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  Dicembre 2012

Articoli n° 8
OTTOBRE 2004
 

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OLIMPIA È UN RICORDO LONTANO
IL CALCIO ITALIANO ALLA FRUTTA
L’immagine del Paese sconta i misfatti del campionato “più bello del mondo”

Oreste Pastore
Responsabile Area Legislativa
o.pastore@assindustria.sa.it

 

Per chi, come il sottoscritto, non è editorialista di professione citarsi addosso è una vera e propria libidine. Ma come si fa a non tornare sull'argomento calcio (cfr. nostro intervento su Costozero dell'ottobre 2002), dopo un'estate come quella passata e quando, dopo i primi calci di campionato, si prefigurano già gli elementi di una stagione "indimenticabile"? Ci aveva illusi la bolla Olimpica: un breve paradiso che ci aveva confermato che da qualche parte del mondo ci sono uomini e donne che corrono, saltano, calciano per il piacere di farlo e per quello, inestinguibile, di superarsi. Per qualche settimana, i nostri occhi (e il nostro fegato) avevano goduto del gesto fluido del nuotatore, della danza degli schermidori, finanche del folle balletto del badminton e del frenetico saltellare del tennis tavolo. Da tifosi, poi, ci eravamo ubriacati dei successi dei nostri azzurri; perché, va bene partecipare, ma Fratelli d'Italia, il Presidente, il Tricolore (a dispetto di Bossi e Calderoli) sono ancora dentro il nostro io più profondo, a scuoterci e a farci piangere di gioia, ogni volta che i nostri atleti salivano sul podio. Certo, qualche avvisaglia dal campo erboso di Atene era già arrivata: l'insofferenza dei pedatori per il villaggio olimpico, le botte con gli africani, le solite chiacchiere per giustificare un risultato finale (l'ennesimo a livello internazionale) certamente non all'altezza dei pronostici. Ma il ritorno alla realtà, nazionale e salernitana, è stato veramente clamoroso, anche se non inaspettato. Un nuovo scandalo scommesse, un altro fallimento societario, ancora allusioni sul doping, grande spazio mediatico ai Presidenti Masaniello (Gaucci, il solito; ma attenti a De Laurentis!), Sindaci e Governatori che invece di occuparsi dei problemi della comunità amministrata, non si vergognano di. E poi, alla ripresa delle gare, il momento che - grazie alla bellezza del gioco - dovrebbe spazzare via tutto il chiacchiericcio di fondo di questo strano mondo, il giocatore sul quale la nazionale vorrebbe/dovrebbe puntare per il futuro si fa espellere alla prima partita di campionato per una violenta manata a un avversario; poi, nello stesso stadio nel quale si era consumata qualche mese prima l'assurda pantomima del "tutti a casa" per decisione dei capo-tifosi, analogo epilogo veniva sancito da un arbitro pesto e sanguinante per mano ignota. Sugli altri campi, ordinario isterismo, con un Presidente che contesta l'arbitro nell'intervallo tra il primo e secondo tempo e, all'Arechi, per non essere da meno, bottiglia in testa a un avversario. È dato acquisito che alcune simpatiche figure di primo piano del "sistema" (Moggi, Galliani) non possano più mettere piede in certi campi. Ovunque, scontri tra bande di tifosi, già dalle prime amichevoli precampionato. Ci vestiamo da facili Cassandre, immaginando un anno funesto. E allora, scusate, ma davvero non se ne può più. Il calcio italiano riflette e rimanda un’immagine del nostro Paese che non è più possibile accettare: un universo ormai senza regole, che vive al di sopra delle sue possibilità, "drogato" di successo, Titanic diretto a vele spiegate verso l'iceberg del dissesto. Se fosse un'azienda, sarebbe da tempo fallita. In linea di principio, è necessario eludere una volta per tutte l'equivoco di fondo: il calcio professionistico non è uno sport. Esso ormai, anche nel linguaggio comune è un "circo", e come tale dovrà essere considerato. Le Società calcistiche producono e gestiscono uno spettacolo sportivo, che è in concorrenza con il cinema, la televisione, il wrestling, non con le competizioni sportive "olimpiche". L'elemento che va maggiormente in contraddizione con tale visione è la logica delle promozioni e delle retrocessioni. È assurdo, che lo spettacolo perda ogni anno quattro protagonisti di primo piano per sostituirli con quattro di secondo piano. La retrocessione è una punizione enorme, in termini di ricavi, per una squadra di calcio e poche riescono a sopravvivere se legate a contratti preesistenti. Infatti le leghe dei grandi sport americani sono "leghe chiuse", dove non è contemplata la retrocessione. Questo semplice fatto diminuisce di molto la penalità di fallire (nel senso sportivo) e quindi gli incentivi allo sperpero. In tutti i campionati professionistici dello sport USA si gioca per vincere: ai primi del torneo andranno i trofei, agli ultimi viene data la possibilità di negoziare i migliori nuovi atleti che vengono dai campionati universitari. Questo perché la competizione è tanto più bella e attrattiva per il pubblico quanto maggiore è l'equilibrio in campo. In Italia, assistiamo ormai al campionato di Juventus, Milan, Inter e Roma: dopo neanche metà stagione 10/12 squadre non hanno già più obiettivi e sono facili prede degli imbrogli. Perché la gente sana di mente dovrebbe andare allo stadio? Le legioni di folli continueranno invece ad andarci per le loro guerre permanenti contro tutto e tutti, libere di interrompere il gioco a loro piacimento (è già successo; si verificherà di nuovo). Il mistero (glorioso) che continua a stupirci è: l'allegra compagnia dei dirigenti delle squadre di calcio è improvvisamente impazzita, dimenticando l'equilibrio tra costi e ricavi tipico di ogni business e portando al tracollo l'intera industria calcio? Molti si chiedono cosa fare nell'immediato per salvare il calcio dalla crisi. La risposta logica di un economista è che le aziende gestite male in genere sono indirizzate al fallimento. Di conseguenza, la prima cosa che viene in mente è di mettere queste società in amministrazione controllata. Un esempio viene dall'Inghilterra. La procedura di amministrazione controllata per le squadre di calcio è la prassi normale (come del resto per le altre società). Tra il 1999 e il 2004 è stata applicata a ventidue club che hanno visto subentrare una nuova amministrazione per alcuni mesi con il compito di risanare il bilancio. Anche in Italia, le società di calcio, che sono società di capitali, dovrebbero essere soggette alle normali procedure del diritto societario. In questo senso, il lodo Petrucci sembra paradossalmente punitivo: i giocatori sono gli asset delle squadre e dovrebbero servire per pagare i creditori. Meglio l'amministrazione controllata volta a evitare il fallimento. Alcune società sono, di fatto, già in clima di risanamento. Altre misure per evitare che le società entrino in stato di sofferenza sarebbero ovviamente auspicabili: vincolo alla spesa per le società che presentano debiti verso l'erario e i giocatori (bisogna obbligare i Presidenti al risanamento forzato prima che la situazione possa degenerare); salary cap; suddivisione più equa dei ricavi all'interno dell'industria, in modo che anche le squadre più piccole partecipino a sostanziali fette degli introiti (l'esempio è la Premier League inglese). La logica è che le "grandi" hanno bisogno di… avversari: per "realizzare" lo spettacolo sportivo è necessario che un club abbia rivali, per non spegnerci in un eterno Juve-Milan. La "mutualità" potrebbe garantire un maggior equilibrio competitivo fra piccole e grandi squadre, rendendo il campionato più incerto e, quindi, più interessante. Per gestire tutto questo processo di "riforme" sarebbe necessaria una governance credibile e dei controlli seri. Si parla del calcio, ma è come parlare del momento attuale del nostro Paese. Non c'è da essere ottimisti.

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