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  Dicembre 2012

Articoli n° 1
gennaio/febbraio 2006
 

credito e finanza - Home Page
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l’evoluzione dei Confidi

Il nuovo ruolo previsto dalle recenti normative

L’etica e il valore
economico di impresa

Bando per le imprese femminili
I requisiti per la partecipazione

L’etica e il valore
economico di impresa

Oscar DE FRANCISCIS*

Un sistema economico funziona
se il barometro della fiducia segna alto

Gli scandali societari del passato recente, verificatisi a diverse latitudini del globo, hanno indicato chiaramente che la pletora di leggi del secolo scorso e di quelle in corso di emanazione non hanno eliminato e non elimineranno (sic!) gli aspetti meno simpatici del comportamento umano e, in particolare, quelli conseguenti all'avidità e al potere, quale affermazione individuale di onnipotenza, al di fuori e al di sopra di ogni regola. Il problema è quello che il comportamento deviato di pochi possa essere percepito come un atteggiamento del sistema, anche per la sola incapacità dello stesso di riuscire a cogliere in tempo utile i segnali di irregolarità, accreditando iniziative e personaggi poi dimostratisi del tutto privi di quella "moralità economica" che nessun risultato o obiettivo può giustificare. Joseph Stiglitz, nobel per l'economia 2001, nel periodo in cui è stato capo economista della banca mondiale (1997-2000), ha definito cinque "precetti" guida, indispensabili sia nell'azione economica pubblica che privata: onestà, equilibrio, giustizia sociale, informazione, responsabilità. É chiaro che queste regole, prima di essere del sistema, devono appartenere ai singoli: va riaffermata con forza la validità del "retto carattere", che nessun codice o norma deontologica può sostituire. É a questo punto che il dibattito in corso sulla responsabilità sociale di impresa deve tornare a considerare la responsabilità etica di impresa, intesa quale entità proiettata a soddisfare non solo interessi privatistici, ma a creare ricchezza e valore per l'intera società. In quest'ottica gli amministratori, che pure hanno un rapporto fiduciario con gli azionisti che li hanno nominati, debbono usare le risorse societarie loro affidate per perseguire il profitto, inteso in senso lato e ampio e, soprattutto, non in termine di solo utile distribuibile, in modo che l'incremento della ricchezza degli azionisti sia, in modo spesso indiretto e mediato, occasione di crescita per tutta la società, nel rispetto di quanto fu indicato da Milton Friedman nel lontano 1970. In linea con tale logica si pone la normativa del D.lgs. 231/2001, che ha introdotto nel nostro ordinamento la responsabilità in sede "penale" degli enti, che si aggiunge a quella della persona fisica che ha materialmente realizzato il reato. Infatti, ove alcuni soggetti che ricoprono definite funzioni aziendali commettano gli illeciti penali previsti dalla norma, arrecando un vantaggio alla società, è prevista l'irrogazione di sanzioni che coinvolgono pure il patrimonio degli enti (leggasi anche società quotate e non) e, dunque, gli interessi economici dei soci. La ratio della norma è quella di scoraggiare comportamenti illeciti da parte del personale aziendale, stimolando un'azione di governo funzionale alla prevenzione dei reati. La società può addirittura invocare una "esimente" ove dimostri di aver adottato un efficace "modello di organizzazione, di gestione e controllo", di aver emanato un codice etico e di disporre di un organismo di vigilanza dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo. La norma richiede, quindi, che il concreto operare delle aziende venga dettato da un equilibrato mix tra cultura manageriale, risultati da conseguire, trasparenza informativa interna ed esterna ed etica degli affari. Non a caso il codice Preda definisce il governo di impresa (corporate governance) quale <insieme di regole attraverso le quali l'impresa è gestita e controllata. Lo scopo della governance è di creare valore per l'azionista>. Va evidenziata la pari dignità che la funzione di controllo assume rispetto a quella gestoria; ciò a riprova che il sistema delle aziende non sarà colpito da crisi di fiducia (con perdita di valore economico) solo se dimostrerà che gli eventi illeciti o non corretti dipendono da comportamenti di singoli e non da un atteggiarsi del sistema, anche se solo di tipo permissivo. In tal senso, va sottolineato il contenuto del novellato art. 2381 c.c. che valorizza comportamenti responsabili, equilibrati, informati, tesi a realizzare, nel rispetto dei ruoli e delle funzioni di ciascun organo, quella corretta collegialità che è il presidio migliore per ispirare la gestione a comportamenti finalizzati a conseguire valore per la proprietà e, ancor prima, per tutti gli altri stakeholders. La collegialità del momento decisorio consente di evitare che gli amministratori con delega diventino arbitri della vita aziendale, anziché promotori e soprattutto esecutori delle scelte collettive del consiglio, eliminando quella situazione di "premiarato tirannico" che, a mio avviso, è alla base di molti comportamenti non corretti o, addirittura, illeciti. Ruolo essenziale nel realizzare l'adeguato funzionamento del consiglio di amministrazione lo ha il presidente, cui è riconosciuto il diritto/dovere di coordinare i lavori e di provvedere affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all'ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri. Di fatto, il presidente deve svolgere un essenziale ruolo di bilanciamento tra amministratori con delega e amministratori senza delega (o anche cosiddetti indipendenti), con una attività politica di conduzione caratterizzata da una forte moralità e terzietà, a garanzia della immagine e della missione della società; deve essere il garante della coesione interna: anche l'usciere di una società deve avere la certezza di poter ricorrere al suo presidente se ritiene di aver subito un torto. Già nel codice Higgs (2003) si legge che: <I ruoli di presidente e amministratore delegato devono essere mantenuti distinti. L'amministratore delegato non deve successivamente divenire presidente>. Nel decalogo pubblicato dalla Spencer Stuart (2004) si legge: <Il presidente è l'animatore e l'arbitro del lavoro del consiglio. Le informazioni sugli argomenti da trattare sono fornite ai consiglieri con anticipo e dettagli adeguati alla loro importanza, prevedendo anche un tempo idoneo per la discussione in consiglio>. Dal Financial Times (2005) si legge che il presidente modello è una persona che lavora bene con l'amministratore delegato; incoraggia le discussioni sfidanti; rivede con regolarità le performance del top manager; gestisce una agenda stringente ma flessibile; ha uno stile di leadership aperto; non è il precedente amministratore delegato; è una persona di vasta esperienza; è una persona che si è preparata a svolgere il proprio ruolo; è una persona responsabile; sa bilanciare la governance in senso stretto con la strategia. L'art. 2381 c.c., nella formulazione della riforma, ha finalmente disciplinato l'informazione endoconsiliare, riconoscendo che non vi possono essere flussi informativi corretti, né verso gli organi di controllo né verso i soci e il mercato, se l'informazione non circola adeguatamente all'interno del consiglio di amministrazione. Al presidente il ruolo di "mediatore" nella circolazione dell'informazione, secondo uno stile di neutralità di tipo professionale, propria di chi ha la responsabilità della retta conduzione di un organismo decisionale collegiale. Se poi l'azione del consiglio si fonda sul principio della "company stakeholder responsability", concentrandosi sulla creazione di valore a tutti i livelli e per tutti i portatori di interesse interagenti con l'impresa, si recupererà la inseparabilità del business dall'etica, preservando il valore economico di impresa da repentini e inaspettati crolli ed evitando, altresì, crisi di identità - di fiducia - di valori - all'intero sistema di organizzazione dell'impresa e in particolare agli uomini che vi operano. E ciò è tanto più importante se si condivide il modello di capitalismo leggero e personale che Bonomi e Rullari (nel loro lavoro "Il capitalismo personale. Vite al lavoro" pubblicato da Einaudi) ritengono possa rappresentare l'evoluzione italiana al post fordismo: un modello di sviluppo che si orienta verso le produzioni complesse e che è caratterizzato da varietà, variabilità e indeterminazione, con conseguente necessità di lavoro creativo e strutture flessibili. Un capitalismo, quindi, incentrato sulle persone, sulle relazioni e conoscenze, su un'efficiente interrelazione tra dimensione locale e globale, ha bisogno di fondarsi sulla fiducia e affidabilità dei comportamenti.
*Dottore Commercialista

 

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