di Alfonso Amendola, docente e vicepresidente “Centro Studi sulle Rappresentazioni Linguistiche” Università di Salerno
La forma del silenzio. Sull’opera di Enzo Bianco
Da sinistra: Isolalibro, Silenzio, Naufrago,
Il labirinto
«e la gente si inchinava e pregava/ al Dio neon che avevano creato. / E l’insegna proiettò il suo avvertimento,/ tra le parole che stava delineando./ e l'insegna disse ‘le parole dei profeti/ sono scritte sui muri delle metropolitane/ e sui muri delle case popolari’./ E sussurrò nel suono del silenzio»
Simon & Garfunkel
Le opere recenti di Enzo Bianco c’invitano ad un’immediata, naturale riflessione. Quella d’infrangere una serie di “luoghi comuni” che da sempre hanno sottolineato il silenzio unicamente interpretato come dottrina, dono della metafisica, ricerca interiore e dimensione meditativa. Certo, questo è vero ed è lampante ed è nell’assoluta storia delle cose. Ma il silenzio ha tante “forme” come c’indica nel suo parlar pittorico Enzo Bianco. Come queste tempere ci prospettano con discrezione e vigore (e si badi che “la “discrezione” ed il “vigore” da sempre sono due matrici costanti dell’intera ricerca artistica di Enzo). Le forme hanno tante “voci” o meglio tanti segni complessi che nascono da un profondo “rito dell’osservare” e che l’autore traduce e propone in un suo intimo, serrato e direi estremo dialogare con le possibilità che può nutrire lo spazio del silenzio. Per Bianco il silenzio è fatale inquietudine. È spazio d’infinite attese. È lacerazione di una speranza che non osa ancora chiamarsi disperazione. È disegno vuoto delle nostre città figlie di stordita “melanconia”. È corpo sghimbescio di ragazza (un corpo addormentato, mal poggiato e scomposto con sontuosa indifferenza da dolorosi “dopo niente”). È consumazione. È letto sfatto fors’anche stanco d’essere arcaica “macchina dei sogni”. È un silenzio che si chiama “riposo” (quel riposo che per il più grande “poeta del silenzio” di nome Rilke poteva esistere unicamente come “sentimento della finitudine”). La forma del silenzio, secondo Enzo Bianco, è data da due labbra cucite (che non sanno parlare o non voglio più lanciare urla di ribellione o lamenti di sconfitta… perché “le parole sono inutili”). Enzo Bianco in questo suo denso attraversamento pittorico c’indica la sua idea di silenzio. Un “silenzio metropolitano”, mi verrebbe da dire, dove il senso di vuoto e spaesamento è più che dichiarato. Un silenzio - frutto delle nostre metropoli - che vive nella sua implosione, si celebra nel suo essere corpo ferito e lacerato (per questo ho scelto come overture di citazione la storica canzone emblema del miglior folk-rock statunitense e scritta da Paul Simon il 22 novembre del 1963 all’indomani della morte di John Fitzgerald Kennedy). Ma c’è un elemento in più che caratterizza quest’universo pittorico di Enzo Bianco. C’è una stratificazione ulteriore che celebra la sua decifrazione del silenzio. Quest’elemento è il frammento. È la parcellizzazione di un momento. È il taglio raffinato, puntuale, chirurgico di una sensazione. Ed è proprio questo che le opere di Enzo Bianco realizzano. Frazionano e fratturano il silenzio. Frazionano e fratturano “le forme del silenzio”. Costruiscono degli attimi, dei ‘frame-stop’ dove le forme del silenzio immediatamente si cesellano e si riconoscono. In tutto questo “silenzio metropolitano” e frammentazione di un infinito mosaico che è la vita (passatemi questa riflessione più aperta) vivono le tempere di Enzo. Frammenti di un silenzio che passano dal sempre più sfuggente (perché indecifrabile) rapporto con il sociale al voluto annullamento del parlare (tra estraniamento e solitudine in un appassionato, analitico ed al contempo distanziante omaggiare Edward Hopper). Tutto questo ci conduce, necessariamente ed in primis, a guardare i confini possibili della pittura contemporanea. Il suo desiderio d’esistere, la sua tenace voglia di continuare ad assumere continue configurazioni espressive, l’ansia di riformularsi in una nuova espressività e di ripensarsi verso altri orizzonti di comunicazione visiva. |