di Alfonso Amendola, docente e vicepresidente “Centro Studi sulle Rappresentazioni Linguistiche” Università di Salerno
Il GIAPPONE nella fotografia di NICOLA GUARINI
Resta a Roland Barthes la definizione del Giappone come impero dei segni. Una ricostruzione semiotica che il grande pensatore francese volle rintracciare negli spazi non istituzionali, tentando di definire le complessità dell'identità nipponica: «nella città, nel negozio, nel teatro, nella cortesia, nei giardini, nella violenza».
E poi inseguendo gestualità, analizzando cibi, rileggendo poesie, osservando volti e occhi del popolo giapponese. E sottolineando «la fermezza della traccia, senza sbavature, senza margini, senza vibrazioni».
Lungo e ben oltre l'orizzonte segnico indicato da Barthes sembra muoversi la "ricostruzione" fotografica del Giappone di Nicola Guarini. Una "ricostruzione" che si staglia verso lo splendore metropolitano di Tokio, gli scenari d'interni, le ombre dal notturno, le pulsioni urbanistiche, gli spazi chiusi e aperti, gli hotel. Alcune sue fotografie ne sono decisivo emblema: da For relaxing time a Nikk ō, da Al Terrace a Ginza.
Fino a disegnare, fotograficamente, un Giappone immaginifico (penso in particolare all'homage dedicato al film di Sofia Coppola Lost in translation del 2003 che del Giappone, Tokio in particolare, ne evidenzia inquietudini e solitudini dove echeggia quell'assenza di sbavature e svuotamenti indicati da Barthes).
Insomma, un Giappone concreto ed emozionale, incandescente e formale, rumoroso e silente quello fotografato da Guarini. Dove la traccia d'identità di un popolo compare in tutte le sue possibili sfaccettature. Infatti per un fotografoviaggiatore come Guarini il Giappone non poteva non diventare lo spazio di una necessità espressiva ed esplorazione visiva (come in precedenza è stato il suo rapporto con Cuba o con la Sicilia). Per questo il Giappone fotograficamente "indagato" e raccontato da Guarini è reso in tutta la sua irraggiungibile complessità, linee di fuga identitarie e contraddizioni (altra parola-chiave per avvicinare la patria di Zeami e dei fiori di loto; per comprendere, pardon, cercare di comprendere questa terra segnata da cortesia e devozione, tra una natura imperiosa ed elegante e la maestosa moltiplicazione tecnologica e virtuale).
Quello che interessa alla fotografia di Guarini è sia la dimensione quotidiana che lo spazio vuoto. Infatti nello scorrere composito delle sue opere fotografiche l'autore ci indica gli spaccati espressivi di tutta la sua ricerca artistica: racconti di situazioni, movimenti minimi o scenari pieni, occasionalità, frammenti di estrema quotidianità, ma anche immediatezza ed articolazioni complesse.
Né potrebbe essere altrimenti: in quanto la forte personalità fotografica di Guarini, il suo trascinante viaggiare e realizzare reportage, lo portano ad essere un vero e proprio narratore (non soltanto di identità ma anche di storie, luoghi, tempi e visioni). Una produzione fotografica che si muove con eleganza e discrezione. Una modalità che ha trovato nel Giappone un modo diverso, volutamente intimo e costellato da differenti contaminazioni artistiche e culturali per osservare una nazione che, costruita nell'imperiosità del segno, è ancor oggi un vero e proprio luogo d'assoluto. Una terra di leggerezza e sapienza, dove l'incandescenza e la forma sono davvero il ritmo in grado di miscelare sperimentazioni high-tech e il profondo misticismo, le trasformazioni urbanistiche e la persistenza di luoghi tradizionali, le inquietudini e la saggezza, lo Shintoismo e l'eversione dei costumi, le "maschere" di Yukio Mishima e la "bellezza e tristezza" di Yasunari Kawabata, l'ossessione cinematografica tra nuovo e modernità di Yasujiro Ozu e il citazionismo coltissimo dei film di Akira Kurosawa, il trionfo dei manga e la computer culture. |