L’impresa È piÙ forte
se forte È la sua coscienza di luogo Professore, in che misura oggi l'etica è capace di incidere sulle decisioni aziendali?
Per ragionare di etica nel mondo dell'impresa credo si debba partire dalla massima weberiana - scritta nella Costituzione di Weimar - secondo la quale “la proprietà obbliga socialmente”, ovvero chi è proprietario di un mezzo di produzione ha degli obblighi non solo nei confronti dei propri lavoratori, ma anche rispetto al territorio in cui la produzione insiste. Questa massima, valida nel Novecento in questi precisi termini, oggi va adattata al nuovo capitalismo italiano dove il problema di proprietà non corrisponde più al possesso fisico di una fabbrica, ma di una rete, di un insieme di intelligenze. Nel Novecento infatti chi era proprietario doveva restituire in termini di salari opportunità di benessere a quanti lavoravano in fabbrica, oggi che la fabbrica tradizionale non esiste più sono per lo più le reti, le banche e il terziario a “farla da padrona” e ad essere in obbligo rispetto al territorio. Oggi come ieri rimane il fatto che l'élite economica è tenuta a “rendere conto”. Chi è orientato a fare impresa ha una regola di fondo che ispira il suo lavoro: il profitto. Questa logica da sola però non è sufficiente. Occorre “temperarla”, prendendo come soggetti di riferimento non solo i lavoratori ma soprattutto il territorio.
L'etica così si inserisce nei grandi processi di impresa e diventa centrale il rapporto con la comunità in cui l'impresa vive e opera, secondo cui l'impresa vede nell'aiutare lo sviluppo autonomo ed endogeno della comunità uno dei fattori imprescindibili per la sua stessa crescita.
L'impresa non è solo un attore economico e deve mettersi in ascolto del territorio?
L'impresa deve fare uno sforzo maggiore soprattutto laddove le condizioni di contesto non sono delle migliori. Questo vuol dire che più il territorio ha una cultura poco etica, più l'impresa deve fare da volano rispetto a questa.
Un'azienda etica è quindi più capace di creare valore? L'etica non è un concetto valido di per sé. Bisogna stare molto attenti a codificare l'etica senza prima territorializzare l'impresa, senza aver quindi individuato con esattezza il tipo di capitalismo che ne presiede le scelte. A tal proposito vale la pena ricordare che non esiste un capitalismo universalmente valido, quanto piuttosto diverse accezioni e tipologie. Esiste un capitalismo anglosassone molto orientato alla finanza che ha il suo luogo simbolico nella “City” di Londra. L'etica in questo caso coincide con la correttezza finanziaria. C'è poi un capitalismo renano fatto di grandi banche, grandi imprese e grande sindacato che insieme fanno cogestione al vertice. Attraverso la cogestione tra grande impresa, grande banca e grande sindacato questo tipo di capitalismo consente alla comunità economica che lo realizza di raggiungere una coesione sociale e un controllo della società sull'impresa molto elevati, ma di certo non riproducibili oltre la cornice fordista. In questi ultimi anni, poi, si è fatto avanti un capitalismo anseatico - geograficamente localizzato nei paesi compresi tra la Svezia e la Finlandia - rappresentato emblematicamente dalla Nokia capace di creare grande innovazione tecnologica, grandi investimenti e grandi reti. Qui la coesione sociale sta in un rapporto equilibrato tra capacità innovativa di grandi corporations capaci di puntare su fattori chiave come intelligenze, conoscenza, creatività e forte welfare statale. Nessuno di questi modelli di capitalismo ci appartiene, neanche quello francese, basato sulla centralità dello Stato.
Il nostro è tipicamente un capitalismo di territorio, che necessita di una vera responsabilità sociale da parte di quello che è il nuovo attore economico in ascesa, un capitalismo delle reti che per sua natura si trova a cavallo tra flussi del mercato globale e la responsabilità verso l'economia e la qualità del vivere dei territori. La proposta dell'Associazione degli Industriali di Salerno di coniugare l'etica mettendo in piedi una “Confindustria militante” che fisicamente va sul territorio a visitare le imprese, ad ascoltare di cosa queste hanno bisogno, mi pare un modo efficace di applicare l'etica, capace di creare un rapporto stretto tra la dimensione della rappresentanza e la crescita culturale dell'impresa e del territorio tutto.
Secondo lei si dovrebbe pensare a forme di incentivazione o di premialità per le aziende virtuose? No, affatto. Il motivo è semplice: dovrebbe essere naturale per un'impresa avere comportamenti etici come ad esempio pagare le tasse. Nei fatti ciò che è ovvio tale non appare, poiché è completamente saltato il rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. L'eticità dovrebbe essere compresa nelle regole che l'impresa si dà e non in quelle che la stessa impresa è obbligata ad osservare. Essere orientati a una cultura della responsabilità sociale non equivale soltanto a redigere un ottimo bilancio sociale che da solo non “mette al riparo”, ma certifica solo il conseguimento di alcuni adempimenti o il raggiungimento - talvolta fittizio - di alcuni obiettivi. Basti pensare che in America uno dei migliori bilanci sociali era quello della Enron, percepita come un'impresa che aveva costruito un marketing della propria immagine, ma di fatto il suo comportamento era tutt'altro che etico. Credo che sia necessario, invece, un profondo ripensamento dell'etica dove centrale appare la “coscienza di luogo”. Infatti può dirsi etica quell'impresa che riesce mediare tra la “coscienza di classe”, cioè la consapevolezza dei propri interessi e della propria realizzazione economica, e la “coscienza di luogo”, cioè i sentimenti di appartenenza locale e di radicamento nel proprio contesto d'azione. È etica quindi quell'impresa che riesce a rapportarsi in modo positivo al territorio facendo da traino per lo sviluppo e la crescita dello stesso.
Direzione e Redazione: Assindustria Salerno Service s.r.l.
Via Madonna di Fatima 194 - 84129 Salerno - Tel. (++39) 089.335408 - Fax (++39) 089.5223007
Partita Iva 03971170653 -
redazione@costozero.it