Strumenti di difesa commerciale Ue e interessi dell’Industria Italiana
Gian Domenico AURICCHIO
La competitività del Sistema dipende da molti fattori e la tutela del “Made in Italy” passa anche attraverso un corretto uso
degli strumenti di difesa commerciale
Ho avuto modo di accennare (v. Costozero 5/2006) come la competitività delle produzioni italiane sia al centro dell'interesse e degli sforzi di Confindustria. Seguiamo con attenzione quelle iniziative, comunitarie e nazionali, che possono essere realmente efficaci, al contempo analizzando criticamente quei provvedimenti che, a nostro parere, sono dannosi per raggiungere l'obiettivo di un efficace inserimento del nostro sistema industriale in un contesto globalizzato che influenza i costi e le opportunità di fare impresa.
Confindustria ha maturato da tempo la consapevolezza che, per garantire lo sviluppo, è necessario guardare sempre alle condizioni di un mercato "aperto" in rapida e continua evoluzione. Anche per questo dobbiamo essere consapevoli che soluzioni di respiro nazionale mostrano inevitabilmente limiti e costi che, in molti casi, non giustificano i presunti vantaggi e, in ultima analisi, non aiutano lo sviluppo, il consolidamento, la crescita dimensionale e l'occupazione legata al Sistema Paese. Nel corso dell'anno sono maturate le condizioni per approfondire la riflessione in particolare sulla opportunità di iniziative legislative - quale la proposta di legge che detta norme per la riconoscibilità e la tutela dei prodotti italiani - che sono all'attenzione della Legislatura, anche alla luce della evoluzione della proposta di Regolamento, presentata il 16 dicembre 2005 dalla Commissione Europea - relativa alla indicazione di origine di alcuni prodotti importati da Paesi terzi - ritenuta da Confindustria e dai Settori di prioritaria importanza. Sull'argomento si è espresso anche il Parlamento europeo che il 6 luglio 2006 ha approvato all'unanimità (una sola astensione) una risoluzione favorevole alla introduzione nella UE di un sistema obbligatorio di indicazione del Paese di origine per una serie di prodotti importati (tessile abbigliamento, gioielleria, calzature, pelletteria, borse, lampade, ed impianti di illuminazione articoli in vetro e ceramica).
Il Parlamento Europeo, nella citata risoluzione, sottolinea l'importanza dell'introduzione di un marchio di origine obbligatorio, considerando che alcuni dei maggiori "partner" europei - USA, Canada, Giappone e Cina - hanno già introdotto norme analoghe e che il sistema garantirebbe trasparenza al consumatore ed sosterrebbe maggiormente le PMI esposte alla concorrenza globale ed ai danni della contraffazione.
É dunque evidente che lo scopo della proposta nazionale cui ho accennato, quella sulle norme per la riconoscibilità e la tutela dei prodotti italiani, trova, nelle sue motivazioni economiche e in quelle di difesa occupazionale, pieno conforto nell'iniziativa comunitaria.
I nostri sforzi e quelli del Governo vanno dunque indirizzati ad un forte sostegno di tale proposta di regolamento UE ora all'esame del Consiglio. In tal senso, alla fine di ottobre ho avuto occasione di ribadire le argomentazioni di Confindustria, che investono anche il merito e la compatibilità del disegno di legge nazionale, nel corso di una audizione informale presso la X Commissione Attività Produttive ove il provvedimento è in esame. Al di là delle criticità tecniche, ciò che Confindustria ha voluto sottolineare è che il Governo potrebbe utilmente concentrare i propri sforzi adoperando il suo peso politico, la sua influenza e autorevolezza, presso il Consiglio UE dove si trova in discussione quella proposta di regolamento succitata che, se approvata costituirebbe una svolta epocale della legislazione comunitaria nel senso di una maggiore informazione al consumatore e di tutela delle produzioni manifatturiere. Non riteniamo, infatti, che iniziative di fonte governativa o parlamentare sulla materia del marchio di origine siano lo strumento migliore per sostenere la competitività. Ci siamo opposti al progetto, contenuto nella Finanziaria del 2004 di un marchio collettivo di natura regolamentare il cosiddetto "Uomo di Leonardo" per le stesse ragioni. Gli strumenti che chiediamo al nostro Legislatore a favore della competitività sono altri, quale la diminuzione della pressione fiscale e degli adempimenti richiesti alle imprese, una efficace politica di sostegno all'internazionalizzazione anche attraverso idonei strumenti promozionali, una politica che favorisca aggregazione e crescita dimensionale dell'impresa.
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Sicuramente ogni iniziativa che aiuti le nostre imprese semplificando gli adempimenti e riducendo i costi fiscali e burocratici è ben accetta. Ma è in Europa che vanno prese le decisioni di più ampio respiro. Quelle che influenzano concretamente le condizioni di accesso al mercato e il rispetto della concorrenza ed anche quelle di difesa commerciale volte a disciplinare la correttezza degli scambi internazionali. Tra queste ultime vi è lo strumento del "dumping" che insieme ad altri TDIs (Trade Defence Instruments) svolgono una funzione, a livello globale, assimilabile all'antitrust ed al diritto della concorrenza che esistono a livello nazionale ed europeo.
In sostanza, non essendoci (ancora) una disciplina della concorrenza a livello multilaterale, questi strumenti svolgono una funzione "regolamentare" surrettizia, facendo sì che gli abusi di posizioni dominanti (dovute a sovvenzioni statali, uso di dumping sociale od ambientale, prassi e norme tecniche che limitano gli scambi, barriere non tariffarie di vario genere, etc.) penalizzino alcuni attori a vantaggio di altri.
É evidente l'interesse dell'industria italiana a che tali strumenti siano facilmente accessibili in caso di necessità - ed un esempio è stato il ricorso ad essi da parte dell'industria calzaturiera - e possano bilanciare in qualche modo e per qualche tempo le asimmetrie dei prezzi. L'antidumping è infatti uno strumento che agisce sui prezzi, non sulle quantità. Come tale, opera in maniera "compensativa", aggiungendo al produttore che opera in dumping una percentuale di ricarico che lenisce il danno provocato ai produttori dei mercati di destinazione del suo export.
L'Italia è il principale utilizzatore dello strumento in un ampio numero di settori (maggior numero di investigazioni richieste, avviate e di dazi compensativi ottenuti). Il commissario Mandelson vorrebbe riformare il sistema antidumping in senso maggiormente liberistico, ma l'impatto della sua proposta ha destato le perplessità dell'industria europea, pertanto, la Commissione ha optato per un approccio meno drastico, con la pubblicazione di un Libro Verde e l'avvio di una estesa consultazione pubblica all'inizio del prossimo anno, che permetterà alla Commissione di identificare le reali esigenze di riforma e le linee guida a cui attenersi. La UE dispone già di una normativa antidumping rigorosa e basata su regole trasparenti. L'utilizzo di tale strumento avviene in maniera senz'altro più bilanciata rispetto ai suoi partner commerciali, ad esempio gli Stati Uniti. Alla luce dell'analisi comparativa con il sistema statunitense, anche i servizi della Commissione hanno, infatti, confermato il corretto funzionamento delle pratiche comunitarie attualmente in vigore ed, in assenza di un accordo multilaterale sull'antidumping in sede WTO, un'iniziativa unilaterale europea apparirebbe prematura e rischierebbe di danneggiare gli interessi dell'industria UE. Nondimeno, gli Stati membri sono sempre più divisi sulla adozione di dazi antidumping, facendo venire meno la tradizionale "solidarietà", che permetteva ad uno o più paesi colpiti da pratiche illecite di essere appoggiati dalla maggioranza del Consiglio. La prospettiva attuale, infatti, è che sarà sempre più difficile raggiungere i voti necessari, depotenziando sensibilmente uno strumento fondamentale per l'industria italiana. A nostro parere, qualsiasi iniziativa di revisione dovrebbe comunque essere condotta coinvolgendo pienamente i rappresentanti dell'industria europea e tenendo ben presente le loro priorità.
Ciò che ribadiamo è che la competitività del Sistema è conseguenza di molti fattori e la tutela del "Made in Italy" passa anche attraverso un corretto uso degli strumenti di difesa commerciale che la Comunità mette a disposizione e che vorremmo siano efficaci e realmente utilizzabili in caso di bisogno.
Presidente Comitato Tecnico
per la Tutela dei Marchi e la Lotta alla Contraffazione Confindustria
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