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  Dicembre 2012

Articoli n° 05
GIUGNO 2010
 
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È ancora CRISI, ma È tempo di contare i danni”

L'INTERVISTA - Bianchi: «Necessari i fondi per il riequilibrio territoriale nel nostro Paese»


L'INTERVISTA - Meldolesi: «La Campania ha bisogno di un’alleanza tra le sue forze sane»


L'INTERVISTA -Lanza: «Occorre una svolta strumentale nella condotta delle Regioni meridionali»

L'INTERVISTA

Bianchi: «Necessari i fondi per il riequilibrio territoriale nel nostro Paese»

di Raffaella Venerando



Luca Bianchi
Vice Presidente
SVIMEZ

Dottor Bianchi, come commenta le dichiarazioni del vice segretario del Pd Enrico Letta secondo cui la Campania - sotto il profilo economico - è una zavorra per l’intero Paese?

Anche se la definizione può apparire brutale, dal punto di vista quantitativo - considerata soprattutto la dimensione demografica e tenuto conto che è la regione che fa registrare attualmente il più basso livello di pil pro capite - non è un errore dire che la Campania contribuisce a deprimere il livello medio di pil nazionale. Dalle elaborazioni che si possono fare sui dati Eurostat risulta che se eliminassimo il valore della Campania dal dato medio italiano, il livello nazionale salirebbe di circa 1.000 euro pro capite - dai 25.800 euro ai 26.800 - consentendo al nostro Paese di raggiungere il livello della Francia che è a quota 27.000. Questo esercizio, che ovviamente tale resta, è solo una sorta di espediente per dimostrare numericamente che se si lavorasse per alzare il pil pro capite delle grandi regioni del Sud, si avrebbero effetti rilevanti anche sulla media nazionale. Del resto, è quanto afferma lo stesso Governatore della Banca d’Italia Draghi, quando - nella sua relazione del 2009 - sottolinea che se non si riescono ad attivare processi di sviluppo nelle regioni del Mezzogiorno, l’Italia non potrà mai raggiungere livelli di crescita di altri paesi europei. In questo senso la provocazione di Letta è utile per metter in luce la centralità della questione meridionale nel disegnare un progetto di sviluppo complessivo per il Paese. I dati parlano chiaro: fino al 2008 e per 7 anni il Sud è cresciuto meno del Centro-Nord; se, come ci si aspetta, avremo nel 2009 un tasso di decrescita che farà segnare una flessione del pil intorno al 5%, torneremo a un livello di prodotto interno lordo di 12/13 anni fa. È una prospettiva assolutamente grave, che sottintende debolezze ed errori commessi dalla politica nazionale e regionale non più nascondibili. I dati, infatti, non danno soluzioni, ma presentano agli occhi di tutti una realtà oggettiva che altro non è che la fotografia di un fallimento.

Posto che il ritardo economico-sociale del Mezzogiorno sia un dato, anche grave, secondo lei nel rilanciare politiche di sviluppo per il Sud quali sarebbero le priorità di cui tener conto?
In questa fase le politiche di sviluppo per il Sud sono particolarmente difficili perché va preso atto di un processo di delegittimazione nel Paese rispetto alla necessità di continuare a investire per lo sviluppo del Mezzogiorno. Un forte filone nordista e una serie di errori commessi nella gestione dei fondi pubblici al Sud hanno dato vita ad una opinione pubblica contraria a qualsiasi impegno dello Stato verso il Mezzogiorno. Questo si è già tradotto negli ultimi anni in una forte riduzione dei trasferimenti al Sud: i dati sulla spesa in conto capitale destinata al Mezzogiorno sono in calo continuo dal 2001. Siamo passati, infatti, dal 41% al 35.8% nel 2008. A questa tendenza di medio periodo si aggiunge una ulteriore fortissima distrazione di risorse impegnate a favore del Sud verso altri impieghi: mi riferisco in particolare alla riduzione dei Fondi Fas, riduzione che non potrà che peggiorare le condizioni del Sud d’Italia. Con i circa 26 miliardi dei Fondi Fas, all’origine destinati a politiche di riequilibrio territoriale, sono state finanziate sia cose nobilissime, come l’accordo sugli ammortizzatori sociali o la ricostruzione post-terremoto in Abruzzo, sia altri buchi meno nobili, come il ripianamento di comuni in difficoltà finanziaria (vedi Roma e Catania). Il Sud ha pagato molto più di altre aree del Paese i costi della crisi e di una grande emergenza nazionale come il terremoto in Abruzzo. Una denuncia del meridionalismo italiano su questi temi credo sia necessaria, ma risulterebbe debole e inefficace se non fosse affiancata - come suggerisce il Presidente Napolitano da tempo - ad un richiamo forte delle classi dirigenti meridionali a un miglior uso delle risorse loro destinate. Per molte imprese del Sud non è più sostenibile ormai vivere in condizioni di contesto così difficili, dove il divario infrastrutturale e di qualità della vita di cittadini e imprese, rappresenta un costo aggiuntivo. Rispetto a queste problematiche, la responsabilità nazionale di continuare ad erogare fondi per il riequilibrio territoriale non può essere sorda.

Dalle ultime rilevazioni dell’Istat, oltre al calo dell’occupazione, un altro dato è impressionante: nel 2009 sono ancora 2 milioni e 600mila i lavoratori al nero, cifra che diventa più che doppia al Sud. Come si combatte il fenomeno del sommerso?
Il sommerso rimane una grande piaga del Mezzogiorno. È un fenomeno che si combatte soprattutto mediante politiche di sviluppo e di adeguamento competitivo. È necessaria però una precisazione: esistono due tipi di sommerso, quello di convenienza e quello di necessità. Il primo è un comportamento illecito utilizzato per massimizzare i profitti e ridurre i costi, molto simile all’evasione fiscale e contributiva. Nel Sud, però, la gran parte di sommerso è di necessità, vale a dire che i livelli di produttività di alcune imprese sono talmente bassi da non coprire il costo del lavoro. Il sommerso, in altre parole, è il fattore che garantisce ad alcune imprese di rimanere sul mercato. La sola attività di controllo quindi non basta per arginare questo fenomeno distorsivo del mercato del lavoro, ma vanno implementate con urgenza le politiche per l’adeguamento del contesto, al fine di riuscire ad aumentare la competitività di queste imprese sotto il profilo dell’innovazione, delle ricerca, delle infrastrutture, consentendo loro di poter emergere.

Allungando la prospettiva nel tempo, secondo lei sarà mai possibile superare il dualismo nazionale?
Io credo di sì, e lo dico sulla scorta di esperienze internazionali di Paesi che, anche in tempi relativamente brevi, hanno avviato processi di sviluppo importanti. Del resto, l’esperienza italiana degli anni 50/60 è esemplare. In quegli anni il Mezzogiorno ha registrato progressi economici e di sviluppo civile studiati in tutto il mondo come un caso di successo. Riproporre il meccanismo di quegli anni è impossibile, ma si può lavorare per una politica di sviluppo nazionale coesa, che abbia chiara la missione dello sviluppo delle sue aree più deboli – lì dove si annidano le potenzialità di crescita e il capitale inespresso – e, al contempo, per una classe dirigente più responsabile ed efficiente al Sud. Se messo in condizioni di poter competere, il Mezzogiorno - grazie al suo patrimonio di capitale umano elevato con tassi di scolarità e universitari oggi superiori anche al Centro-Nord, alle prospettive di integrazione mediterranea e di partecipazione alle grandi innovazioni - senz’altro può essere in grado di giocare un ruolo importante nello scacchiere internazionale. Di questo ne sono convinto. Resta da convincere il resto del Paese.

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