Riforma Biagi:
il trasferimento di azienda
Laura
LANZARA
Interventi modificativi sull’istituto e
differenze con la cessione di un ramo
L’argomento che, come Area Relazioni Industriali,
intendiamo trattare in quest'articolo (modifiche che il D.Lgs. 276/2003
di riforma del mercato del lavoro ha apportato alla disciplina del trasferimento
di ramo di azienda ex art. 2112 cod. civ.) è frutto di un lavoro
ben più ampio e articolato trattato dall'avvocato Giovanni Ambrosio,
giuslavorista del foro di Salerno, in due recenti convegni il primo tenutosi
a Salerno il 22 novembre 2005 e organizzato dall'Ordine dei Consulenti
del Lavoro della Provincia di Salerno e il secondo tenutosi a Napoli
il 13 dicembre 2005, organizzato dall'Ordine dei Consulenti del Lavoro
della Provincia di Napoli. Cercheremo, dovendo essere sintetici per ragioni
di spazio e immediati a beneficio del lettore, di riportare l'argomento
in questione senza stravolgere o ridurre lo studio e i concetti che l'avvocato
Ambrosio ha trattato con competenza e lucidità. La premessa su
cui l'avvocato ha fondato tutte le sue successive considerazioni è che
l'art. 32 del D.Lgs. 276/2003, come modificato dal D.Lgs. 251/2004, ha
operato una importante modifica nel testo dell'art. 2112 del codice civile,
introducendo forti elementi di differenziazione tra la nozione di "ramo
di azienda" e quella di "azienda", disciplinando quindi
differentemente il trasferimento di azienda dal trasferimento di ramo
di azienda. Appunto, l'Azienda viene definita come <un'attività economica
organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento
e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere
dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il
trasferimento è attuato ivi compresi l'usufrutto o l'affitto di
azienda>, mentre il ramo di azienda viene definito come <l'articolazione
funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata,
identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo
trasferimento>. L'autore della trattazione ritiene che, il legislatore,
nel modificare il suddetto art. 2112 cod. civ. abbia inteso introdurre
un richiamo alla volontà dei contraenti, alla cui valutazione
di identificazione dei beni trasferiti quale ramo di azienda è rimessa
l'applicazione di una norma imperativa posta a tutela di terzi (i lavoratori).
In pratica, con tale disposizione, viene concessa alle parti la possibilità di
disporre del tipo normativo, ossia di decidere se da un dato atto sia
sussumibile una fattispecie astratta legislativamente prevista con carattere
imperativo per la tutela di interessi estranei ai contraenti e in molti
casi confliggenti con quelli degli stessi. Inoltre, il legislatore consente
che la manifestazione di volontà dei contraenti investa ciò che
di considerazione non può essere oggetto, ciò che viene
qualificato non da una valutazione delle parti ma dalla sua stessa natura,
e cioè lo stesso essere, o non essere, un dato insieme di beni
una parte dell'azienda. Tale orientamento del legislatore viene appunto
stigmatizzato dall'autore, il quale sostiene che l'irrazionalità di
tale opzione può emergere dalla considerazione che, se cedente
e cessionario risultano accomunati dalla volontà di eludere l'applicazione
dell'art. 2112 cod. civ. potrebbero decidere, in sede di vendita di una
azienda, di sottrarre alla disciplina del trasferimento (che ricordiamo
per le aziende con più di 15 dipendenti, la L. 428/90 prevede
una preventiva procedura di consultazione con le OO. SS.) una limitatissima
e irrilevante parte dei beni o, per ipotesi, addirittura un singolo bene,
qualificando poi nell'atto di compravendita tale operazione come una
vendita non avente ad oggetto parte di azienda. Evidentemente, per superare
tale impasse, è necessario affiancare alla valutazione quantitativa
dei beni oggetto di trasferimento anche una di natura qualitativa, atteso
che non è il numero dei beni che fa l'azienda, ma lo speciale
rapporto che li lega. Appare poi singolare l'identificazione della nuova
norma contenuta nell'art. 2112 in una sorta di "Giano bifronte".
Infatti, essa persegue senz'altro obiettivi di tutela dei lavoratori
dipendenti, consentendo la prosecuzione del rapporto di lavoro con colui
che subentra nella titolarità dell'azienda, ma d'altronde, laddove
cedente e cessionario siano animati da intenti di carattere elusivo,
l'applicazione di tale tutela può comportare effetti assai sfavorevoli
per i lavoratori. Lo strumento della cessione del ramo d'azienda potrebbe
essere utilizzato per consentire una sorta di cura dimagrante nel numero
dei dipendenti, perseguendo il fine di andare al di sotto della soglia
di operatività di quelle disposizioni che per il datore comportano
un indubbio ed evidente costo: in primis, l'applicazione della tutela
reale contro i licenziamenti ingiustificati derivante dall'art. 18 dello
Statuto dei Lavoratori, ma anche le norme sul collocamento obbligatorio
o in materia di diritti sindacali. Ecco quindi che la norma mostra le
sue due facce: da un lato il lavoratore può avere interesse a
rimanere alle dipendenze del vecchio datore di lavoro, in quanto, ad
esempio, il ramo ceduto ad altro imprenditore occupa meno di quindici
dipendenti, mentre l'azienda-madre rimane al di sopra di detta soglia;
dall'altro può avere interesse ad entrare nella società cessionaria
per evitare il rischio di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo
(in quanto, una volta ridotta l'attività, il datore di lavoro
cedente può non avere più interesse a proseguire i rapporti
di lavoro con tutti i lavoratori non toccati dal trasferimento). In realtà,
la conclusione cui si perviene è che la disposizione in commento
avvantaggi prevalentemente (anzi esclusivamente) il datore di lavoro.
Ciò perché il lasciare libertà di scelta circa l'individuazione
di un complesso di beni quale ramo di azienda è favorevole all'imprenditore,
atteso che il consentire una scelta invece di imporre la rigida applicazione
di una norma di legge significa attribuire un vantaggio, che riguarda
solo ed esclusivamente i contraenti (e quindi non i dipendenti). Un altro
aspetto su cui vale la pena soffermare l'attenzione riguarda il caso
il cui tra il cedente e il cessionario venga stipulato un contratto di
appalto eseguito mediante il ramo di azienda trasferito. Sul punto è stato
sottolineato come la norma contenuta nell'art. 2112 c.c. sia stata modificata
una prima volta dal d.lgs. 276/2003, e poi successivamente dal d.lgs.
251/2004 in senso più restrittivo per le parti contraenti. Infatti,
mentre la prima versione della norma prevedeva il regime di solidarietà tra
committente e appaltatore nei limiti del debito che il committente aveva
verso l'appaltatore, l'attuale versione dispone la solidarietà tra
appaltante a appaltatore entro il limite di un anno dalla cessazione
dell'appalto per i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali
dovuti.
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