del datore di lavoro (d.l.) in tali circostanze. Innanzitutto va detto che il giudizio del m.c. può essere accettato così come formulato, oppure, ai sensi dell'art.17 c.4 del Dlgs 626/94 e smi, appellato sia dal lavoratore che dal d.l. mediante ricorso da presentare entro trenta giorni alla commissione ASL competente sul territorio ove è ubicata l'azienda. La struttura pubblica, acquisita la documentazione disponibile, potrà confermare, riformare parzialmente o totalmente il giudizio del m.c.. I certificati di idoneità della ASL possono essere anch'essi modificati, ma solo se nella fattispecie si instaura un ricorso al giudice del lavoro che ha il potere, tramite un suo CTU, di entrare nel merito tecnico di tutta la vicenda. Il giudizio definitivo così ottenuto ha il significato fondamentale di "prescrizione di pericolo": il legislatore, non potendolo fare direttamente a mezzo di legge, rimanda al m.c. di indicare quelle cautele individualizzate che si rendono necessarie per tutelare la salute del lavoratore affetto da vulnerabilità fisiche. Il certificato con idoneità limitata o la non idoneità va comunicata per iscritto a lavoratore e d.l., e quest'ultimo "sarà soggetto di responsabilità risarcitoria per violazione dell'art.2087c.c.se, consapevole dello stato di infermità del lavoratore, contuinui ad adibirlo a mansioni sucettibili di metterne in pericolo la salute" (Cass.civ.sez.lavoro 03.07.97,n.5961). L'eventuale danno alla salute sarà una lesione personale, perseguibile penalmente ai sensi dell'art.590 c.p. perché causata dal non aver tenuto colposamente conto di una situazione di pericolo "conosciuta e prevedibile". La prescrizione genera, in definitiva, un obbligo cogente per il d.l., ma questi è anche obbligato a ricollocare il lavoratore in una mansione compatibile? E cosa accade se questa non esiste o è già assegnata ad altri dipendenti? È legittimo attuare un licenziamento per giusta causa? Situazioni simili sono molto frequenti nelle aziende, causano imbarazzo e contenziosi e non sempre vengono affrontate con la dovuta competenza e attenzione. Prima di prendere qualsiasi decisione, è necessario il controllo formale e sostanziale della documentazione disponibile, che dovrà essere allestita in modo da essere agevolmente consultata in eventuali procedimenti successivi. Nello specifico dovrà risultare coerente il rapporto tra descrizione accurata della mansione, rischi per la salute o la sicurezza a essa correlati, documentazione sanitaria del lavoratore e giudizio finale del m.c.. Comunque, sia che ci trovi di fronte ad un lavoratore non idoneo, sia che si tratti semplicemente di una ridotta capacità lavorativa, viene messo in discussione il principio del contratto di lavoro, che è per sua natura a prestazioni corrispettive, con possibilità di rescissione, a seconda delle circostanze, ai sensi degli artt. 1463,1464, 2110 e 2119 c.c. e art.3 della legge 604/66. Nel 1998 la Cassazione, preso atto della non uniformità dei pronunciamenti in materia di licenziamenti per sopravvenuta impossibilità fisica o psichica emise una sentenza a sezioni riunite (n. 7755/88) proprio per chiarire quali siano gli obblighi datoriali. Molti sono i punti rilevanti di questo innovativo pronunciamento, articolato sul rispetto di principi di rango costituzionale quali l'insindacabile libertà di scelta dell'imprenditore nell'organizzazione dell'attività produttiva dell'art.41 e il riconoscimento del diritto al lavoro dell'art.4. Nella sentenza vi sono elementi sicuramente favorevoli al lavoratore, quali la possibilità del giudice di valutare il carattere oggettivo della non apprezzabilità del d.l. alla residua prestazione lavorativa e l' obbligo di quest'ultimo di valutare la collocabilità del lavoratore in altre mansioni, anche inferiori se accettate, ma si finisce col ribadire che qualsiasi ricollocazione deve avvenire nel modo più conveniente per l'organizzazione dell'impresa e senza comportare turbamenti finanziari, o trasferimento di altri colleghi. In altre parole la libertà dell'imprenditore nell'organizzare l'impresa, diritto garantito dalla Costituzione, in quanto tale sfugge alla sfera di competenza del giudice ed è gerarchicamente sovraordinato al diritto al lavoro. In caso di perdita dell'idoneità il d.l. ha certamente l'obbligo di ricercare una mansione compatibile ma non ha obbligo di trovarla, o addirittura crearla ad hoc. Tale ricerca rappresenta il punto centrale di un eventuale contenzioso giuridico. Deve essere condotta con principi oggettivi, può comportare anche una dequalificazione, che però deve essere accettata dal lavoratore, ma ha come fine ultimo la salvaguardia degli equilibri finanziari dell'azienda, cioè la reale produttività del lavoratore. Nessuno può imporre al d.l. di far lavorare comunque "in qualche modo" chi può dare solo prestazioni ridotte, in virtù di un altro principio tutelato dalla Costituzione con l'art.23: «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge». A tal proposito nel nostro ordinamento, per i lavoratori ordinari, cioè non collocati obbligatoriamente ex L. 68/99, sono rintracciabili solo due riferimenti legislativi: l'art.8 del D.Lgs.277/91 e l'articolo 6 modificato del D.Lgs.532/99. Si tratta di ricollocazione a mansioni compatibili per perdita temporanea dell'idoneità ad agenti fisici, chimici o biologici e al lavoro notturno. Ma ancora una volta viene riaffermato il principio di salvaguardia dell'organizzazione aziendale, e l'obbligo vige "per quanto possibile" nel primo caso, mentre nel secondo lo spostamento al lavoro diurno avverrà in mansioni equivalenti "se esistenti e disponibili". A completamento di quanto esposto si ricordi che il motivo di licenziamento sussiste non solo nel caso di malattia stabilizzata e insanabile, ma anche quando l'inidoneità è di durata indeterminabile oppure di regredibilità incerta (Cass.Sez.Lav. n.8497/02). Visto il contesto giuridico, quasi sempre il lavoratore inidoneo all'originaria mansione e non ricollocato ricorre alla ASL competente, che può impiegare anche parecchie settimane prima di emettere il suo giudizio. Come comportarsi in attesa di questo documento? Per condivisibile prudenza i d.l. impiegano il lavoratore in attività leggere, spesso di nulla o scarsa utilità per l'azienda. Tale "parcheggio" potrebbe essere utilizzato dal lavoratore per comprovare, in giudizio, un persistente interesse aziendale per la sua nuova collocazione, deducendo da ciò una illeggittimità di un sopravvenuto licenziamento. Ma la Cassazione si è espressa in modo contrario con la sentenza 10339/00 chiarendo che «… correttamente il Tribunale non ha dato importanza al fatto che il d.l., dopo un primo accertamento medico legale, aveva fatto svolgere al dipendente per un tempo apprezzabile una mansione ridotta, considerato che trattavasi di un atteggiamento di mera tolleranza in attesa degli accertamenti sanitari definitivi». Ultimi due consigli: cercare sempre di ricollocare il lavoratore e, in caso di ricorso, chiedere ai medici della ASL di fare un sopralluogo in azienda per valutare di persona le particolarità della mansione in oggetto. Ciò dovrebbe servire ad evitare giudizi approssimativi o…politici.

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