L'antisportivo fenomeno del DOPING
di Lucia Coscia, Addetto stampa della PDO Salerno, stampa@pdosalerno.it
Dilaga e preoccupa sempre più l'uso di sostanze e metodiche proibite non solo nel mondo dello sport ad alti livelli
La legge e i regolamenti del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) definiscono doping l'impiego di sostanze e metodiche proibite in grado di influenzare e modificare la prestazione sportiva. É considerato doping anche l'impiego di sostanze e metodiche atte a mascherare l'eventuale assunzione di sostanze proibite.
Ma accanto alla definizione legale, da un punto di vista medico si può definire doping l'uso improprio di farmaci e medicamenti utilizzati per scopi diversi da quelli normalmente impiegati in terapia.
Quando si somministra un farmaco lo si fa coscientemente sapendo che gli effetti collaterali che questo possiede, sono inferiori alla necessità di curare una malattia.
Utilizzare farmaci su una persona sana vuol dire esporla ad effetti collaterali ingiustificati. Eticamente poi, il doping equivale ad un imbroglio: è come ritenere di essere più veloci di un corridore perché si guida una moto.
Da un punto di vista etimologico, il termine "doping" deriva da "dop"che nella lingua dei Cafri, una popolazione dell'Africa australe, indicava una specie di acquavite fortemente stimolante bevuta in occasione di feste religiose. Il temine venne diffuso in Europa dagli Inglesi e era usato in generale per indicare le bevande stimolanti.
Il doping esiste.
Ciascuno lo può vedere nella propria pratica sportiva, quale che ne sia il livello. Purtroppo è un fenomeno che coinvolge non più solo atleti professionisti, ma anche persone comuni che praticano di solito sport individuali dove si trovano a gareggiare contro se stessi e quindi contro i propri limiti fisici.
Le sostanze dopanti, infatti, circolano anche in realtà meno evidenti (palestre, circoli sportivi, etc.) dove vengono assunte, talvolta anche inconsapevolmente dietro la ''maschera'' di integratori fasulli, da persone che svolgono attività sportiva non professionistica o da
giovani cui sono richiesti standard elevati per un futuro nel mondo dello sport. Con il miraggio di vittorie solo possibili e il rischio sicuro di gravi danni per la salute.
Molti sono i motivi che possono spingere un'atleta ad assumere sostanze proibite e, talora, potenzialmente molto nocive: l'insoddisfacente rendimento atletico, la dipendenza psicologica, la necessità di placare ansia e stress, la diffusa convinzione che tutti i rivali facciano comunque uso di sostanze illecite, la pressione da parte di allenatori, fisioterapisti, colleghi, amici e media, l'ignoranza di effetti collaterali e complicanze.
Inoltre si può aggiungere anche l'esasperazione agonistica, frutto di interessi politici ed ingenti capitali che sempre più assiduamente ruotano attorno allo sport. Questi sono i segnali evidenti che lo sport è malato, e se è così il problema è della nostra società diventata sempre più farmacocentrista, tesa a trovare soluzioni nei farmaci anche per i problemi che nulla hanno a che fare con la medicina.
Ma, in campo sportivo, la "farmacomania" acquista un significato particolare: appellandosi a essa, l'atleta infrange una legge fondamentale dello sport: la lealtà.
L'atleta però è un individuo sano per antonomasia e, in quest'ottica, la medicina intesa come pratica in grado di alterare le risposte fisiopatologiche dell'individuo, non si deve occupare di favorire la prestazione in altro modo che ottimizzando nutrizione e metodiche di allenamento.
Negare il doping equivale a garantirlo o ad ammettere implicitamente che sia irreversibile.
Bisogna al contrario combatterlo al fine di preservare i valori educativi dello sport e conservarne il suo significato. In questa lotta, se la componente repressiva è necessaria e legittima, essa é insufficiente e non si deve nascondere il ruolo primario della prevenzione. |