di Raffaella VENERANDO
L'interVISTA - Morandini: «La capitalizzazione
delle pmi È necessaria per ripartire» - Giuseppe Morandini
L'intervISTA - Le imprese restano
il “fondamentale” del Paese - VINCENZO BOCCIA
L'intervISTA - l’integrazione tra le economie
contro l’onda d’urto della crisi - STEFANO GATTI
L'intervENTO -crollo della finanza:
effetti e rimedi per le imprese - DI MARCO FIORENTINO
Mercati in tempesta
Lo tsunami finanziario contagia l’economia reale
Allarme credito per le piccole e medie imprese. Soldi razionati e tasse ulteriori sulla crisi
bloccano lo sviluppo e gli investimenti delle aziende
Un diluvio universale: potrebbe essere definito così il cataclisma che ha travolto negli ultimi mesi i mercati finanziari di mezzo mondo, con ribassi senza precedenti e cifre impressionanti bruciate dalle Borse internazionali. La crisi, partita dall’America, è stata generata dalla bolla speculativa creatasi sul mercato immobiliare statunitense e dalla mancata regolamentazione delle banche d’investimento. È saltato tutto d’un colpo un sistema finanziario “drogato”, che – a detta di molti - si fondava sul nulla perché completamente sganciato dall’economia reale e quindi dal lavoro, dalla produzione. Un sistema “creativo” senza controllo, la cui esplosione ha finito - in tempi rapidi e globalizzati come quelli che stiamo vivendo - per valicare i confini Usa e coinvolgere tutti, Europa in testa. La crisi infatti è partita dagli Stati Uniti ma ha finito con il propagarsi in breve tempo in tutto il mondo. Il rischio più grave ora - adesso che anche in Italia abbiamo vissuto un ottobre a dir poco caldo e in rosso - è che la crisi dai mercati finanziari si sposti e contagi anche l'economia reale. Un rischio che giorno dopo giorno si fa sempre più concreto e vicino e che si chiama recessione. La fiducia è ai minimi storici, mentre l’incertezza è elevata, come ratificato dalle stime del Fondo Monetario Internazionale che ha previsto - ribassando le proprie iniziali previsioni - crescita zero, o appunto recessione, per i paesi industrializzati, compreso il nostro. È l’economia mondiale oggi ad essere in pericolo. A livello europeo un primo segnale importante per arginare gli effetti devastanti della crisi è stato dato dalla Banca Centrale Europea che ha abbassato i tassi di interesse; altro provvedimento decisivo è stato poi messo a punto dall’Eurogruppo che ha raggiunto un accordo sulla strategia da adottare per fronteggiare la crisi: i governi di ciascun paese, compreso quello italiano, garantiranno sui prestiti interbancari fino al 31 dicembre 2009. Inoltre, laddove ve ne fosse esigenza, è stata anche messa in conto la possibilità per i governi di fornire alle istituzioni finanziarie i capitali indispensabili per assicurare il buon funzionamento dell'economia e di impegnarsi per le ricapitalizzazioni degli istituti di credito in difficoltà al fine di scongiurarne il fallimento, come accaduto negli Stati Uniti a gruppi bancari ritenuti fino a quel momento colossi invincibili. Il piano europeo ha quindi dimostrato l’elevato livello di coesione e di forza di tutta l’Europa di fronte alla crisi arrivata imprevista e che ora pare inarrestabile. Ma, se per salvare le banche qualche strategia è stata già approntata, cosa bisogna fare per mettere al riparo chi sarà più esposto agli effetti negativi della crisi? Cosa bisogna fare e subito per salvaguardare le imprese che dalla crisi rischiano di uscire oltremodo penalizzate? A pagare duro questo momento di particolare emergenza sono le imprese, special modo quelle medio-piccole che già nella norma hanno difficoltà storiche nell’accesso al credito e che - come accade al Mezzogiorno - già sopportano un costo del denaro più alto. A causa della bufera abbattutasi sui mercati finanziari, infatti, come conferma la stessa Banca d’Italia gli istituti di credito in Italia starebbero chiudendo i rubinetti dei prestiti all’economia reale, irrigidendo i criteri adottati per l’erogazione dei prestiti alle imprese, razionando il credito e - in alcun casi - addirittura applicando un tasso più alto sui finanziamenti a scopo tutelativo, allungando i tempi di istruttoria e richiedendo maggiori garanzie». Ma senza credito è facile immaginare che alle imprese verrà meno l’ossigeno indispensabile per continuare a creare occupazione, per continuare a resistere. «Oggi è più che mai necessario – come ha dichiarato il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia nel corso di un summit anticrisi con i principiali istituti di credito del nostro Paese lo scorso 17 ottobre - è non far mancare il credito alle imprese». Già in occasione del Convegno dei Giovani Imprenditori a Capri il 3 e 4 ottobre scorso, quando la crisi era ai suoi primi esordi, il Presidente di Confindustria aveva lanciato l’allarme: «Basta castelli di carta costruiti e venduti spesso in modo delinquenziale a cittadini e risparmiatori. Bisogna tornare alla base, all’economia reale. Ben vengano quindi i salvataggi statali per arginare la crisi dei mutui purché non manchi l’ossigeno alle imprese sane, a quelle aziende che producono reddito e creano valore. Nell’emergenza, lo Stato ci deve essere, ma poi bisogna ripristinare il mercato ben regolato. Non ci devono essere alibi per tornare al controllo pubblico dell’economia». «I sistemi finanziari - aveva precisato la leader degli industriali - devono tornare a fare il loro mestiere, supportando e finanziando le imprese, le uniche in grado di creare ricchezza e benessere vero per la comunità». Le preoccupazioni del presidente di Confindustria sono infatti confermate dai recenti dati della Banca d’Italia (dati che comunque sono precedenti il crack dei mercati finanziari) secondo i quali è in corso un rallentamento della crescita del mercato dei prestiti che «ha interessato le imprese di tutte le dimensioni e di tutte le aree geografiche, ma è stato più marcato nel Mezzogiorno nei settori dei servizi e manifatturiero». Alla riduzione dei consumi cominciata nella seconda metà del 2007, oggi vanno ad aggiungersi per il mondo imprenditoriale fatturati e ordini in calo, mai così bassi da 17 anni a questa parte secondo l’Istat, del mercato automobilistico e dell’industria bianca - quella degli elettrodomestici per intenderci - e dei beni durevoli. È una crisi seria che coinvolge anche la grande impresa, quindi. È seria perché ha tra i suoi effetti più immediati la riduzione della liquidità che, tradotto in altri termini, significa sempre meno denaro a disposizione delle imprese e degli investimenti produttivi. Per alcune di queste imprese il cortocircuito con il sistema del credito può significare non solo flessione di mercato, ma addirittura drastica riduzione dell’occupazione e perdita di posti di lavoro, tracollo e chiusura. Diventa, in questa situazione così ai limiti, ancora più urgente potenziare il ruolo dei Consorzi Fidi, valorizzando la loro funzione fondamentale che consiste nel fornire garanzie per consentire ai piccoli imprenditori di ottenere i finanziamenti necessari ad effettuare investimenti e creare occupazione. Dal “credit crunch”, dalla stretta creditizia alla deindustrializzazione poi il passo può essere davvero breve se non vengono poste in essere, e subito, delle contromisure capaci di arginare la crisi e i suoi riverberi. Per questo Confindustria chiede al Governo decisioni operative impellenti: un fondo speciale di garanzia per potenziare l’azione dei confidi, da affiancare ad un fondo pubblico che - come ha precisato il presidente Marcegaglia - «ci si augura non venga usato per linee di credito ad imprese che richiedono una garanzia da parte dello Stato», ma anche interventi sul fisco, sulle infrastrutture, sull’economia produttiva (vedi intervista a Giuseppe Morandini). Per l’economia italiana il rischio recessione non è facilmente gestibile. Da più parti, compreso il Centro Studi di Confindustria, si parla di una possibile ripresa solo nel 2009. Il pericolo più grave è appunto la mancanza di liquidità causata dalla crisi finanziaria mondiale che va ad amplificare quelli che sono i difetti strutturali del nostro sistema produttivo, uno su tutti la mancata crescita. L’Italia rischia grosso perché è in Europa un anello debole a causa della bassa crescita che ormai da più di 15 anni la interessa, a causa del Prodotto Interno Lordo pro-capite inferiore a quello di paesi come la Francia, la Germania, il Regno Unito e la Spagna, a causa della sua bassa produttività, della sua debole competitività sui mercati internazionali. Siamo in una posizione di netto svantaggio e se le nostre imprese smettono di investire in innovazione e sviluppo allora sarà sempre più complicato reggere la concorrenza.
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