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  Dicembre 2012

Articoli n° 1
gennaio/febbraio 2006
 

relazioni industriali - Home Page
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Riforma Biagi:
il trasferimento di azienda


Laura LANZARA

Interventi modificativi sull’istituto e differenze con la cessione di un ramo


L’argomento che, come Area Relazioni Industriali, intendiamo trattare in quest'articolo (modifiche che il D.Lgs. 276/2003 di riforma del mercato del lavoro ha apportato alla disciplina del trasferimento di ramo di azienda ex art. 2112 cod. civ.) è frutto di un lavoro ben più ampio e articolato trattato dall'avvocato Giovanni Ambrosio, giuslavorista del foro di Salerno, in due recenti convegni il primo tenutosi a Salerno il 22 novembre 2005 e organizzato dall'Ordine dei Consulenti del Lavoro della Provincia di Salerno e il secondo tenutosi a Napoli il 13 dicembre 2005, organizzato dall'Ordine dei Consulenti del Lavoro della Provincia di Napoli. Cercheremo, dovendo essere sintetici per ragioni di spazio e immediati a beneficio del lettore, di riportare l'argomento in questione senza stravolgere o ridurre lo studio e i concetti che l'avvocato Ambrosio ha trattato con competenza e lucidità. La premessa su cui l'avvocato ha fondato tutte le sue successive considerazioni è che l'art. 32 del D.Lgs. 276/2003, come modificato dal D.Lgs. 251/2004, ha operato una importante modifica nel testo dell'art. 2112 del codice civile, introducendo forti elementi di differenziazione tra la nozione di "ramo di azienda" e quella di "azienda", disciplinando quindi differentemente il trasferimento di azienda dal trasferimento di ramo di azienda. Appunto, l'Azienda viene definita come <un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l'usufrutto o l'affitto di azienda>, mentre il ramo di azienda viene definito come <l'articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento>. L'autore della trattazione ritiene che, il legislatore, nel modificare il suddetto art. 2112 cod. civ. abbia inteso introdurre un richiamo alla volontà dei contraenti, alla cui valutazione di identificazione dei beni trasferiti quale ramo di azienda è rimessa l'applicazione di una norma imperativa posta a tutela di terzi (i lavoratori). In pratica, con tale disposizione, viene concessa alle parti la possibilità di disporre del tipo normativo, ossia di decidere se da un dato atto sia sussumibile una fattispecie astratta legislativamente prevista con carattere imperativo per la tutela di interessi estranei ai contraenti e in molti casi confliggenti con quelli degli stessi. Inoltre, il legislatore consente che la manifestazione di volontà dei contraenti investa ciò che di considerazione non può essere oggetto, ciò che viene qualificato non da una valutazione delle parti ma dalla sua stessa natura, e cioè lo stesso essere, o non essere, un dato insieme di beni una parte dell'azienda. Tale orientamento del legislatore viene appunto stigmatizzato dall'autore, il quale sostiene che l'irrazionalità di tale opzione può emergere dalla considerazione che, se cedente e cessionario risultano accomunati dalla volontà di eludere l'applicazione dell'art. 2112 cod. civ. potrebbero decidere, in sede di vendita di una azienda, di sottrarre alla disciplina del trasferimento (che ricordiamo per le aziende con più di 15 dipendenti, la L. 428/90 prevede una preventiva procedura di consultazione con le OO. SS.) una limitatissima e irrilevante parte dei beni o, per ipotesi, addirittura un singolo bene, qualificando poi nell'atto di compravendita tale operazione come una vendita non avente ad oggetto parte di azienda. Evidentemente, per superare tale impasse, è necessario affiancare alla valutazione quantitativa dei beni oggetto di trasferimento anche una di natura qualitativa, atteso che non è il numero dei beni che fa l'azienda, ma lo speciale rapporto che li lega. Appare poi singolare l'identificazione della nuova norma contenuta nell'art. 2112 in una sorta di "Giano bifronte". Infatti, essa persegue senz'altro obiettivi di tutela dei lavoratori dipendenti, consentendo la prosecuzione del rapporto di lavoro con colui che subentra nella titolarità dell'azienda, ma d'altronde, laddove cedente e cessionario siano animati da intenti di carattere elusivo, l'applicazione di tale tutela può comportare effetti assai sfavorevoli per i lavoratori. Lo strumento della cessione del ramo d'azienda potrebbe essere utilizzato per consentire una sorta di cura dimagrante nel numero dei dipendenti, perseguendo il fine di andare al di sotto della soglia di operatività di quelle disposizioni che per il datore comportano un indubbio ed evidente costo: in primis, l'applicazione della tutela reale contro i licenziamenti ingiustificati derivante dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ma anche le norme sul collocamento obbligatorio o in materia di diritti sindacali. Ecco quindi che la norma mostra le sue due facce: da un lato il lavoratore può avere interesse a rimanere alle dipendenze del vecchio datore di lavoro, in quanto, ad esempio, il ramo ceduto ad altro imprenditore occupa meno di quindici dipendenti, mentre l'azienda-madre rimane al di sopra di detta soglia; dall'altro può avere interesse ad entrare nella società cessionaria per evitare il rischio di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo (in quanto, una volta ridotta l'attività, il datore di lavoro cedente può non avere più interesse a proseguire i rapporti di lavoro con tutti i lavoratori non toccati dal trasferimento). In realtà, la conclusione cui si perviene è che la disposizione in commento avvantaggi prevalentemente (anzi esclusivamente) il datore di lavoro. Ciò perché il lasciare libertà di scelta circa l'individuazione di un complesso di beni quale ramo di azienda è favorevole all'imprenditore, atteso che il consentire una scelta invece di imporre la rigida applicazione di una norma di legge significa attribuire un vantaggio, che riguarda solo ed esclusivamente i contraenti (e quindi non i dipendenti). Un altro aspetto su cui vale la pena soffermare l'attenzione riguarda il caso il cui tra il cedente e il cessionario venga stipulato un contratto di appalto eseguito mediante il ramo di azienda trasferito. Sul punto è stato sottolineato come la norma contenuta nell'art. 2112 c.c. sia stata modificata una prima volta dal d.lgs. 276/2003, e poi successivamente dal d.lgs. 251/2004 in senso più restrittivo per le parti contraenti. Infatti, mentre la prima versione della norma prevedeva il regime di solidarietà tra committente e appaltatore nei limiti del debito che il committente aveva verso l'appaltatore, l'attuale versione dispone la solidarietà tra appaltante a appaltatore entro il limite di un anno dalla cessazione dell'appalto per i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti.

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