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  Dicembre 2012

Articoli n° 02
MARZO 2009
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Servizio idrico in Campania: tariffe basse,
dispersione alta


E da Gragnano il canone di depurazione diventa caso nazionale

di Mariano Votta, giornalista e project manager Cittadinanzattiva


L’acqua? Anche quella dolce può essere molto salata, se è vero che il consumo annuo di una famiglia può arrivare a costare più di 300 euro (come in diverse città della Toscana) o perfino oltre i 400 euro, come ad Agrigento. Fortunatamente, questo ancora non lo si può dire per i campani, per via di un costo del servizio idrico integrato inferiore alla media nazionale, benché caratterizzato da una marcata disparità all’interno della regione: la città in cui l’acqua costa di più (262 euro annui) è Avellino, mentre Benevento è quella in cui costa meno, 119 euro, dato superiore - a livello nazionale - solo a quanto fatto registrare a Isernia e Milano.
I dati sul costo dell’acqua sono stati elaborati dall’Osservatorio Prezzi & Tariffe di Cittadinanzattiva, che ha preso in esame - per tutti i capoluoghi di provincia italiani - il servizio idrico integrato (acquedotto, canone di fognatura, canone di depurazione, e quota fissa o ex nolo contatori). Il riferimento è dato dal costo annuo sopportato da una famiglia di tre persone che consuma all’anno 192 metri cubi di acqua, come calcolato dal Comitato di vigilanza sull’uso delle risorse idriche. In media una famiglia tipo campana spende annualmente per l’acqua 190 euro, contro i 229 euro spesi a livello nazionale. Se a livello di tariffe, la Campania si colloca al di sotto della media nazionale, la situazione è sostanzialmente opposto se si considera la dispersione idrica: secondo dati Legambiente, con il 44% delle perdite nella rete idrica, la Campania registra uno dei dati peggiori, a fronte di una media nazionale di acqua immessa nelle tubature e persa pari al 35%. Analizzando la composizione della spesa per il consumo domestico di acqua, si nota come in Campania il canone di depurazione incida per il 25% del costo totale, inferiore solo al costo del servizio di acquedotto (60%), e nettamente più rilevante rispetto alle restanti due voci, fognatura (10%) e quota fissa (5%).

Recentemente, i costi relativi al canone di depurazione sono balzati agli onori delle cronache per via della sentenza n. 335/2008 della Corte Costituzionale che ha stabilito l’incostituzionalità, perché irragionevole, della legge dello Stato n. 36 del 5 gennaio 1994 (meglio conosciuta come legge “Galli”) e le successive modifiche nella parte in cui stabilisce che la tariffa per la depurazione delle acque reflue deve essere pagata dai cittadini anche laddove il depuratore pubblico non esiste oppure non funziona. Una norma che, di fatto, in diverse zone del Paese ha imposto da tempo ai cittadini di pagare un corrispettivo per un servizio che in realtà non veniva loro erogato. E si tratta di somme ingenti, sia perché la legge presuppone che un cittadino scarichi (e depuri) tanti metri cubi reflui quanti sono i metri cubi d’acqua che consuma, sia perché sono anni che questa voce di costo incide sulle bollette dell’acqua di utenti che mai hanno goduto di un servizio di depurazione.
L’antefatto, si ricorderà, prende il via allorché un cittadino di Gragnano, nel 2003 privo di depuratore, decide di rivolgersi al giudice di pace per farsi restituire la quota di tariffa per il servizio di depurazione pagato ma non erogato. Il giudice di pace solleva la questione dinanzi alla Corte Costituzionale che, come da citata sentenza depositata lo scorso 10 ottobre, ha dichiarato incostituzionale la legge sulla base del principio che la tariffa in questione ha natura di corrispettivo per un servizio effettivamente reso, e non è un tributo in senso proprio che deve essere pagato dai cittadini a prescindere dalla resa di specifiche prestazioni. Da qui, le richieste di rimborso delle Associazioni a tutela dei diritti dei consumatori (anche su www.cittadinanzattiva.it è possibile reperire i relativi moduli), le prime stime (secondo Il Sole 24 Ore il “buco” sarebbe di 350 milioni di euro) e i tentativi parlamentari di sanare per legge inefficienze gestionali. Nel mentre, la dottrina si è interrogata su quale debba essere l’interpretazione corretta dell’espressione di impianto non funzionante citata dalla Consulta. È da intendersi non funzionante un impianto costruito ma non messo in funzione, quello temporaneamente disattivato o anche quello malfunzionante? Ad oggi, si confrontano due opposte letture sul diritto degli utenti a contestare il cattivo funzionamento del servizio di depurazione. Coloro che sostanzialmente prendono le difese dei cittadini, affermano che il canone è corrispettivo del servizio e, pertanto, non è dovuto quando il servizio, per qualsiasi ragioni, manchi. Di tutt’altro avviso coloro che difendono gli interessi delle aziende del settore, i quali ripetono che per escludere il pagamento del canone di depurazione sia necessario che manchi l’impianto di depurazione o che esso sia inattivo. La soluzione, verosimilmente in linea con i desiderata delle aziende del settore, sarà contenuta nel Dl Ambiente attualmente in discussione al Parlamento nel quale, purtroppo, non sembra trovare posto l’istituzione di un’Autorità di regolazione del settore idrico, da più parti invocata purché dotata di reali poteri d’intervento per mettere fine alla scandalosa giungla di tariffe che penalizza almeno tre diritti fondamentali dei consumatori: quello all’accessibilità del servizio, alla sua continuità e alla comprensibilità dei contratti e delle bollette.

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