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La RIFORMA dell'art. 18 dello Statuto dei LAVORATORI
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La RIFORMA dell'art. 18 dello Statuto dei LAVORATORI
Ai fini dell'applicabilità della reintegrazione, accanto al livello occupazionale, assume rilevanza anche la tipologia di vizio del licenziamento che, in taluni casi, è addirittura assorbente
Lorenzo Ioele,
Avvocato avvocato@lorenzoioele.191.it
Da alcuni anni si discute della riforma dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori e, in questi ultimi mesi, per iniziativa del nuovo Governo, sembra che sia giunto il momento di rivedere la disciplina della reintegrazione nel posto di lavoro considerata dai fautori della riforma un limite ingiustificato allo sviluppo del mercato del lavoro, soprattutto per coloro che cercano una occupazione e dall'ala conservatrice, propensa a mantenere l'attuale disciplina oppure a modificarla in termini minimi.
I problemi veri, a mio avviso, son ben altri e riguardano la crescita delle imprese e la creazione di posti di lavoro, e in genere il sistema economico, nel cui contesto la riforma dell'art. 18 non mi sembra possa assumere valenza primaria. Ritengo infatti sia stata enfatizzata più per motivazioni ideologiche e politiche che per la reale portata dei suoi contenuti. Il disegno di legge n. 3249 affronta numerose tematiche afferenti il mercato del lavoro (tipologie contrattuali; flessibilità in uscita e tutele del lavoratore; ammortizzatori sociali, tutele in costanza di rapporto di lavoro e protezione dei lavoratori anziani; politiche attive e servizi per l'impiego; apprendimento permanente) da valutare globalmente in una logica di bilanciamento dei diversi interessi.
Il Capo III riguarda specificamente la materia dei licenziamenti anche sotto il profilo processuale in quanto il legislatore, nel rivedere la disciplina del licenziamento illegittimo, intende introdurre una procedura giudiziaria più rapida per le controversie ad oggetto l'impugnativa di licenziamento ove applicabile l'art. 18 S.L. anche se implicano questioni di qualificazione del rapporto.
Tornando all'argomento specifico del mio intervento giova subito chiarire che il disegno di legge si propone di intervenire sulla sola reintegrazione nel posto di lavoro nel senso di rivedere il suo campo di applicazione e di limitare le conseguenze risarcitorie dell'ordine di reintegrazione lasciando immutato il regime cosiddetto obbligatorio del
licenziamento illegittimo per i datori di lavoro di minori dimensioni, per le organizzazioni di tendenza senza scopo di lucro e le ipotesi di licenziamento ad nutum (lavoratori domestici, dirigenti, lavoratori pensionabili per vecchiaia). È opportuno sottolineare, però, una regola di carattere generale che riguarda tutte le ipotesi di licenziamento ove la motivazione è dovuta.
La comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato, mentre la disciplina attualmente vigente consente di intimare il licenziamento senza specificarne la motivazione che deve essere fornita solo a richiesta del lavoratore.
La reintegrazione, secondo la disciplina vigente, trova applicazione sulla base del livello occupazionale (escluse le organizzazioni di tendenza), a prescindere dalla tipologia di vizio del licenziamento (nullità, annullabilità, inefficacia) che dunque ha perso un concreto significato a tali fini, salvo che per l'ipotesi del licenziamento discriminatorio.
Nella logica della riforma ai fini della applicabilità della reintegrazione, accanto al livello occupazionale, assume rilevanza anche la tipologia di vizio del licenziamento che, in taluni casi, è addirittura assorbente in quanto determina la applicabilità della reintegrazione a prescindere dal livello occupazionale in ipotesi di inefficacia (licenziamento orale) e di nullità (licenziamento discriminatorio, in concomitanza con il matrimonio, in violazione del divieto sancito a tutela della maternità, per motivo illecito determinante) del licenziamento.
Tutti i lavoratori dunque, ivi compresi i dirigenti, avrebbero diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro nelle citate ipotesi di inefficacia e nullità del licenziamento con una parificazione degli effetti giuridici connessi a tali vizi che saranno quelli tipici della reintegrazione nel posto di lavoro.
Questa è solo una omogeneizzazione del sistema perché, alla stregua della normativa vigente, con l'applicazione dei principi di diritto comune il risultato pratico è sostanzialmente analogo alla reintegrazione.
Al di fuori di questi casi, resta ferma la necessità del livello occupazionale del datore di lavoro che peraltro non sarà, di per sé, sufficiente, in quanto rileverà anche la tipologia di illegittimità del licenziamento. Ai licenziamenti per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, motivati cioè da comportamenti del lavoratore disciplinarmente rilevanti, la reintegrazione si applica se il Giudice accerta che il fatto contestato non sussiste ovvero che esso rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, previste dalla legge, dai contratti collettivi, dal codice disciplinare applicato in azienda.
Tuttavia in tali casi il contenuto della reintegrazione viene modificato perché il risarcimento danni potrà essere ridotto non solo di quanto il lavoratore ha percepito nel periodo intermedio tra licenziamento e reintegrazione (aliunde perceptum) ma anche di quanto, il che oggi non è pacifico, avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (aliunde percipiendum), con la specifica che in ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può superare le dodici mensilità e che i contributi previdenziali da versare corrispondono al differenziale tra contributi dovuti e contributi eventualmente accreditati in conseguenza dello svolgimento di altra attività lavorativa, maggiorato degli interessi legali senza sanzioni.
Nelle altre ipotesi in cui il Giudice accerta che non ricorrono gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, il lavoratore non ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ma ferma restando la risoluzione del rapporto di lavoro verrà liquidata un' indennità risarcitoria da un minimo di dodici ad un massimo di ventiquattro mensilità tenendo conto del numero dei dipendenti, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.
Anche l'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non determina necessariamente la reintegrazione nel posto di lavoro. Per tale ipotesi di licenziamento é previsto un tentativo di conciliazione da esperire prima dell'intimazione del licenziamento. Il datore di lavoro dovrà comunicare alla Direzione provinciale del lavoro e al lavoratore la sua intenzione di procedere al licenziamento, i motivi dello stesso e le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato.
La Commissione provinciale di conciliazione dovrà convocare le parti entro il termine perentorio di 7 giorni per attivare un tentativo di conciliazione da concludere entro venti giorni, salvo proroga concordata. Il comportamento delle parti desumibile dal verbale e la proposta della Commissione sarà valutata dal Giudice ai fini della determinazione dell'indennità risarcitoria.
In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo la reintegrazione troverà applicazione in caso di manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento e nel caso in cui, sulla base della domanda del lavoratore, il Giudice accerti che il licenziamento sia stato in realtà determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, ragion per cui dovrà applicare le tutele, comunque diversificate, previste per il reale motivo di licenziamento.
Ove il Giudice non rilevi la sussistenza di ragioni discriminatorie e/o disciplinari, e comunque non ritenga la manifesta infondatezza del giustificato motivo, ma abbia ragione di ritenere la inadeguatezza dello stesso applicherà la disciplina prevista per i licenziamenti disciplinari in ipotesi in cui non si dà luogo alla reintegrazione ma al pagamento dell'indennità risarcitoria da un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità come sopra illustrata, utilizzando i relativi parametri già menzionati ai quali ne vanno aggiunti altri due: le iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e il comportamento delle parti nel corso della procedura preventiva.
La reintegrazione si applica sempre quando il Giudice accerti il difetto di giustificazione dei licenziamenti intimati per inidoneità del lavoratore o in violazione dell'art. 2110 c.c..
Anche per i licenziamenti collettivi la reintegrazione non si applica per tutti gli eventuali vizi, ma solo in caso di licenziamento intimato senza la forma scritta e in caso di violazione dei criteri di scelta, mentre la violazione delle procedure di cui all'art. 4, comma 12, L. 223/1991, determina il diritto all'indennità risarcitoria da un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità. Il comma 12, però, richiama il precedente comma 9, che tra le comunicazioni da inoltrare in forma scritta include i licenziamenti e quelle da inviare all'URLMO, alla Commissione regionale per l'impiego ed alle OOSS e, poi, si riferisce genericamente a tutte le procedure previste dallo stesso art. 4.
Posto che la reintegrazione deve applicarsi alle due ipotesi di vizi di licenziamento collettivo espressamente individuate, può ritenersi che la violazione di tutte le procedure regolamentate dall'art. 4 L. 223/1991 determina solo il pagamento della indennità risarcitoria sempre che il licenziamento sia intimato in forma scritta ed i criteri di scelta siano rispettati. Il rilievo concerne peraltro il profilo della sorte dei rapporti di lavoro, mentre resta aperto, sul piano sindacale, la violazione dei diritti della rsa e delle associazioni di categoria previsti dalla normativa in tema di licenziamento collettivo.
La violazione dell'obbligo di motivazione contestuale del licenziamento, dell'obbligo di preventiva contestazione dell'addebito e del tentativo preventivo di conciliazione per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo determina l'inefficacia del licenziamento. In tali casi è prevista una indennità risarcitoria da un minimo di 6 mensilità ad un massimo di 12 in relazione alla gravità della violazione formale e procedurale. L'espressione inefficacia potrebbe portare a ritenere che il rapporto di lavoro non sarebbe risolto con una sua continuità giuridica. Tale opinione é peraltro contrastata dalla parte della norma che statuisce l'applicabilità delle tutele previste per i vizi di giustificazione ove il Giudice accerti, sulla base della domanda del lavoratore, che sussiste anche un difetto di giustificazione del licenziamento nel qual caso applicherà il regime tipico previsto per ciascun vizio che non necessariamente come visto comporta la reintegrazione nel posto di lavoro. Il disegno di disciplina esaminato è evidentemente frutto di un difficile compromesso e probabilmente determinerà numerose incertezze applicative.
Condizionare l'applicabilità della reintegrazione non solo al livello occupazionale ma anche alla tipologia di vizio del licenziamento è una soluzione senz'altro condivisibile purché i diversi vizi del licenziamento siano chiaramente delineati. Questa chiarezza non mi sembra emergere dal disegno di legge esaminato, il che determinerà probabilmente una discrezionalità eccessiva da parte dei giudicanti con la conseguente incertezza dell'esito della lite laddove, almeno l'esperienza sollecita tale mia opinione, una sana gestione imprenditoriale impone certezze. I profili che mi sembrano eccessivamente vaghi, lasciando perdere altre incoerenze sulle quali in questa sede sorvolo, riguardano la distinzione tra licenziamenti disciplinari e per giustificato motivo oggettivo ai quali è applicabile la reintegrazione e licenziamenti motivati dalle stesse ragioni ai quali, pur se illegittimi, la reintegrazione non è applicabile.
Per i primi la reintegrazione non è applicabile nei casi diversi dalla insussistenza del fatto contestato e dalla sua riconducibilità a condotte punibili con una sanzione conservativa, solo che questi casi sono veramente di difficile configurazione. La prima ipotesi dovrebbe essere la violazione della preventiva contestazione dell'addebito, ma si è visto che questo caso è specificamente disciplinato dal legislatore. Resta allora, quale caso diverso dai due ai quali è applicabile la reintegrazione, l'ipotesi del licenziamento viziato per violazione del principio di proporzionalità sancito dall'art. 2106 c.c..
Tuttavia generalmente la proporzionalità della sanzione all'infrazione viene valutata anche considerando le previsioni della contrattazione collettiva in
tema di infrazioni disciplinari, sicché anche la violazione del principio di proporzionalità in numerosi casi potrebbe rientrare nella ipotesi in cui è applicabile la reintegrazione perché si tratta di condotte punibili come una sanzione conservativa.
Sotto il profilo pratico dunque riterrei che sono esclusi dall'applicabilità delle reintegrazione i licenziamenti disciplinari per i quali non è stato rispettato l'obbligo di preventiva contestazione, salvo che non sia configurabile altro vizio come sopra detto, e i licenziamenti per i quali il Magistrato comunque ritenga violato il principio di proporzionalità anche se la condotta addebitata, in linea astratta, non rientra tra le condotte punibili con la sola sanzione conservativa.
Il discorso è analogo per i licenziamenti individuali motivati dalle ragioni aziendali. Per tali licenziamenti, che poi sono quelli più importanti per le imprese poiché afferenti a motivi di una funzionale ed economica gestione dell'azienda, il Legislatore pensa di aggravare la procedura di intimazione prevedendo un preventivo tentativo di conciliazione.
É lecito interrogarsi in ordine all'atteggiamento concreto che i lavoratori assumeranno in occasione della notizia della intenzione del datore di lavoro di procedere al licenziamento. Mi chiedo, infatti, quante malattie sorgeranno improvvise e soprattutto come sarà valutato dal Giudice il comportamento del datore di lavoro che non aderisce alla richiesta di rinvio motivato dalla malattia del lavoratore. Ancora dubito della possibilità delle Commissioni provinciali di conciliazione di rispettare i termini previsti e soprattutto della loro capacità concreta di intervenire su tali questioni.
Come se non bastasse, anche per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo la linea di confine tra vizio che determina la reintegrazione nel posto di lavoro e vizio che determina la sola indennità risarcitoria non è ben chiara. Il primo è la manifesta insussistenza delle ragioni aziendali poste a base del licenziamento, sicché si dovrebbe ritenere che il Giudice non debba applicare la reintegrazione quando le ragioni aziendali non siano manifestamente infondate ma comunque inadeguate.
La differenza è sottile e forse sfuggente anche perché non esistono parametri normativi per valutare e censurare le scelte dell'imprenditore. Il Giudice infatti non può sindacare il merito delle valutazioni del datore di lavoro e, nella evidente consapevolezza di tale principio addirittura di rilevanza costituzionale, lo stesso disegno di legge chiarisce che la violazione dei limiti al sindacato di merito sulle valutazioni del datore di lavoro costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto. Tradizionalmente ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo occorre dimostrare la sussistenza delle ragioni aziendali dedotte a motivo del licenziamento, il nesso di causalità tra queste ragioni e la risoluzione del rapporto di lavoro, l'impossibilità di collocare il lavoratore in altre posizioni lavorative.
L'ipotesi di vizio del licenziamento per giustificato motivo oggettivo che dunque potrebbe escludere la reintegrazione nel posto di lavoro e consentire solo il pagamento della indennità è il caso in cui il datore di lavoro non riesca a dimostrare la terza condizione.
Qualche dubbio nutro invece se manchi la prova dell'esistenza del nesso di causalità tra ragione del licenziamento e posizione lavorativa poiché in questo caso, rispetto al rapporto di lavoro di cui si esamina la risoluzione, si potrebbe affermare la insussistenza delle ragioni aziendali. D'altra parte si è visto che la violazione dei criteri di scelta nei licenziamenti collettivi determina la reintegrazione nel posto di lavoro. Apparirebbe quindi incoerente non applicare lo stesso regime in caso di insussistenza del nesso di causalità che, in fin dei conti, è un criterio di scelta del lavoratore da licenziare per giustificato motivo oggettivo.
In conclusione i casi di licenziamento illegittimo senza reintegrazione sono veramente ridotti, e probabilmente frutto di una valutazione discrezionale della giurisprudenza il che rafforza la mia opinione sulla eccessiva enfatizzazione del dibattito poiché probabilmente questa riforma, alla fine nella sua applicazione concreta, confermerà la validità dell'insegnamento del Gattopardo. |