di Raffaella Venerando
Il distretto cede il passo alla rete di impresa
intervista A Enzo Rullani - Reti di impresa sÌ, ma sostenibili
e resistenti alle scosse del mercato
INTERVISTA A Valter Taranzano - CreativitÀ, innovazione ed export contro la crisi
INTERVENTO DI Giancarlo CorÒ - Bisogna costruire la cooperazione interdistrettuale
Reti di impresa sÌ, ma sostenibili
e resistenti alle scosse del mercato
Enzo Rullani,
Professore di Economia
della Conoscenza TeDIS, Venice International
University
Come si è evoluta la fisionomia del distretto produttivo italiano negli ultimi anni?
I distretti, dopo la crisi del fordismo della grande impresa (anni Settanta) si sono rapidamente sviluppati utilizzando un capitale intellettuale (conoscenze) e relazionale (reti) disponibile a costo zero, nei territori. Grazie alla prossimità, le neo-imprese hanno “catturato” dalle altre le conoscenze disponibili, copiando, imitando o comprando le stesse macchine, facendo gli stessi prodotti, rivolgendosi agli stessi specialisti. Oltre a rubarsi i lavoratori qualificati in modo che il sapere dell’uno diventasse in poco tempo il sapere degli altri. Lo hanno fatto perché si amavano? Neanche per sogno: soltanto era un sapere non difendibile. Troppo vicino e troppo legato all’esperienza per escludere altri che vivono nello stesso luogo e fanno lo stesso mestiere. Lo stesso si può dire per il capitale relazionale (le reti). Non c’era bisogno di costruire reti di approvvigionamento per incontrare fornitori che hanno la fabbrica o il magazzino al di là della strada. E non c’è bisogno di ricorrere a marchi o a costose reti di vendita per convincere il cliente - che sta a due passi - di quello che so fare. E del fatto che si può fidare. Il sistema locale è cresciuto intorno a questo nucleo di conoscenze e reti che sono diventate il “capitale sociale” dei vari distretti: un polo di attrazione che giustifica non solo la localizzazione nel sistema distrettuale, ma anche la continua nascita di nuove imprese.
Poi sono arrivati i “cinesi” (nel senso di turchi, romeni, tunisini, russi, indiani, e anche alcuni cinesi) e tutto è cambiato. Perché c’è un unico modo di reggere alla concorrenza di chi compra le tue stesse macchine e copia i tuoi stessi prodotti, avendo un vantaggio invincibile dal lato del costo del lavoro (e altri costi ambientali): bisogna disporre di conoscenze originali e di reti esclusive, in modo da compensare lo svantaggio di essere diventati ormai un paese high cost.
Bisogna dunque fare investimenti importanti, e a rischio, per sviluppare nuove competenze esclusive: ma quelli che lo fanno scoprono ben presto che, una volta sviluppata ad alto costo una competenza distintiva in un campo particolare, non basta venderla ai clienti che si trovano nel distretto. Probabilmente, se la competenza è molto specializzata, sono troppo pochi. Bisogna allora guardare al mercato grande, oltre i confini locali e nazionali. Ecco da dove nascono le reti: la conoscenza che costa ha bisogno di grandi circuiti di approvvigionamento, applicazione e vendita. Questo cambiamento a due facce (più investimenti in conoscenza, più reti) non significa la morte del distretto, ma la sua evoluzione. Le aziende saranno meno uguali di prima, ma potranno imparare a rendere complementari le loro differenze. Sempre che i vecchi fornitori locali capiscano per tempo che cosa serve ai committenti di oggi, locali e globali, facendo anche loro un passo avanti.
Cosa comporterà per i distretti produttivi la novità sulle reti di impresa contenuta nel maxi-emendamento al decreto incentivi?
Generalmente la legge arriva a ratificare sul piano formale sistemi di relazione che emergono, nei fatti, in modo informale o sotto altro nome.
É già accaduto con i distretti, che sono stati ignorati dalla legge (e dall’accademia) quando erano in pieno sviluppo, e sono stati “riconosciuti” ufficialmente quando ormai erano arrivati alla maturità, e pericolosamente vicini al limite fisiologico del loro ciclo di crescita.
Le reti (di fatto) nascono come sistemi di divisione del lavoro cognitivo, tra partner che stabiliscono tra loro un rapporto stabile e affidabile, che si riproduce nel corso del tempo. Quando ce la fanno ad emergere e a resistere, le reti hanno due grandi vantaggi. Prima di tutto, permettono alle parti la reciproca specializzazione e dunque economie di scala nella produzione e nell’uso della conoscenza. In secondo luogo permettono di ampliare il bacino di uso e dunque il valore delle buone idee, che, appoggiandosi alle reti, possono scavalcare i confini aziendali, locali, settoriali. Le reti (di diritto), secondo la nuova normativa, sono libere associazioni di imprese che si mettono insieme per realizzare il progetto o per qualche altro scopo condiviso. Il contratto di rete, in altri termini, potrà definire diritti e obblighi tra le parti, in funzione dello scopo, ma potrà anche essere soggetto giuridico riconosciuto rispetto ai terzi e alla pubblica amministrazione, compreso quella fiscale. Con quali conseguenze? Adesso che le reti sono state giuridicamente riconosciute - accanto ai distretti - c’è da aspettarsi che la politica industriale possa favorire in qualche modo l’aggregazione a rete tra imprese insieme a quelle per distretti (ossia per luoghi specializzati in un particolare settore). Le reti possono essere interne ai distretti, ma anche trans-distrettuali. O meglio possono prendere forma in modo trans-locale e trans-settoriale. In questo potrebbero diventare complementari ai distretti, si spera non concorrenti (nella ricerca di fondi pubblici). In generale non c’è però da aspettarsi grandissime novità dal riconoscimento giuridico delle reti, anche se ovviamente il contratto di rete può servire per rendere più diretti e garantiti i rapporti tra imprese che si specializzano a vicenda e condividono progetti o conoscenze.
Quali saranno i benefici della tassazione collettiva?
L’idea di poter fare un consolidato di rete o di distretto, in astratto, sembra una misura che equipara davanti alla pressione fiscale piccole e grandi imprese. Finora se una grande impresa ha dieci unità, di cui una in perdita, le altre nove pagheranno meno tasse potendo portare nel consolidato fiscale la perdita della decima unità in detrazione del monte imponibile totale. Ma se questa impresa si scinde nelle dieci componenti, dando luogo a dieci piccole imprese (collegate in una rete informale) questo sconto fiscale viene perso. Con il consolidato di rete, se sarà realizzato, si ristabilisce dunque la neutralità fiscale tra le diverse dimensioni di impresa. Tuttavia, l’applicazione di questa procedura (vantaggiosa) non sarà priva di problemi. Pensiamo alle tante reti “finte” costituite solo formalmente per poter usare qualche “bara fiscale”. O al conflitto che si scatenerà tra i soci per la ripartizione del vantaggio ottenuto collettivamente. Insomma, chi vivrà vedrà. Non aspettiamoci troppo, anche se di incentivo in incentivo è probabile che le reti diventeranno più frequenti e più robuste.
Quali altri strumenti di sostegno il Governo può introdurre per valorizzare questa risorsa per l’economia nazionale?
Le reti sono strutture cognitive che si appoggiano a precise risorse connettive: la comunicazione, la logistica e la garanzia, che comprende anche una ragionevole governance dell’interdipendenza. Comunicazione vuol dire innanzitutto linguaggi formali (scienza, ingegneria, informatica, management, contabilità, diritto, ecc.) e codici collaudati di comunicazione (sistemi ERP, gestione dell’ordine, codici della qualità, tracciabilità, ecc.). Il governo ha una responsabilità fondamentale nella creazione dei linguaggi formali, che si diffondono attraverso l’istruzione superiore e la ricerca. Più investe in questi campi e più favorisce lo sviluppo delle reti di impresa, formali e informali. Logistica significa invece rendere fluido ed economico il trasferimento di persone, cose e informazioni nello spazio e anche nel tempo. Le reti usano conoscenze che sono distribuite nel tempo e nello spazio e dunque usano molto la logistica per mobilitarle e farle funzionare insieme. Ma come si fa a lavorare in rete se, nel luogo dove vivi e lavori, manca l’ADSL? O se le strade e le ferrovie sono intasate in modo permanente? Il risultato sarà che non si potranno usare le reti lunghe e che dunque non ci si potrà specializzare e far rendere le conoscenze. Conseguenza: gli investimenti in conoscenza non renderanno e tutto il processo di apprendimento e di upgrading delle competenze si fermerà.
Non parliamo poi della garanzia, giuridica e di fatto, su cui si regge il funzionamento efficace delle reti. Per accettare di dipendere da altri bisogna fidarsi, altrimenti è meglio fare da sé. Ma per fidarsi servono metodi di distribuzione dei rischi ex ante che siano collaudati e magari giuridicamente garantiti. Pensiamo ai rapporti di lavoro, ai circuiti della fornitura, alla tutela della proprietà intellettuale e dei marchi, ai rapporti con le banche: tutti campi in cui bisogna rendere conveniente la condivisione, invece che il comportamento opportunistico di tutti contro tutti. Per lavorare in rete abbiamo bisogno di istituzioni che rendano flessibili e al tempo stesso robusti i legami tra le persone e le imprese, evitando che si sciolgano ad ogni oscillazione dei mercati. Queste istituzioni non ce le abbiamo: dal punto di vista delle istituzioni del rischio viviamo ancora come se fossimo in piena epoca fordista, quando il futuro era prevedibile e il cambiamento governato. Ma non è più così da tempo.
Le reti di fatto nascono e muoiono perché subiscono le fluttuazioni del rischio e dei valori. Tocca a noi capire che perché gli investimenti in conoscenza rendano, dobbiamo costruire reti sostenibili, che non si dissolvono ad ogni mutar di vento. Un compito ambizioso, e discretamente ignorato. |