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  Dicembre 2012

Articoli n° 10
DICEMBRE 2012
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TUTELA DEL PAESAGGIO: «Solo un'economia di distretto puÒ salvarlo»


di Raffaella Venerando


ALESSIO D ' AURIA È ARCHITETTO E DOTTORE DI RICERCA IN " METODI DI VALUTAZILATAZIONE INTEGRATA DEL PATRIMONIO ARCHITETTONICO , URBANO E AMBIENTALE" . È DOCENTE DI " TUTELA GIURIDICA DEL PAESAGGIO " E DI " ECONOMIA DEI BENI CULTURALI " PRESSO L 'UNIVERSITÀ " SUORORSOLA BENINCASA " E DI " ESTIMO" PRESSO L'UNIVERSITÀ DI NAPOLI


Professore, molti importanti siti archeologici campani vivono in uno stato di completo e scandaloso abbandono. Nel tentativo di rimediare a questo pernicioso fenomeno e salvare le ricchezze di Paestum, Legambiente ha ideato un progetto – Paestumanità – che mediante un'operazione di azionariato popolare si propone di acquistare i terreni compresi entro le mura della città iscritta nella lista Unesco, per curarli e riconsegnarli al Patrimonio storico dell'Umanità. Cosa ne pensa di questa iniziativa? La ritiene utile a contrastare l'abbandono?

La proposta di Legambiente è molto interessante, soprattutto perché potenzialmente in grado di mobilitare la comunità locale e di attivare meccanismi di partecipazione consapevole alla tutela del patrimonio, ma non credo possa essere realmente efficace. L'a cqu i s i z ione totale delle aree, a valore di mercato, sarebbe particolarmente onerosa e non è chiaro a chi ne sarebbe affidata la gestione in seguito: magari sarebbe opportuno prevedere sin d'ora un consorzio o un'impresa cooperativa, anche con l'apporto di privati e associazioni. Poi, penso che ci siano anche altre opzioni possibili. Ad esempio, l'attivazione di un criterio di perequazione ambientale consentirebbe l'acquisizione a titolo pressoché gratuito delle aree, a fronte della concessione di un "diritto di sviluppo" consistente in una trasformazione edilizia, in altre zone, ritenute idonee ad accogliere carichi edilizi, eventualmente anche in ambito intercomunale. Un criterio simile è stato utilizzato per l'acquisizione da parte dell'amministrazione di aree di elevato valore paesaggistico e archeologico, nel Parco Regionale dell'Appia Antica, in cui è stato sottoscritto un accordo di programma per la delocalizzazione delle attività (agricole ma non solo) incompatibili all'interno del parco, in aree di atterraggio oggetto di specifiche compensazione con i proprietari.

Ma è così difficile puntare a valorizzare le risorse nel nostro Paese?
Da cosa crede dipenda questa difficoltà?

Il dibattito sulla valorizzazione dei beni culturali in Italia, e nel Sud in particolare, è una delle discussioni più stereotipate e stucchevoli che il Paese ricordi. Certamente, se guardiamo il Mezzogiorno d'Italia e la Campania in particolare, attraverso la lente del capitale territoriale - ovvero quel sistema di risorse locali che rappresentano una vera e propria dotazione genetica e patrimoniale dei luoghi - non possiamo che essere concordi sul fatto che questo sistema possa essere in grado di generare economia, per la sua intrinseca capacità di influenzare direttamente prezzi, rendite e livelli di redditività degli investimenti. L'affermazione dell'importanza di politiche di valorizzazione delle risorse culturali e paesaggistiche è ormai un principio acquisito e ampiamente condiviso, come affermata è l'opinione secondo la quale per la Campania, così come per tutto il Sud, modelli di sviluppo basati sulla capacità attrattiva delle risorse culturali e paesaggistiche non solo siano potenzialmente vincenti sul mercato globale, ma risultino anche decisamente coerenti con le vocazioni territoriali locali. Tuttavia, la dotazione di risorse del territorio, per quanto ricche e pregevoli, non costituisce naturaliter un elemento di attrattività turistica: è necessario proporre un modello di sviluppo che attivi non solo il "patrimonio statico", ma anche e soprattutto il "patrimonio dinamico" – come lo definisce Alberto Gambescia - cioè quel capitale umano e imprenditoriale diffuso e atomizzato che caratterizza fortemente il nostro territorio e che necessita di essere attivato e coordinato. Un modello di sviluppo siffatto postula necessariamente un'economia di distretto, non ridotta semplicemente al settore dei beni culturali, ma imperniata attorno ad un processo produttivo che integri l'attività di valorizzazione turistica con gli altri settori produttivi (artigianato, enogastronomia, trasporti, ICT) che a quel processo sono connessi. È evidente che un distretto culturale non può nascere spontaneamente ma deve prendere vita da un disegno progettuale inserito in un ambito di pianificazione e gestione strategica del territorio, che dipende innanzitutto dalla volontà (e capacità) politica.

Esiste qualche buon modello "lontano" – geograficamente e storicamente parlando – che potrebbe essere oggi e qui replicato?

In realtà non c'è bisogno di andare particolarmente lontano: voglio portarle l'esperienza di valorizzazione delle risorse ambientali e culturali della Val di Cornia, che rappresenta senza dubbio una best practice. Nel 1993, con la partecipazione di tutti i comuni del circondario e di imprese private è stata costituita la società "Parchi Val di Cornia" SpA cui è stato affidato il compito statutario di realizzare e gestire le strutture e i servizi necessari per promuovere la tutela e la valorizzazione del territorio. L'esperienza ha costituito uno dei primi e pochi casi in Italia in cui è stata perseguita una strategia fondata sulla valorizzazione integrata delle risorse che ha preso in considerazione un sistema complesso di beni (parchi archeologici, parchi naturalistici, musei, centri storici, ecc.), realizzando processi cooperativi fra enti locali e privati, fra l'altro utilizzando uno strumento atipico quale la SpA.

Si fa un gran parlare - specialmente in periodi elettorali come questo - di progettazione partecipata degli spazi aperti e del verde: ma quanto ne puòbeneficiare realmente la città e per quali ragioni?

Sono convinto, innanzitutto come cittadino, che il tema della partecipazione e della cosiddetta "democrazia deliberativa" sia di fondamentale importanza nella pianificazione della città ma anche del paesaggio e dell'ambiente. D'altra parte questo principio è stato sancito dalla Convenzione Europea del Paesaggio del 2000 che rivaluta il paesaggio come tema pienamente politico per l'attenzione che pone all'appartenenza dei cittadini ai propri luoghi di vita, tanto da non poterne subire i mutamenti senza parteciparvi. Non a caso, la formulazione degli obiettivi di qualità paesaggistica, che rappresenta una delle fasi più importanti del processo decisionale pubblico riguardante il paesaggio, dipende, in larga parte, dai valori e dalle aspirazioni espresse dalle popolazioni per quanto riguarda le caratteristiche paesaggistiche del loro ambiente di vita. Ritengo tuttavia che il principio della partecipazione sia alquanto delicato e vada maneggiato con cura, per evitare che diventi semplicemente un "rituale". Bisogna essere altresì consapevoli del fatto che la partecipazione può aiutare ad evitare disastri più che risolvere effettivamente i problemi. Il processo partecipativo per essere realmente efficace deve essere orientato all'interazione, più che agli esiti: quando funziona è un momento di allargamento della democrazia e di formazione di una comunità, e in ciò trova la sua importanza, più che nelle soluzioni che contribuisce a delineare, che spesso riflettono un immaginario inerte all'innovazione.

A proposito di paesaggio: qual è la sua opinione sul DDL regionale?
Luci e ombre. Innanzitutto, l'articolato del DDL è scarno e per certi aspetti eccessivamente vago: ci sono alcune idee che, pur partendo da un approccio positivo e innovativo, rischiano di essere applicate in maniera distorta. Mi riferisco in particolare agli strumenti previsti dall'art.7: il cosiddetto "ecoconto", ad esempio, avrebbe senso se considerato come una sorta di credito ecologico utilizzato per una compensazione ambientale (necessariamente preventiva) atta a mitigare l'eventuale sottrazione di valori ambientali e paesaggistici connessi alla trasformazione del territorio. Tale strumento dovrebbe porre a carico del trasformatore l'obbligo di controbilanciare tali impatti, cedendo alla collettività in altri lotti, in aree preventivamente individuate e non soggette ad ulteriori trasformazioni in futuro, un credito ecologico, consistente, ad esempio, in interventi di riqualificazione di aree degradate o infrastrutturazione verde del territorio o ingegneria naturalistica. Nello schema originario del DDL, l'ecoconto assurge a strumento ordinario (e, pare di intuire, di solo indennizzo monetario) di bilanciamento di tali impatti, utilizzabile indiscriminatamente su tutto il territorio. Andrebbe ininvece preventivamente fatta un'analisi della trasformabilità dei suoli. Inoltre, anche il tema fondamentale della perequazione è lasciato ancora con eccessiva vaghezza e meriterebbe una più approfondita regolamentazione. Non dimentichiamo che lo ius aedificandi non è un diritto naturale della proprietà, né l'edificazione una sorta di destino ineluttabile di qualsiasi area.



Un'ultima curiosità: per azzerare il divario economico tra Nord e Sud del Paese la Svimez stima occorreranno 400 anni…per recuperare invece il nostro ritardo sulla bellezza, specie quella paesaggistica, secondo lei quanto tempo sarà indispensabile?

Ma la bellezza paesaggistica del Sud e della Campania non ha molto da invidiare a quella del Nord: basti pensare che sui 6 siti italiani inseriti nella lista Unesco classificati come "paesaggio culturale", 2 si trovano in Campania (il Parco del Cilento e la Costiera Amalfitana). Il deficit, piuttosto, risiede nella mancata connessione, anche all'interno degli strumenti di governo del territorio, tra le tesi che postulano il paesaggio come un valore "statutario" dei luoghi (ribadito, ad esempio, dalla legge di approvazione del PTR), e le tesi volte invece a coglierne lo spessore problematico come elemento capace di determinare nuovo valore aggiunto al territorio stesso. La provincia di Siena, nell'approvare il suo PTCP del 2000, ha riconosciuto il suo paesaggio, oltre che come valore in sé, anche come risorsa distintiva e fattore di produzione delle attività agricole, che godono di un surplus mercantile assicurato dal marchio di qualità "implicito" fornito dall'immaginario collettivo che identifica -in buona parte a ragione- la provincia senese come terra del buon vivere, del ben essere e del ben produrre. In termini metaforici, il paesaggio è l'elemento con cui la provincia di Siena ha accesso alle reti globali, e quindi l'Amministrazione provinciale, governando il paesaggio (attraverso il PTCP) governa i rapporti di Siena col globale. In una qualunque provincia cinese, per proseguire la nostra metafora, dove per ipotesi l'accesso alle reti globali è dato dalla produzione di smartphones, l'amministrazione provinciale non gestisce questa produzione e quindi non ha capacità di governare i rapporti col globale. Mi pare che il portato di questa presa di coscienza, che implicherebbe una tutela attiva e partecipata delle risorse paesaggistiche, latiti ancora nelle coscienze dei nostri governanti. Mi viene in mente il reportage che Pasolini realizzò nel 1959 per la rivista Successo intitolato "La lunga strada di sabbia" in cui descrisse il suo periplo lungo le coste italiane, da Ventimiglia a Trieste. Quando il suo sguardo poetico si posò sulla Costiera Amalfitana, «la più bella costa del mondo», rilevò che «qui la bellezza produce direttamente ricchezza. La gente vive in una specie di agio tranquillo, lasciando che la bellezza lavori per lei». Ecco, noi dobbiamo ancora capire che la bellezza, da sola, non basta.

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