Fate presto. 5 artisti per 5 curatori
in emergenza
La visione differente
di Mahfuz
di Antonello Tolve, Critico d’arte
Fate presto. 5 artisti per 5 curatori
in emergenza
Nella Chiesa dell’Addolorata l’arte riflette sui rifiuti urbani
È il circuito sociale – l’essere postindustriale, la vita metropolitana e globale – a dettare le regole del rifiuto; a dire che un oggetto non è più cosa utile ma piuttosto massa inservibile, «indigestaque moles» (Ovidio), sostanza di scarto appunto. L’oggetto, da elemento del mondo, diventa, attraverso un feroce processo consumistico, materiale immondo, rifiuto, scoria, avanzo, detrito. Dequotidianizzare il prodotto per rievidenziarne il lato estetico, etico prima di tutto, significa osservare la realtà e riesporre allo sguardo dello spettatore non solo il luogo in cui vive, ma anche la ferita dell’abuso, l’oscenità concepita dall’atteggiamento societario d’oggi. La pelle della realtà, l’epidermide strappata alla quotidianità, ritorna ad essere, ora, il centro di un discorso artistico (che ha affascinato e incuriosito, in tutto il Novecento, una vasta schiera di artisti tesi a riconnettere l’arte alla vita) dedicato a questo imprudente disordine consumistico che tende a scartare, ad accumulare verso l’esterno e ad invadere gli spazi urbani dequalificandone, molte volte, la stessa locality.
Con “Fate presto. 5 artisti per 5 curatori in emergenza” - un’idea di Emanuela Adinolfi, Letizia Magaldi e Rocco Orlacchio (in collaborazione con la Fondazione Filiberto Menna) -, l’arte riflette daccapo, attraverso 15 opere side-specific, sugli (e negli) statuti societari della contemporaneità a partire proprio da una problematica, quella dei détritus urbani che soggiogano, da tempo, il territorio vesuviano. Fate presto, appello di warholiana memoria, si fa dunque invito a risolvere un crack del momento, ma anche locus d’incontro e di dibattito in cui, arte e critica d’arte, tendono a decifrare un malessere; e a riproporlo, esteticamente, allo spettatore, utilizzando un linguaggio sempre più legato alla realtà. Questo perché l’artista, figlio del proprio tempo, rioccupando lo spazio sociale, fa del corpo sociale il centro gravitazionale del proprio discorso, della propria poetica, del proprio sentimento etico e della propria riflessione sull’arte.
Mariangela Levita, Giulia Piscitelli, Jota Castro, Claire Fontaine, Carlos Garaicoa. Sono i cinque artisti invitati a sviluppare quest’affaire con una schiera di critici tra cui Eugenio Viola, al quale abbiamo avanzato alcune domande.
Viola qual è il senso di questa mostra?
Fate presto nasce dalla riproposizione di un’urgenza che da etica si fa estetica. La riproposizione di un monito lanciato trent’anni fa in risposta alle ingiurie della natura e oggi riattualizzato per una nuova urgenza, non meno grave, causata dall’incuria dell’uomo. É la risposta polemica e politica di un inviato speciale della realtà, l’artista, invitato a riflettere e ad elaborare strategie formali atte a proporre una riflessione su una contingenza non felice, a creare degli spunti di riflessione.
C’è un ritorno all’utopia, al desiderio di cambiare il mondo a partire dall’arte come strumento sociale?
In un’epoca che da più parti vedono legata all’effimero e al disimpegno, caratterizzata dal tramonto dei grandi modelli di pensiero, credo si possa riproporre un modello più contenuto dell’utopia, una micro-progettualità, delle micro-narrazioni, delle micro-utopie. Ritengo che l’arte sia e debba essere portatrice di questi valori, altrimenti nella società massmediatica e globalizzata, caratterizzata da un’orgia visiva e dal “trionfo dell’estetica” sempre più pervasiva, il suo ruolo si svuoterebbe progressivamente, fino a perdere completamente senso…
Un’ultima domanda: come ti sei rapportato nell’ambito della mostra a questa emergenza?
Per la mostra ho curato il lavoro del cubano Carlos Garaicoa, artista che proviene da una realtà geograficamente e culturalmente molto lontana da quella con la quale è stato chiamato a confrontarsi, un luogo distante che a ben vedere schiude singolari analogie con la nostra realtà. Cuba e Napoli: due città accomunate dalla perifericità, entrambe gravide di contraddizioni e lacerazioni, disordine e “munnezza”.
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