Tra malinconia civile
e “partito dei no”
Andrea PRETE
Siamo fermi, e quel poco che si
muove non cammina speditamente, ineluttabilmente "perso" in
giochi di veti incrociati
E'
davvero curioso dovere constatare in questa strana Italia che
si sia riusciti a riformare in pochissimo tempo niente di meno
che il sistema elettorale, ma che da anni si sia praticamente
fermi rispetto ad una serie di problematiche di assoluto rilievo
per il nostro futuro.
Non è questione di "retorica del declino",
dibattito ormai usurato che certamente è giusto tenere
in considerazione, ma per quanto mi riguarda siamo alla "malinconia
civile". Non è uno stato emotivo, è semplicemente
la presa di coscienza di trovarsi di fronte all'incapacità di
rimuovere antiche incrostazioni burocratiche, alla ricerca
frenetica e perenne del consenso.
Il risultato è "straordinario": le scadenze
elettorali - praticamente una ogni dodici mesi - diventano
il riferimento primario per cadenzare le "non scelte".
La paura di scontentare qualcuno; di subire emorragie di voti;
di collocarsi troppo a destra, a sinistra o a centro; di apparire
qualcosa di diverso da quello che si è o non è:
sono questi i fattori che determinano una "sindrome paralizzante".
Siamo, quindi, fermi e quel poco che si muove non cammina speditamente, "perso" in
giochi di veti incrociati, strumentali, funzionali alla gestione
del potere, agli equilibri di partito o di coalizione, a vere
e proprie alchimie difficilmente comprensibili ad occhi profani.
È un "clima" che induce alla "prudenza",
a valutare i "pro e i contro". Un "clima" che
frena un po' tutto. E, allora, si assiste alla ritirata silenziosa
di tante energie positive che scelgono consapevolmente di non
esporsi più di tanto.
Saltano in questo modo i meccanismi di selezione virtuosa della
classe dirigente.
È il tema, questo, che segna appunto il passaggio dalla "passione" alla "malinconia" civile;
da un sistema-Paese che crede nel proprio futuro ad un'Italia
che si ferma perplessa e si guarda intorno, magari ripensando
ad una "filosofia difensiva" che si può riassumere
in un drammatico "io speriamo che me la cavo", o
nell'attesa del fatidico "stellone".
Ma c'è di più. Purtroppo di più. Anche
quando l'evidenza impone di fare qualcosa, si palesa una nuova
entità che assume - malgrado gli stessi protagonisti
- una soggettività politica, fino a diventare un'entità che
condiziona, indirizza e magari addirittura "contro-propone".
Sto parlando di quelli che una volta erano più "partiti",
ma che oggi sono diventati un solo, grande "partito":
il "partito dei no", il partito del "non fare",
senza "se" e senza "ma". "No" come
scelta strategica che di volta in volta assume una sua identità specifica:
dall'ambiente alla salute; dal turismo all'economia; dalle
infrastrutture all'energia e via dicendo.
Non conta affatto avere una competenza o un fondamento scientifico.
Diventa importante sollevare dubbi, alzare polveroni, innescare
dietrologie più o meno credibili. E, alla fine, quando
si conquista la scena - soprattutto mediatica - scatta il meccanismo
di attribuzione di una rappresentanza auto-referenziale. Il
gioco è fatto.
Parte il grande "barnum" di una protesta che non
si pone l'angoscia della risoluzione del problema. Con buona
pace dell'etica della responsabilità che diventa "etica
dell'irresponsabilità".
Per tutte queste motivazioni la "malinconia civile" può prendere
il sopravvento sugli eroi di tutti i giorni, quelli che, nonostante
tutto, affrontano la quotidianità con la speranza di
un futuro migliore. È per questo esercito silenzioso
- che regge le sorti dell'Italia - che occorre mobilitarsi.
Non c'è più tempo per la "retorica del declino", è il
tempo dei fatti, delle responsabilità vere.
*Presidente Confindustria Salerno |