Interdittive ANTIMAFIA "atipiche", hanno ancora senso?
Contraddizioni e storture di un istituto giuridico "paradossale"
Luigi D'Angiolella
Avvocato studiodangiolella@tin.it
Come è noto, negli ultimi anni ha assunto una rilevanza decisiva, specialmente nel settore degli
appalti, l'istituto della cosiddetta certificazione antimafia emessa dai Prefetti della Repubblica, presupposto necessario che le Amministrazioni richiedono prima di aggiudicare appalti e di erogare somme, al fine di verificare il grado di permeabilità delle imprese ai fenomeni criminali, secondo la disciplina prevista dai D.P.R. 490/94 e 252/98. Tale istituto, specialmente nelle regioni meridionali, ha avuto una grande importanza, anche sul piano strettamente economico e di organizzazione, perché non è raro attendere anni per avviare un'opera pubblica e vederla bloccata per un'interdittiva prefettizia "tipica", cioè quando è assodato il tentativo di infiltrazione. Certamente si è posto un argine molto forte alle attività delle imprese criminali.
É anche successo, però, che in talune occasioni soltanto qualche parentela scomoda, ad esempio, abbia portato alcune imprese sane a subire l'onta di un'interdittiva antimafia, senza che in realtà potessero definirsi affiliate o influenzabili da ambienti mafiosi. La giurisprudenza, specialmente del T.A.R. Campania, confermata ampiamente dal Consiglio di Stato, ha, col tempo, introdotto delle limitazioni alle indagini prefettizie "tipizzate", dichiarando, per esempio, che la semplice parentela, di per sè considerata, non può essere ragione di sicura infiltrazione di interessi, così come le notizie debbono essere attuali.
Una riflessione a parte meritano le cosiddette informative atipiche, che trovano il loro fondamento normativo nell'art. 1 septies del D.Lgs. 629/82, e cioè quei provvedimenti prefettizi per i quali non si rinvengono i presupposti per interdire un'azienda – perché non vi sono elementi sufficienti o attuali ma il Prefetto invia comunque i risultati dell'indagine all'Amministrazione che richiede la certificazione perché decida essa quali provvedimenti assumere. Gli effetti sono paradossali.
Da un lato, il Prefetto afferma che non vi sono i presupposti per interdire un'azienda, ma allo stesso tempo "se ne lava le mani" chiedendo comunque all'Amministrazione di pronunciarsi sulla rilevanza degli elementi riscontrati. Il risultato è che una decisione così importante finisce sul povero funzionario dell'ente, il quale per convinzione o per paura, assume gravi decisioni senza alcuna possibilità ma anche in assenza di un dovere precipuo di disporre ulteriori accertamenti.
La vicenda, come detto, ha un che di paradossale, perché solo alla Prefettura, e cioè all'Ente governativo che sovrintende all'ordine pubblico, spetta di intervenire su contratti o rapporti civilistici in nome del supremo interesse, e non certo alla stazione appaltante. Si crede che sia giunto il momento di svolgere una riflessione su tali tipi di provvedimenti. La prossima riforma del settore (legge delega 136/2010) dovrebbe, a mio parere, espungere tale istituto dal sistema.
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