IL FENOMENO DEL MOBBING
EFFETTI SUL RAPPORTO DI LAVORO
Le possibili tipologie e la connessa tutela giuridica
a cura dell’Area Relazioni Industriali Assindustria Salerno
di
Giuseppe Baselice
Area Relazioni Industriali
g.baselice@assindustria.sa.it
Oggetto del presente articolo è un fenomeno che, negli ultimi anni, ha destato notevole interesse nell'opinione pubblica, ossia il mobbing negli ambienti di lavoro, termine generalmente tradotto come molestia morale. Prendendo spunto dalla definizione fornita da uno dei più autorevoli studiosi della materia, lo svedese Heinz Leymann, il mobbing può essere inteso come una forma di "terrorismo psicologico" che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica - e non occasionale ed episodica - da una o più persone, prevalentemente nei confronti di un solo individuo, il quale, a causa del mobbing, viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie. Il fenomeno in discorso, nasce per lo più da un dislivello di potere a vantaggio del soggetto persecutore, il quale sfrutta la sua posizione per mostrarsi psicologicamente più forte rispetto al soggetto mobbizzato. Dal punto di vita giuridico il mobbing è stato preso in considerazione soltanto negli ultimi anni a seguito di due pronunce del Tribunale di Torino di fine 1999, ma non esiste ancora nel nostro ordinamento una legge specifica che regoli la materia. Il mobbing, nel lavoro privato, può assumere varie configurazioni e certamente non si può fornire una elencazione esaustiva delle situazioni perseguibili. Le forme più diffuse sono quello orizzontale e quello verticale o strategico: il primo, tra pari, si ha quando la violenza psicologica è messa in atto dal collega o da un gruppo di colleghi nei confronti del lavoratore vittima; il mobbing verticale, invece, si ha quando i comportamenti vessatori sono esercitati dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente sottomesso. Un'altra tipologia è quella esercitata dal basso che si verifica quando dai subalterni viene messa in discussione l'autorità di un superiore. A titolo meramente esemplificativo, le più evidenti forme di emarginazione che si possono attuare nei confronti di un lavoratore possono consistere in: trasferimenti presso altre sedi (il più delle volte disagiate o isolate), trasmissioni di informazioni volutamente sbagliate, privazione di mezzi di comunicazione o di lavoro, diniego alla collaborazione ed al contatto sociale, compromissione dell'immagine del lavoratore sul luogo di lavoro (screditamento in pubblico, diffusione di maldicenze, ridicolizzazione del soggetto), revoca o mancata concessione dei periodi richiesti di ferie o permessi; certamente, il peggiore tra i comportamenti mobbizzanti si estrinseca nelle molestie sessuali. Di fronte a questi veri e propri attacchi, ripetuti con frequenza, la vittima prova un senso di isolamento, si sente non valorizzata né utilizzata per le sue reali capacità, arrivando a percepire una estromissione, effettiva o virtuale, dal contesto lavorativo. È evidente come tale condizione di disagio diventi una potenziale fonte di turbamento per la salute, che quasi inevitabilmente dopo un intervallo di tempo variabile si altera, dando luogo a fenomeni di instabilità neuropsichica. Il fenomeno assume connotazioni negative anche dal punto di vista aziendale, in quanto la persistenza di tali disturbi psicofisici incide negativamente sulla produttività del lavoratore portandolo ad assentarsi sempre più spesso, provocando in esso una "sindrome da rientro al lavoro" sempre più accentuata, che, in alcuni casi potrebbe sfociare nelle dimissioni. Dal punto di vista sociale il mobbizzato è spesso caratterizzato da un senso di insicurezza, prova difficoltà a relazionarsi e, se appartenente ad una fascia di età più avanzata, incontra notevoli difficoltà nel trovare nuovi inserimenti lavorativi. Bisogna però fare attenzione a non inflazionare il concetto, facendo rientrare ogni forma dubbia di comportamento del datore di lavoro nella sfera del mobbing. In particolare, come già detto, ai fini della nostra analisi non è tanto importante enumerare il singolo comportamento vessatorio o discriminatorio, quanto verificare se da una determinata condotta derivi una lesione dell'integrità psicofisica del dipendente in violazione della normativa vigente. Affinché si realizzi la fattispecie perseguibile è necessario che vi siano comportamenti ripetuti nel tempo e volti allo scopo di danneggiare il lavoratore nella sua integrità fisica nonché nella sua personalità morale. In questa logica, i singoli ed isolati provvedimenti del datore di lavoro, che possono consistere in un mutamento in pejus delle mansioni o in un trasferimento illegittimo, che tra l'altro sono efficientemente attaccabili con i rimedi già previsti per le singole fattispecie, non paiono riconducibili al fenomeno del mobbing. A tal proposito appare illuminante il contributo fornito dal dottor Leymann, già citato, secondo cui le iniziative riconducibili al mobbing devono ricorrere con una determinata frequenza (statisticamente almeno una volta a settimana) e nell'arco di un lungo periodo di tempo (statisticamente per almeno sei mesi di durata). Chiaramente assume valenza costituiva della fattispecie in oggetto anche la presenza dell'elemento soggettivo, consistente nell'intento persecutorio dell'oppressore nei confronti della vittima. In effetti, le possibili forme in cui si può concretizzare il mobbing, singolarmente considerate, trovano già nel nostro ordinamento una disciplina che ne garantisce una adeguata tutela. Una delle norme fondamentali in materia è costituita dall'art. 2087 del Codice Civile, il quale ad integrazione delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, dispone che «l'Imprenditore è tenuto ad adottare, nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Da questa disposizione viene fatto derivare sia il divieto per il datore di lavoro di compiere direttamente qualsiasi comportamento lesivo dell'integrità fisica e della personalità morale del dipendente, sia di prevenire e scoraggiare la realizzazione di simili condotte nell'ambito e in connessione con lo svolgimento dell'attività lavorativa. L'inadempimento di tale obbligo genera responsabilità contrattuale del datore di lavoro. Altre disposizioni di tutela del lavoratore possono rinvenirsi nell'art. 2103 del c.c. che vieta le ipotesi di demansionamento e dequalificazione, nel D.Lgs. 626/1994 relativo alle misure generali per la protezione della salute e per la sicurezza dei lavoratori, nell'art. 15 dello Statuto dei Lavoratori che pone il divieto di discriminazioni politiche, sindacali, religiose, di lingua e di sesso sul luogo di lavoro, nell'art. 8 della stessa legge che vieta le indagini di opinione, nella misura in cui non giustificate da esigenze lavorative. Inoltre, sul datore di lavoro grava il generale obbligo di neminem ledere previsto dall'art 2043 del Codice Civile. Tale situazione dà vita ad un acceso dibattito, tra chi è convinto sull'opportunità per il legislatore italiano di regolamentare il mobbing con una serie di provvedimenti legislativi ad hoc e, chi, di contro, ritiene superflua una tutela giuridica puntuale del fenomeno, essendo i singoli comportamenti discriminatori e vessatori riconducibili al mobbing già singolarmente disciplinati dall'ordinamento giuridico. L'intenso dibattito nazionale ha stimolato le diverse forze politiche, le quali hanno optato per un intervento legislativo, presentando alle Camere diverse proposte e disegni di legge. |