di Alfonso Amendola Dip. di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione, Università di Salerno - Direttore Artistico "Mediateca MARTE"
Per un packaging del CINEMA
I prodotti cinematografici che si riappropriano delle potenzialità creative e stilistiche del packaging sono quegli esemplari a cavallo tra cinema e sperimentazione video, in cui l'aspetto narrativo non è preponderante rispetto a quello grafico
Con Be Kind Rewind (Gli acchiappa‑film, 2008) Michel Gondry ‑ lucido manipolatore d'immagini e immaginari del contemporaneo lavora sulla confezione del film nel suo supporto "home video" sweded ossia taroccato, non soltanto nel contenuto (splendida rivoluzione della narrazione in chiave low budget e high fantasy) ma anche nel suo involucro commerciale, nel suo packaging appunto.
E così Gondry dopo lo strappo della memoria del suo perfetto e doloroso Eternal Sunshine of the Spotless Mind (straordinario titolo massacrato da un italico Se mi lasci ti cancello, 2004), dopo il viaggio nelle viscere e nella "manifattura" dell'onirico nel successivo L'arte dei sogni, 2006 e prima dell'imperfetto The Green Hornet (2011) nel suo penultimo film ha letteralmente bucato lo schermo con la matericità dei supporti di un prodotto cinematografico che già sa d'antan come il VHS (un lavoro "tematicamente" similare è Super 8 del 2011 di JJ Abrams e prodotto da Steven Spielberg).
La storia.
Ogni film "taroccato" da un geniale Jack Black (Ghostbusters, A spasso con Daisy, Men In Black, Il re leone e tanti altri) sono proposti al pubblico che entra nello scalcagnato negozio d'home video come immagini pop‑amatoriali eppure di grande effetto ed attrazione.
E così il compratore (nel film) pur avendo tra le mani un prodotto film decisamente di materia amatoriale si lascia prendere da questi film perché l'azione di richiamo del packaging rimanda ad un mondo interiorizzato, fatto d'innocenza, sogni possibili, vigore della fantasia anti imperialismo industriale.
Il film e gli involucri che accompagnano questi film sono un viaggio che sa d'assoluto dentro un sistema dello spettacolo gelido e formale. Un omaggio all'invenzione creativa e alla potenza della fantasia materica.
I prodotti cinematografici che si riappropriano delle potenzialità creative e stilistiche del packaging sono quegli esemplari a cavallo tra cinema e sperimentazione video, antenati di Andy Warhol e la "Factory" da un lato e del "New American Cinema" dall'altro, in cui l'aspetto narrativo non è preponderante rispetto a quello grafico.
Prodotti generalmente di bassa tiratura, in cui l'unicità del prodotto si esprime attraverso la personalizzazione e la cura del packaging, un esempio contemporaneo di questa endenza non marginale può essere rappresentato dalle figure mutanti della saga di Cremaster di Matthew Barney (1995‑2002), vere e proprie fiere digitali, in cui la trasfigurazione causata dal massiccio uso di protesi è un ibrido tra arcaismo simbolista e sperimentazioni hi‑tech, come pure si evince dal preziosissimo packaging in resina e lattice (dello stesso bianco idealizzato delle architetture di Richard Meyer), uniti a stoffe dalle texture dai colori accesi e dalla grana grossa, e tavole grafiche di bassa tiratura con rimandi materici e formali ai contenuti dei video incastonate all'interno della confezione, con cui viene accompagnata ogni copia di questi preziosi e criptici lavori di sperimentazione, a formare un aggregato di senso "contenuto‑contenitore" indistricabile e simbiotico.
Questo modo di intendere il packaging implica chiaramente un "remapping sensoriale" (per dirla con de Kerchove), una ridefinizione dei rapporti sensoriali e di fruizione del prodotto culturale di massa. |