ORDINI E ALBI PROFESSIONALI
ATTESA UNA RIFORMA
La mancanza di concorrenzialità si riflette sui costi di
imprese e consumatori
a cura dell’Area Legislativa
Assindustria Salerno
di
Oreste Pastore
Area Legislativa Assindustria Salerno
o.pastore@assindustria.sa.it
Il
Presidente Luca Cordero di Montezemolo ha dedicato recentemente un passaggio
significativo della sua relazione di investitura al tema delle liberalizzazioni
e del mercato, con uno specifico riferimento al settore dei servizi professionali: «Molti
osservatori che, nell'ultimo periodo, hanno cercato di dare una spiegazione della
difficoltà dell'economia italiana, concordano nel dire che è la
mancanza di concorrenza quella che genera il maggiore disagio. …La protezione
delle professioni e la pretesa di mantenere un rapporto di tipo personale e fiduciario
ha solo aperto il mercato italiano alle grandi imprese internazionali di studi
giuridici, di ingegneria, di consulenza». Numerosi sono stati gli interventi
di Confindustria che, in questi anni, hanno portato l'attenzione alle distorsioni
e ai costi indotti nel nostro Paese dalla conservazione delle prerogative degli
Ordini e degli Albi Professionali. Gli stessi Giovani Imprenditori, nell'indicare
a Capri 2003 la strada delle riforme "a costo zero", cioè non
traumatiche (diverse da quella, sanguinosa, dell'art.18, ad esempio), nella relazione
della Presidente Artoni così si sono espressi: «La scelta decisiva
in un sistema economico non è più tra pubblico e privato, ma tra
mercati chiusi e aperti. Riprendiamo la strada delle "riforme a costo zero":
le liberalizzazioni. … Secondo l'OCSE in Italia prevalgono "norme
più attente alle esigenze degli ordini professionali che ai reali bisogni
dei consumatori". La normativa nel settore delle libere professioni sembra
quella di un'altra Italia: forti limitazioni all'accesso, che colpiscono i giovani,
tariffe definite in modo rigido, divieti di pubblicità. Una riforma degli
ordini, attesa da decenni, renderebbe più efficiente e stimolerebbe l'aumento
di qualità di gran parte dei servizi alle imprese e ai cittadini».
I cosiddetti Settori Professionali Regolamentati in Italia sono una trentina;
per esercitare le relative professioni é obbligatorio iscriversi agli
Ordini preposti, pagando significativi contributi. Le norme imposte dagli Ordini
confliggono sostanzialmente con lo spirito e la norma del mercato per tre evidenti
motivi: limitano l'accesso alle libere professioni, fissano tariffe e vietano
la pubblicità. Si pone, quindi, ancora una volta con forza il tema della
riforma (dell'abolizione?) degli Ordini e degli Albi Professionali. Bisogna riconoscere
che questo fronte ha visto impegnati sul piano politico negli anni i soli radicali,
in una di quelle battaglie per le quali solitamente vengono poi riconosciuti
al movimento di Pannella e Bonino meriti solo a posteriori. L'attuale Governo,
ad esempio, che pure si richiama fortemente a principi liberali e liberisti,
anche in questo campo è invece sostanzialmente acquiescente rispetto ad
una struttura oggettivamente protezionista. Né dall'opposto schieramento
provengono voci più determinate nel reclamare la fine di un tale "regime".
Ma forse basta guardare alla composizione professionale del nostro Parlamento
per capire il perché di tanti ritardi. I mestieri in Italia sono purtroppo
ancora dei feudi, che si passano di padre in figlio, caste che precludono l'accesso,
per quanto possibile, ai privilegi acquisiti. Il sistema così concepito
penalizza evidentemente e fortemente i giovani neolaureati, costretti a superare
esami di Stato controllati dagli ordini professionali, che hanno tutto l'interesse
a frenare l'ingresso a nuovi competitori nel mercato del lavoro. É facile
prevedere che la pretesa degli ordini di mantenere tale sistema protezionista
verrà smantellato quando tutti i professionisti, ovunque residenti nella
comunità europea, potranno svolgere anche in Italia la propria attività.
Taluni affermano che il permanere degli Ordini è giustificato dalla necessità di
conservare un sistema di regole, contro il pericolo degli eccessi del mercato.
Sul punto è opportuno considerare che non è necessario che siano
gli operatori stessi a darsi le proprie norme: ma è sufficiente l'intervento
dello Stato, che per definizione dovrebbe armonizzare la galassia degli interessi
privati in funzione dell'interesse pubblico. A maggior ragione, le capacità professionali
andrebbero valutate dallo Stato e non dagli Ordini. Anche un grande liberale
come Luigi Einaudi affermava che «il mercato sono innanzitutto i Carabinieri
che ne fanno rispettare le regole». Quindi, argomenti quali "gli ordini
e le associazioni professionali tutelano gli utenti" fanno solamente sorridere,
ed evocano l'immagine di Gatto Silvestro che protegge Titti dai pericoli: ci
si dovrebbe per esempio spiegare in che modo il numero chiuso (dei notai, dei
farmacisti, dei tassisti e così via) dovrebbe essere strumentale all'offerta
di servizi migliori ai cittadini. Certo è invece che il bisogno di ordini
professionali è tanto più avvertito quanto più sono lucrative
le professioni coinvolte e non certo quando scatta l'esigenza del consumatore
(come viene sostenuto). L'esempio più recente è quello di alcune
professioni "emergenti", come quella di ottico, che fino ad oggi può essere
esercitata da un diplomato che abbia frequentato un corso biennale di abilitazione,
ma da domani, per una legge proposta dalla lobby di riferimento, potrebbe dover
essere esercitata esclusivamente da un laureato (ovviamente con corso di laurea
a numero chiuso). Da utente, non mi sembra di aver mai sentito l'esigenza dell'ottico
laureato, quanto dell'ottico preparato. In definitiva, una società aperta
al mercato e alla concorrenza, tesa alla tutela degli utenti e dei consumatori
ed alla loro libertà di scelta non può convivere con l'organizzazione
chiusa e corporativa delle professioni. L'UE, del resto, ha più volte
stigmatizzato l'esistenza degli Ordini: il Commissario europeo Mario Monti, in
un recente rapporto sui servizi liberoprofessionali è arrivato a queste
conclusioni: nei Paesi europei nei quali le libere professioni sono iper-regolamentate
e iper-protette i costi sono molto più alti e la qualità del servizio è peggiore.
L'Italia, manco a dirlo, guida la classifica. «Il settore dei servizi in
Europa - si legge nel documento Monti, che ha il pieno sostegno del commissario
UE al mercato interno, Frits Bolkestein- è il principale motore di crescita
nella UE e rappresenta il 67% degli occupati. Le professioni liberali giocano
un ruolo importante in questo settore, ma le restrizioni ancora in vigore frenano
la produttività e la crescita. I servizi professionali rappresentano il
10% dell'impiego di lavoratori altamente qualificati, con un giro d'affari di
980 miliardi di euro e 500 miliardi di valore aggiunto nella UE a 15».
Anche la crescita è da record: i servizi professionali crescono a ritmo
del 5%, mentre l'economia e l'occupazione crescono a ritmi nettamente inferiori.
In Italia parliamo di un settore che fra avvocati, notai, farmacisti, commercialisti,
ingegneri, architetti e via dicendo, si può stimare sia pari a circa 4,9
milioni di persone, di cui 1.692.287 iscritti agli Ordini e 3.252.166 operatori
non regolamentati; un giro d' affari di mille miliardi di euro all'anno e che
incide sui costi di produzione per il 6% circa: poco meno delle materie prime
e del lavoro, e comunque quanto basta per meritare una certa attenzione quando
si cerchi di arginare l'inflazione. La stessa Autorità Garante della concorrenza
e del mercato ha di recente preso posizioni più nette che nel passato.
L'auspicio è che si abbia il coraggio di completare in sede Parlamentare
una delle riforme più necessarie a questo nostro Paese, troppo abituato
a ragionare su categorie date per scontate e, invece, estremamente bisognoso
di crescere, soprattutto nella cultura del mercato e della concorrenza, per garantire
a tutti opportunità e possibilità. Bruxelles, intanto, ci ha inviato
l'ultimatum. Riforma subito o scatterà una direttiva vincolante entro
il 2005.
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