reti di impresa
La nuova frontiera del business
L'INTERVISTA - Bianchi: «Il contratto di rete consente
di realizzare progetti strategici di crescita»
L'INTERVISTA - Palmieri: «Fare rete si puÒ ed È anche facile se si conoscono
i percorsi»
L'INTERVENTO - La rete È un ponte verso il futuro,
che va costruito insieme ad altri
L'INTERVENTO - L’innovazione si fa in “rete”
L'Intervista
Palmieri: «Fare rete si puÒ ed È anche facile se si conoscono
i percorsi»
«Le Reti hanno una loro “governance”, hanno cioè una sede formalmente riconosciuta, che stabilisce
e controlla l’attuazione delle regole comuni condivise»
Domenico Palmieri
Presidente AIP
Associazione Italiana Politiche Industriali
Professore, sgombriamo il campo dagli equivoci: quali sono le caratteristiche per cui un’aggregazione tra imprese può essere correttamente definita come una rete di impresa e in che modo funzionano?
Pur essendo le Reti un sistema di due o più imprese, sostanzialmente semplice da costruire e far funzionare, risulta alquanto complessa una definizione sintetica per la variabilità di forme che esse assumono e la mancanza, quindi, di un modello standard per esse.
Per la comprensione delle loro caratteristiche è necessaria, quindi, una certa dose di intuitività.
Possiamo cominciare con il dire che l’aggregazione che fa Rete è quella tra imprese che accettano il principio dell’interdipendenza; vale a dire, che accettano di cercare la crescita dimensionale, ormai indispensabile per una gran quantità di motivi, non per via endogena, acquisita cioè solo per via interna, ma attraverso alleanze con altri che condividono la stessa esigenza.
Che cosa significa crescita attraverso l’interdipendenza?
Significa innanzitutto, ma non solo, che per risolvere almeno in parte i problemi connessi alle piccole dimensioni, che non consentono di ammortizzare e quindi acquisire tecnologia e innovazione, i cui costi sono oggi aumentati, e per operare sui mercati internazionali, non si può fare a meno di aggregarsi almeno parzialmente.
Con più precisione si può dire che le aggregazioni possono realizzarsi con le fusioni e le acquisizioni, oltre che con le alleanze di Rete.
Le prime due forme però, di norma, fanno perdere l’autonomia e l’indipendenza ad alcuni, cioè fanno scomparire una parte degli imprenditori.
Le Reti invece propongono un legame comune solo su una parte di attività, mentre si può continuare a fare impresa autonomamente su altre parti: perciò si parla di regime di interdipendenza.
Le altre forme di collegamento: consorzi, ATI, Distretti Industriali, pur avendo alcune valenze, non sono reali forme aggregative: con esse non si risolve il problema della crescita dimensionale.
Per raggiungere questi obiettivi le reti superano i vincoli territoriali della mutua assistenza di prossimità, che oggi è troppo poca cosa, e si qualificano con tratti di trans-territorialità e trans-merceologia e ancora di più, si può dire, come realtà ibride in cui c’è una multi-specializzazione e attività comuni.
L’AIP ha stilato una sorta di “modelli” di rete. Quali le peculiarità e le differenze che intercorrono fra le varie tipologie?
Per la flessibilità costitutiva che le caratterizza, le Reti assumono molteplici forme a seconda degli obiettivi che si danno i vari attori e le circostanze/modalità con cui essi si incontrano e fanno Rete.
AIP, senza pretesa alcuna di esaustività, ne ha individuate una decina che sono riportate nel 2° volume della trilogia sinora pubblicata sul tema: “Reti d’impresa oltre i distretti”- 2008, Ed. Il Sole 24 Ore.
Un elemento comune tuttavia è essenziale: la volontà/disponibilità a mettere in comune una parte della propria creatività e autonomia e gestirla in condivisione con altri. Ecco perché si parla di aggregazioni basate sulla interdipendenza e sull’autonomia allo stesso tempo.
Volendo dare un’indicazione più precisa si può aggiungere che, tra le varie tipologie, le più peculiari, in questa fase, sono le cosiddette reti orizzontali e quelle baricentriche. In esse infatti si realizza la cooperazione tra competitori di mercato e non solo tra operatori di filiera/fornitura (le reti verticali) o infrastrutturali, già conosciute dagli anni novanta. Trattasi di una evoluzione epocale che dimostra che si è finalmente capito che il competitore non è più quello della porta accanto e che invece il più pericoloso è quello che, di norma, è geograficamente anche molto lontano: cinese, indiano e così via. Per queste ragioni/caratteristiche anche le modalità di funzionamento sono varie e variamente normate: un elemento di base comune a tutte per un corretto funzionamento è lo scambio “di ostaggi” tra gli operatori, cosa che rende difficile i tradimenti, all’ordine del giorno nelle altre forme di cooperazione, come ad esempio nei consorzi, e al di là delle tutele giuridiche che pure sono prevedibili e previste ormai almeno parzialmente.
Reti e distretti possono essere organizzazioni com-plementari? Non teme possano divenire concorrenti, ad esempio nella ricerca di fondi pubblici?
Io non considero assolutamente in concorrenza Reti e Distretti: sono realtà del tutto diverse e con prospettive altrattanto diverse.
Le Reti sono il futuro in sviluppo, i Distretti hanno rappresentato un importante strumento di mutua assistenza di prossimità, che oggi non può oggettivamente rappresentare più uno strumento di traino per lo sviluppo.
Il cosiddetto vantaggio di distretto sta un po’ dappertutto affievolendosi o scomparendo, come ha dimostrato anche la crisi recente dove si sono meglio difese le buone aziende indipendentemente dall’appartenenza ad aree particolari: basta leggere i dati più recenti appena pubblicati.
Ciò non toglie che i Distretti conservino una loro funzione e possano anche loro stessi evolvere verso forme a rete, diventando così nodi di possibile connessione di maglie lunghe, ma dovranno in qualche modo rinunciare alle loro peculiarità caratterizzanti, e cioè alla territorialità e alla specializzazione, da rendere compatibile con la multi-funzionalità dei prodotti e quindi delle tecnologie richieste.
La concorrenza, quindi, non si pone e tanto meno per i fondi pubblici che vanno necessariamente diretti alle aziende per supportarne le potenzialità di sviluppo: è ovvio che essi quindi vadano lì dove queste appaiono più facilmente raggiungibili.
La condivisione - principio alla base delle reti di impresa - comporta però dei rischi se manca la fiducia tra le parti. Cosa potrebbero fare le istituzioni per garantire – giuridicamente e di fatto - le imprese?
Certamente nell’attuazione delle gestioni condivise deve prevalere la fiducia tra le parti e quindi la buona fede tra i soggetti cooperanti.
Ma qui emerge l’altra fondamentale differenza tra le Reti e le altre forme aggregative, fatte salve le fusioni secche e le acquisizioni: le Reti hanno una loro “governance”, hanno cioè una sede formalmente riconosciuta, che stabilisce e controlla l’attuazione delle regole comuni condivise.
Ecco perché si dice che le Reti si progettano a tavolino e abituano a gestioni partecipate. Ma ovviamente ciò non basta.
Le istituzioni devono garantire regole di quadro: ciò si è cominciato a fare con la nuova legge del Contratto di Rete, introdotta nell’ordinamento giuridico italiano lo scorso luglio. Una volta tanto in tempo reale, si possono fare operazioni di aggregazione utilizzando un nuovo strumento giuridico anche se con limiti e alcune carenze.
Ma le istituzioni possono dare segnali anche sul piano delle prassi fattuali con la priorizzazione delle strutture di rete per la destinazione dei supporti e degli incentivi, come tentiamo di dire nel nostro ultimo libro “Fare reti d’impresa” - 2009 - Ed. Il Sole 24 Ore.
Rispetto alla normativa, persistono ancora dei vuoti, delle criticità. Quali aspetti vanno migliorati secondo lei?
Di fronte a realtà nuove come quelle delle Reti che probabilmente rappresenteranno per parecchi anni “il modo” per trovare un antidoto all’handicap delle piccole dimensioni, caratteristiche del sistema industriale italiano, alcune cose dovranno essere integrate nella legge sul Contratto di Rete per meglio definire alcuni elementi oggi troppo limitativi, quali quelli sugli obiettivi strategici delle nuove aggregazioni, o, troppo indefiniti, come quelli sulla gestione del fondo patrimoniale previsto, sulla difesa dei diritti proprietari sviluppati in comune, sugli accessi e recessi, sugli eventuali rapporti Banche / Reti e così via. Ma non è un’impresa impossibile.
Più semplice tecnicamente e più complesso sul piano della politica industriale, il problema del riconoscimento di fatto come soggetto giuridico della Rete ai fini della patrimonializzazione e della titolarietà per eventuali norme sulla fiscalità di vantaggio. Sarà da sviluppare anche una armonizzazione tra economia, che viaggia sui binari della transterritorialità, e politica industriale che viaggia a tutt’oggi sui binari della territorialità: ciò rende difficile l’attuazione delle stesse leggi da cui ci si attenderebbero vantaggi territoriali. Personalmente giudico impossibili da raggiungere questi ultimi: e infatti mancano dopo anni i regolamenti di attuazione.
Ma su questo continuiamo a lavorare: fare reti si può, è facile se si conoscono i percorsi; ci sono le prime norme. Si può concludere dicendo che, anzi, le Reti si devono fare per facilitare l’uscita dall’economia parcellizzata di territorio e se si vogliono cogliere, in qualche modo, in Italia le opportunità che certamente si presenteranno con l’uscita dalla crisi di congiuntura. |