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  Dicembre 2012

Articoli n° 05
GIUGNO 2010
 
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È ancora CRISI, ma È tempo di contare i danni”

L'INTERVISTA - Bianchi: «Necessari i fondi per il riequilibrio territoriale nel nostro Paese»


L'INTERVISTA - Meldolesi: «La Campania ha bisogno di un’alleanza tra le sue forze sane»


L'INTERVISTA -Lanza: «Occorre una svolta strumentale nella condotta delle Regioni meridionali»

È ancora CRISI,
ma È tempo di contare i danni


Pesanti gli effetti sociali della recessione nel nostro Paese. A “pagare” sono soprattutto i lavoratori. Si allarga, inoltre, la forbice Nord-Sud

di Raffaella Venerando
Indici negativi per l’economia italiana anche a inizio 2010. A confermarlo il Rapporto Istat che dedica alla «crisi più profonda della storia economica recente» - così la definisce - pagine e pagine di dati ancora a tinte fosche.
Il nostro Paese ha registrato, infatti, nel biennio 2008-2009, la flessione del Prodotto interno lordo più accentuata, pari al 6,3%, contro quasi la metà - 3,8% - della Germania, il 3,5 della media Ume e l'1,7% della Francia. Ancora, nel decennio che va dal 2001 al 2009, l'Italia è, in assoluto, il paese dell'Unione europea la cui economia si è sviluppata meno: appena l'1,4%, un “niente” se paragonato al 10% dell'Uem e al 12,1% dell'Ue.
Anche se timidi e pallidi, però, piccoli segnali di miglioramento cominciano a manifestarsi: dopo il deciso calo registrato fra la fine del 2008 e la fine del 2009, torna ad essere misurabile il segno "più" che, nel primo trimestre del 2010, ha fatto registrare un'espansione di buon auspicio pari allo 0,5%.
La ripresa, negli ultimi dodici mesi tante volte solo annunciata, comincia infatti oggi pian piano a delinearsi: i dati Istat di inizio 2010 confermano infatti che Export - voce che negli ultimi due anni ha subito cali addirittura del 20% per effetto della globalità della crisi - Industria - che sempre nell’ultimo biennio ha visto crolli del manifatturiero fino al 30% - e Pil dovrebbero presto tornare a crescere.
Ma i dati - che per loro natura non hanno né colore politico, né partigianeria - ridiventano a dir poco impietosi quando a calcolarsi sono gli effetti sociali della crisi. Effetti dolorosi con cui sono costretti a misurarsi soprattutto i lavoratori e con questi i giovani, le donne, le famiglie e i lavoratori stranieri che - c’era da aspettarselo - fatte le debite proporzioni pagano lo scotto più alto della crisi, più dei nostri stessi connazionali.
Se la recessione è - si spera - davvero agli ultimi sgoccioli, la crisi del mercato del lavoro - dicevamo - prosegue senza sosta. Il conto della crisi è salato soprattutto per i lavoratori: il mercato è ancora in rosso, e il tasso di disoccupazione è ormai salito alle stelle. Secondo gli ultimi dati elaborati dall'Istat, in un anno gli occupati sono calati di 367mila unità. Il numero complessivo di persone con un posto di lavoro è sceso a 22 milioni e 753mila unità, in calo dello 0,2% rispetto a febbraio e inferiore dell'1,6% rispetto a marzo 2009. Il tasso di occupazione è pari al 56,7%. Ma c’è di più. In questa cornice di conti che non tornano e non rosee prospettive, l’Italia si svela ancora una volta divisa e spaccata. Lungo lo Stivale il Nord vive una vita ed un’economia “altra” rispetto al Mezzogiorno. Paragonate tra loro le due realtà del nostro Paese - separate alla nascita - sono di nuovo lontane, con una distanza ad allontanarle tra loro fatta non solo di chilometri, ma di gap produttivi e civili.
Lo aveva già dimostrato in modo chiaro, qualche mese fa, il Check up Mezzogiorno - curato da Confindustria in collaborazione con l’Istituto per la Promozione Industriale (IPI) - da cui emergeva in modo nitido un Sud nuovamente a rischio affondo. Gli effetti della crisi se al Nord e nel resto del Paese sono stati e sono tuttora significativi, nelle regioni meridionali assumono contorni drammatici: da una riduzione del Pil più elevata rispetto alla media nazionale (quasi mezzo punto nel biennio 2008-2009), fino ad un crollo dell’occupazione (194mila occupati in meno al Sud nel 2009); da un gap di produttività pari al 16% rispetto al Centro Nord, al forte calo delle esportazioni (tornate al livello del 2001). I dati non mentono, e cifre alla mano, è come se il nostro Paese avesse fatto un balzo indietro di dieci anni. Dieci anni in cui a fatica si era cercato di colmare, o quanto meno ridurre, il divario tra le due parti del Paese. Tutto da rifare.
Il Sud riesce ormai ad arginare appena tale divario in termini di Pil pro capite (pari a poco meno di 42 punti percentuali) solo grazie ad un abbassamento della natalità e alla ripresa dell’emigrazione, fenomeno che “impoverisce” il Mezzogiorno, soprattutto di giovani a elevata scolarizzazione, fenomeno che ci fa dire a gran voce che il Mezzogiorno va sempre più invecchiandosi. Gli indicatori di disagio economico dicono chiaramente che la povertà è più diffusa in tutte le regioni meridionali, raggiungendo i valori massimi in Sicilia e Basilicata (28,8% delle famiglie), rispetto a un dato medio del Centro Nord quasi 6 volte inferiore (5,4%). A ciò si aggiunge, inoltre, il deterioramento del contesto civile, effetto di politiche pubbliche inefficaci, di una spesa pubblica inefficiente, poco lungimirante e dispersiva, cui vanno ad aggiungersi una minore efficienza dei servizi pubblici, la carenza di infrastrutture materiali, la scarsa diffusione della tecnologia, l’eccesso di burocrazia per le imprese, i tempi lunghissimi e scoraggianti della giustizia civile e, di rimando, la scarsa tutela della legalità.
Tutto questo nei fatti si trasforma in un impoverimento sempre più preoccupante delle regioni meridionali, le cui capacità attrattive in termini di investimenti vanno via via assottigliandosi, fino a diventare labili. Ma è tutto dipinto di scuro il quadro socio-economico relativo al Mezzogiorno? Per fortuna qualche piccolo bagliore c’è: stando sempre ai dati diffusi dal Comitato Mezzogiorno di Confindustria, quasi un quinto delle aziende meridionali ha risposto alla crisi diversificando i mercati, migliorando i prodotti e dando vita, nella metà dei casi presi in considerazione, ad innovazioni nelle strategie aziendali. Il capitale umano, poi, continua ad attestarsi su buoni livelli di formazione: il numero degli studenti del Sud che si laurea ogni anno è più che raddoppiato, passando in soli 7 anni da 54mila a oltre 118mila. Positivi anche il raddoppio dei laureati in discipline scientifiche e l’importanza assunta in alcune regioni meridionali - per una volta la Campania guida un gruppo di migliori - della spesa in R&S rispetto al Pil, che quasi raggiunge i livelli del Centro Nord. È tornato prepotente però un fenomeno che credevamo il tempo e le politiche per lo sviluppo avessero ridotto di intensità: il sommerso. Il lavoro nero nel Mezzogiorno è nero per davvero, quasi il doppio rispetto al Nord Italia: al Sud il tasso degli irregolari sul totale dei lavoratori supera infatti il 18%, contro una media del 9% nelle regioni settentrionali, con donne e immigrati in testa.
Come a dire che, anche quando sono positivi, i numeri del Sud consentono un ottimismo appena evanescente se messi a paragone con la crescita - che tanto crescita non è stata - realizzata nel corso dell'anno dal Centro-Nord Italia e, ancor di più, se confrontati con quelli dei mercati d’oltre confine.
Viene da chiedersi il perché l’economia meridionale stia pagando i costi più alti della crisi. Mancanza di risorse sufficienti per il riequilibrio territoriale, distratte per altre emergenze come il lavoro e la ricostruzione post-terremoto in Abruzzo, come da qualche parte si lamenta? Oppure risorse destinate sì ma spese male, in settori improduttivi o in comparti inefficienti a creare valore, ricchezza e crescita? Sicuramente entrambi i fattori hanno contribuito in modo pesante a mandare giù l’economia del Mezzogiorno. Se a questo poi si aggiunge l'esigenza di riqualificare la classe dirigente del Sud, il quadro è bello che chiaro. Non ci sono dubbi: un cambio di passo verso la responsabilità delle classi dirigenti meridionali è ormai un passaggio indispensabile per risollevare il territorio meridionale, così come altrettanto indispensabile è ripensare radicalmente alle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno, anche alla luce delle opportunità che oggi offre il federalismo fiscale. Opportunità che si colorano di grigio se non si metterà mano ad una seria politica di sviluppo per il Sud. Al Sud occorre quello che necessita all’Italia tutta, solo in maniera più massiccia. Maggiore concorrenza, più ricerca e innovazione, più meritocrazia, infrastrutture, più investimenti pubblici, riqualificazione della spesa, più tecnologia, più capitale umano qualificato.
Le potenzialità del Mezzogiorno ancora sono funzionali e necessarie, oggi più che in passato, al benessere dell’economia nazionale perché se l’economia delle regioni meridionali non torna a crescere, sarà l’Italia tutta a uscire dai giochi globali della competitività.
è indispensabile pertanto una politica economica capace di riunire, e non di dividere, che individui con coraggio e determinazione, le priorità - e con esse gli strumenti - per rimettere in moto la crescita di tutto il Paese.

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