A colloquio con Stefano Zamagni, Professore ordinario di Economia Politica,
Università di Bologna e Adjunct Professor of International Political Economy,
Johns Hopkins University, Bologna Center
«La RSI non È solo un maquillage»
Verso l’impresa etica, ecosostenibile ed equosolidale
di Marco Marinaro, Avvocato - Esperto in CSR
Professore si diffonde sempre più anche in Italia l’attenzione tra le imprese per i temi della responsabilità sociale. Ma qual è il concetto di RSI del quale oggi si discorre?
Non da oggi si dibatte sul punto se l’impresa debba avere obblighi di natura sociale, e non solo legale, nei confronti della società in cui opera. Non è dunque corretto affermare che il tema della RSI costituisce una res nova dell’attuale fase storica contrassegnata dalla globalizzazione. Fin dall’Umanesimo civile - il 15° secolo è il periodo in cui nasce e si diffonde la moderna economia di mercato - si sa che l’impresa sorge come impegno organizzato nei confronti della comunità. Piuttosto, quel che è vero è che, nel corso degli ultimi due secoli, è andata mutando l’interpretazione di ciò per cui l’impresa viene ritenuta responsabile. Invero, la RSI, come oggi la si intende, è una norma sociale di comportamento che esprime l’esigenza, oltre che l’opportunità, di valorizzare la dimensione pubblica dell’impresa. Con la RSI, l’impresa si mette figurativamente “in piazza”, mettendosi in gioco di fronte alla polis intera e non solo al mercato. É in ciò la vera novità della RSI.
STEFANO ZAMAGNI
(Rimini, 1943) è professore ordinario di Economia Politica all'Università di Bologna. Si è laureato nel 1966 in Economia e Commercio all’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano), e dal 1969 al 1973 si è specializzato ad Oxford (UK) presso il Linacre College. Prima di Bologna, ha insegnato all'Università di Parma e tuttora insegna Storia dell'analisi economica alla Bocconi di Milano. É presidente del Comitato Scientifico della Scuola Superiore di Politiche per la Salute, Università di Bologna. É presidente (dal 2007) dell’Agenzia per le ONLUS, Milano.
Molteplici sono i riconoscimenti e le appartenenze ad accademie. Si ricordano, fra gli altri: nel 1989 il Premio St. Vincent per l'economia e nel 1995 il Premio Capri per la saggistica. Dal 1991 è consultore del Pontificio Consiglio di "Iustitia et Pax", Città del Vaticano e nel 1994-1995 è stato membro del Comitato di avviamento della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Dal 1999 è membro della New York Academy of Sciences. Fa parte del Comitato scientifico di numerose riviste economiche nazionali e internazionali, oltre ad essere autore di molte pubblicazioni di carattere scientifico. |
In questo contesto, qual è il rapporto tra la responsabilità sociale dell’impresa e la corporate philantropy?
La RSI non va confusa con la corporate philantropy, cioè con la filantropia d’impresa. Infatti, mentre l’atto filantropico è sempre ex-post, in quanto può prendere corpo solo dopo che il profitto è stato conseguito, la responsabilità sociale dell’impresa è una pratica ex-ante che si manifesta prima ancora che l’impresa conosca i suoi risultati economici. Qual è, infatti, il ragionamento implicito del filantropo? Gestisco l’impresa secondo il principio della massimizzazione del profitto e se, alla fine dell’esercizio, registro che gli affari sono andati bene, destino parte dei profitti a finalità di utilità sociale. Si badi che al fondo della filantropia non v’è alcun commitment sociale, ma solo il principio di restituzione: devo “rendere” parte del profitto alla comunità che mi ha aiutato, in qualche modo, ad ottenerlo. Giova ricordare che già intorno alla metà dell’Ottocento, in Europa dapprima e negli USA poi, inizia a prendere corpo l’idea di filantropia d’impresa. Relativamente agli USA, figure eponime del modello filantropico di capitalismo sono Andrew Carnegie e David Rockefeller. Del primo ricordo il libro, pubblicato nel 1889, con il significativo titolo, “The Gospel of Wealth”, (Il Vangelo della ricchezza) dove sono illustrati i principi della filantropia d’impresa. L’affermazione, rimasta celebre, di Carnegie, «l’uomo che muore ricco, muore in disgrazia» assai efficacemente sintetizza la sua filosofia di vita. Un aspetto peculiare che la filantropia d’impresa ben presto assume nel contesto americano è l’utilizzo dello strumento giuridico della fondazione e, più genericamente, della forma non-profit per dare attuazione concreta alle opere sociali dell’imprenditore filantropo. Infatti, la maggior parte delle organizzazioni non profit, negli USA, è stata creata da imprenditori capitalisti. Nel 1864, J.H. Dunant fonda la Croce Rossa e successivamente la “Worlds Young Men’s Christian Association”. Nel 1892, J. Muir costituisce il celebre Sierra Club. Più recentemente M. Brown e A. Khazei fondano il “City Year”, per promuovere tra i giovani il servizio nazionale; W. Kopp dà vita al “Teach for America” per recuperare allo studio gli studenti svantaggiati, e così via.
Quali sono i benefici per un’azienda che adotti strategie di RSI, ad esempio in relazione ai rapporti di lavoro?
Non è per caso che alla base di tutti i grandi corporate scandals dell’ultimo ventennio troviamo un uso eccessivo di schemi di incentivo. Come B. Frey e M. Osterloh (“Yes, managers should be paid like bureaucrats”, CES WP 1379, dic. 2004) documentano, a partire dal 1980 gran parte delle remunerazioni attribuite ai dirigenti d’impresa è stata legata a stock options. Nel 1970, un CEO americano guadagnava 25 volte di più di un lavoratore dell’industria. Nel 1996, il medesimo rapporto era salito a 210 e nel 2005 a 500. Eppure, la performance delle imprese guidate da questi dirigenti non è aumentata nella medesima proporzione. Al contrario, sono ben noti gli effetti perversi: esasperato corto-termismo, aumento delle diseguaglianze, diminuzione dei livelli di produttività. Tanto che Michael Jensen, il grande teorico sostenitore degli schemi di incentivo, è stato costretto dalla realtà ad ammettere che «le stock options si sono dimostrate eroina manageriale» (“On CSR”, The Economist, Nov. 16, 2002). Né è per caso che le più accreditate ricerche empiriche di economia della felicità ci informino che le pratiche di RSI aumentano significativamente il livello di benessere soggettivo delle persone, assai più degli aumenti delle remunerazioni. A scanso di equivoci, faccio qui riferimento a pratiche effettive di RSI, non alle vuote declamazioni retoriche. Per limitarmi ad un esempio recente, tristemente balzato agli orrori della cronaca, la multinazionale tedesca della siderurgia Tyssen Krupp - che ha acquisito lo stabilimento di Torino dall’IRI nel 1994 - da anni ha avviato un piano di RSI controllato da due fondazioni di impresa a carattere filantropico. «Accendere l’entusiasmo dei nostri dipendenti è il nostro fine» - così si legge nel sustainability commitment della multinazionale. Eppure, in 13 anni, quest’impresa non ha adottato quei sistemi di sicurezza che avrebbero certamente evitato la tragedia del dicembre 2007.
In che misura l’adozione di strategie di RSI si inserisce nel percorso evolutivo del ruolo del consumatore?
V’è un secondo cogente argomento a difesa della tesi per cui la RSI è una strategia sostenibile per l’impresa che decide di porla in pratica. Esso ha a che vedere con la responsabilità sociale del consumatore. La figura del consumatore come ricettore passivo delle proposte d’acquisto che gli vengono dalla produzione va cedendo il passo alla figura del consumatore critico o etico. Si tratta di un soggetto che, con le sue decisioni d’acquisto, intende contribuire a “costruire” l’offerta di quei beni e servizi di cui fa domanda sul mercato. Non gli basta più di prestare attenzione al solo rapporto qualità-prezzo; vuole anche sapere come quel certo bene è stato prodotto e se nello svolgimento della sua attività l’impresa ha violato i diritti fondamentali dei suoi dipendenti o ha danneggiato in modo irreversibile l’ambiente. Si prenda il caso, ormai classico, della multinazionale Nike. Dopo che alcune associazioni di consumatori avevano denunciato lo scandalo del lavoro minorile e mal pagato in India e Pakistan, il titolo Nike precipitò dai circa 66 dollari dell’agosto 1997 ai 39 del gennaio 1998, e ciò in conseguenza di una ben orchestrata campagna di boicottaggio (esperienze analoghe sono capitate alla Reebok e alla Nestlé). Ma v’è di più.
Recenti indagini di mercato hanno evidenziato come l’80% dei consumatori europei si dichiari propenso a favorire lo sviluppo di imprese impegnate seriamente sul fronte della RSI. E il 72% dei consumatori italiani intervistati ha dichiarato che pagherebbe un prezzo più elevato per i beni che acquista se avesse certezza che le imprese in gioco si sottopongono alla certificazione sociale (del tipo Social accountability, SA 8000) e si impegnano in iniziative socialmente rilevanti. E il 55% delle persone è disposto a fare “l’evangelizzatore” della marca che dimostra di impegnarsi in modo socialmente responsabile.
Cresce progressivamente tra le imprese italiane la diffusione degli strumenti di RSI (codice etico, bilancio sociale, certificazione sociale, ecc.); tuttavia, non sempre l’assunzione di un qualche strumento di responsabilità sociale si inserisce in un progetto di gestione per una condotta etica globale.
Da tempo la RSI è un tema sotto attacco. I suoi detrattori non mancano di dire che si tratta di un’operazione di mera cosmesi. Per costoro, la RSI sarebbe nulla più che una tassa che il top management deve pagare alla società per apparire virtuoso e accrescere il proprio capitale reputazionale. Più sottilmente, una delle critiche maggiormente devastanti rivolte alla RSI è che questa serve da paravento per consentire ad imprese senza scrupoli morali di eliminare dal mercato rivali o di ridurne la forza competitiva. In breve, l’argomento è il seguente. Si assuma che sul mercato operino imprese opportuniste ed imprese intrinsecamente motivate verso la RSI e che i consumatori critici, oggi in aumento ovunque, siano disposti a premiare le seconde e a sanzionare le prime. Può allora accadere che imprese opportuniste decidano di comportarsi inizialmente in maniera ancora “più etica” delle altre allo scopo di marginalizzarle sul mercato e di tornare poi a comportarsi alla vecchia maniera. Chiaramente eventualità del genere saranno tanto più probabili quanto più le istituzioni pubbliche interverranno offrendo favori alle imprese che accettano di conformarsi alle linee guida della RSI da esse fissate. In questi casi, la RSI diventerebbe un modo per fare crowding out, per spiazzare cioè le imprese virtuose ed accrescere la rendita monopolistica di quelle senza scrupoli. Un’ulteriore critica rivolta alla RSI è che i comportamenti socialmente responsabili possano occultare un pericoloso trade-off, quello tra impegno morale e impegno sociale. Come sappiamo, la logica specifica della RSI è quella di rifiutare la celebre dicotomia di J.S. Mill tra leggi della produzione e leggi della distribuzione della ricchezza. Non è socialmente responsabile l’impresa che, mentre produce ricchezza, non guarda troppo per il sottile alla difesa dei diritti umani, al rispetto e all’integrità morale delle persone, e diventa compassionalmente generosa nel momento della distribuzione della ricchezza prodotta. Gli accennati casi storici di A. Carnegie e di J.D. Rockefeller negli USA di fine Ottocento sono esempi eloquenti di cosa significhi, nella pratica, accettare la dicotomia milliana. Ebbene, il pericolo è che con il social commitment, falsamente confuso con la RSI, manager cinici possano coprire l’assenza di scrupoli morali. E poiché la capacità di donazioni filantropiche è correlata alle dimensioni di impresa, potrebbe accadere che i grandi gruppi riescano, più facilmente dei piccoli, a “comperarsi” la reputazione ritenuta necessaria, salvo mutare strategia quando il contesto competitivo diventasse particolarmente severo.
Il radicarsi della responsabilità sociale nelle strategie gestionali delle imprese induce le stesse verso l’assunzione di comportamenti proattivi, con un coinvolgimento diretto nelle politiche sociali. Si propone un nuovo modello definito “Corporate Social Commitment”.
La ragione fondamentale per la quale l’impresa può essere ritenuta un soggetto morale è che essa non può legittimarsi solo perché produce ricchezza. Quale ricchezza e, soprattutto, come essa è prodotta sono questioni ineludibili. Un esempio, per tutti. Si consideri il normalissimo rapporto di lavoro fra impresa e lavoratore. Esso può assumere le caratteristiche dello “scambio sociale” oppure dello “scambio di mercato”. Nel primo intervengono elementi immateriali quali fiducia, lealtà, onestà, attaccamento al lavoro che non sono contrattabili perché non verificabili. Eppure, fa grande differenza ai fini della performance economica dell’impresa che il rapporto di lavoro sia dell’uno o dell’altro tipo. Ora, è evidente che il lavoratore accetterà di entrare in uno “scambio sociale” solo se la controparte, cioè l’impresa, gli apparirà come soggetto morale, capace di “reciprocare”, nella pratica, valori come la fiducia, la lealtà, l’onestà, l’attaccamento al lavoro e così via.
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