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  Dicembre 2012

Articoli n° 05
GIUGNO 2012
PRIMO PIANO ECONOMIA - Home Page
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«Bisogna spostare la spesa pubblica verso i SETTORI piÙ produttivi»

La SPENDING REVIEW: cosa È, a cosa serve, come si dovrebbe fare

I DATI per una spending review SANITARIA in Europa

Diritti acquisiti, EQUITÀ e PRODUTTIVITÀ

Diritti acquisiti, EQUITÀ e PRODUTTIVITÀ

Il difficile equilibrio tra interessi legittimi, abitudini ingiustificate e la speranza in un Paese migliore


In Italia i soli interessi passivi che si pagano annualmente su un debito pubblico cresciuto
a dismisura assommano a circa il 5% del Prodotto Interno Lordo

Amedeo Sacrestano Dottore Commercialista in Angri e Roma

Si sta parlando moltissimo, in questi mesi, di spending review e CostoZero non si sottrae al confronto, dedicando al tema diversi approfondimenti. L'argomento è, purtroppo, alquanto "ostico" per i non addetti ai lavori ma occorre profondere il massimo dello sforzo possibile per "parteciparlo" a fasce quanto più estese della popolazione.
Dalla riforma del bilancio dello Stato, e dalla rimodulazione della sua spesa, dipendono variabili troppo importanti: l'equità sociale e intergenerazionale, prima di tutto; la speranza di un Paese migliore, con maggiori opportunità di benessere, serenità e ricchezza, in estrema sintesi.
Per questo motivo c'è bisogno di creare consenso politico intorno all'azione del governo che per la prima volta dopo decenni di vacui proclami sembra voler mettere mano concretamente alla questione.
Per comprendere di cosa stiamo parlando e per farlo con dati oggettivi chiunque può scaricare dal sito web del ministero dell'economia il "Documento di economia e finanza per il 2012", la cui lettura è consigliabile sia abbinata dagli "Elementi per una revisione della spesa pubblica", pubblicati dal Ministro Giarda l'8 maggio di quest'anno.
Le considerazioni che ne possono discendere sono, per certi versi, assolutamente sconcertanti ma delusione e preoccupazione aumentano ancor di più se si considera che l'analisi del governo stesso (nei citati documenti) è lucida ed efficace. I decisori politici sanno molto bene dove si annidano i problemi del Paese ma non hanno voglia (o forza) per affrontarli efficacemente.
É per questo che, più che manovre di finanza pubblica, sul tema della rimodulazione della spesa pubblica occorre alimentare e consolidare una nuova coscienza politica diffusa. Lo Stato "utilizza" e assorbe per le sue necessità poco più del 50% dell'intero Prodotto interno lordo nazionale. Il dato, in sé, dice poco o nulla: che sia poco o tanto non dipende dal valore assoluto della spesa ma dal suo livello di efficacia ed efficienza. In Svezia, si sa, la percentuale di spesa pubblica sul PIL (e il corrispettivo prelievo fiscale) è addirittura più elevata di quella italiana ma, come altrettanto noto, il livello dei servizi a disposizione dei cittadini é di gran lunga superiore. Nella cultura del paese scandinavo è demandata quasi totalmente all'istituzione pubblica la cura delle esigenze più o meno pregnanti del cittadino e, in tal senso, lo Stato vi risponde in maniera oculata ma pienamente soddisfacente.
Il bene pubblico è un valore riconosciuto e condiviso: la consapevolezza che un sistema complesso funziona bene solo se non trascura nessuna delle sue componenti e se governato efficacemente nella sua organicità è patrimonio di politici e cittadini, giovani e anziani, donne e uomini, senza distinzione di censo o impiego.
In Italia, la res pubblica troppo spesso viene ancora confusa e identificata con la res nullius.
Forse anche per questo (soprattutto per tale motivo) la connotazione della spesa pubblica ha assunto caratteri preoccupanti, non per dimensione ma per qualità della spesa. In Italia i soli interessi passivi che si pagano annualmente su un debito pubblico cresciuto a dismisura assommano a circa il 5% del Prodotto Interno Lordo.
Circa 80 miliardi di euro di tasse dei cittadini vengono spesi non per realizzare asili, scuole, strade, infrastrutture e creare servizi ma per pagare degli interessi ai creditori dello Stato, con un differenziale di tasso (il famoso spread) rispetto alla Germania di 4 punti percentuali (negli ultimi 12 mesi). Se si considera che per realizzare nuove infrastrutture ogni anno si spendono in media solo 32 miliardi di euro, il confronto è impietoso!
Il progresso è direttamente legato agli investimenti in infrastrutture fisiche e immateriali, oltre che in ricerca e sviluppo (dove, notoriamente, il nostro livello di spesa pubblica non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello dei paesi più sviluppati). Eppure, noi non "spendiamo" (o lo facciamo in maniera irrisoria) per queste finalità: continuiamo a privilegiare la "spesa corrente", quella con minori tasso di rendimento strategico, su quella in "conto capitale" (il 47,5% del PIL contro il 3% del PIL, questo è il rapporto).
In valore assoluto, nel 2011 l'Italia ha speso oltre 750 miliardi di euro per spesa corrente e solo 32 miliardi per investimenti! Dei primi, oltre 112 miliardi di euro sono stati spesi per la sola sanità: oggettivamente troppo, soprattutto se a confronto con la qualità delle prestazioni erogate in alcune regioni (soprattutto al Sud) dell'Italia, dove una singola prestazione costa mediamente il doppio, il triplo, il quadruplo, in alcuni casi 10 volte di più di ciò che costa dove (magari) viene erogata anche con un livello di soddisfazione molto maggiore.
É da queste consapevolezze che bisogna partire per alimentare una cultura popolare diffusa a sostegno della rimodulazione (in senso efficientista) della spesa pubblica.
Occorre che lo Stato spenda di meno e, soprattutto, meglio ma ciò non potrà avvenire senza una cultura dei controlli, soprattutto sociali e politici, prima ancora che tecnici. Tutti, per dare un futuro di speranza al Paese, devono "fare la propria parte", aumentando il livello di produttività e competitività del nostro sistema economico. Ogni singolo "operatore del sistema" deve comprendere che il suo destino non è (e non può essere) slegato da quello di chi gli vive accanto, di chi condivide con lui la stessa fabbrica, lo stesso quartiere, la stessa "spesa pubblica" (tanto per restare in tema di spending review).
E allora, forse, si comprenderà che solo se "tutti pagano le tasse" si potranno "pagare meno tasse", che il livello di efficienza della spesa pubblica ci riguarda, interessa noi e, soprattutto, il futuro delle nuove generazioni e dei nostri figli. La spending review riguarda tutti noi: solo da questo processo potranno (e dovranno) essere reperite le risorse per "far ripartire il Paese" con investimenti in infrastrutture e tecnologie, ricerca e servizi più diffusi e di migliore qualità.
A proposito, sempre leggendo i documenti ufficiali citati all'inizio, si scopre che in Italia negli ultimi 10 anni la spesa per pensioni è aumentata vertiginosamente e quella per l'istruzione è calata progressivamente, con valori quasi perfettamente corrispondenti alla parte utile a compensare l'ascesa delle prestazioni pensionistiche. Anche questo è un paradosso, che rischia di alimentare ancora di più un pericoloso conflitto tra generazioni che oggi è drammaticamente in atto e sotto gli occhi di tutti.
Nel 2011, per prestazioni sociali (in larghissima parte, pensioni) sono stati spesi 305 miliardi di euro, a fronte di soli 216 miliardi di euro di contributi previdenziali incassati. Ciò significa (a grandi linee) che la differenza (gli 89 miliardi che mancano) sono stati coperti dalla fiscalità generale (ovvero dalle tasse).
Tutto ciò ha anche un'altra chiara (e oggettiva) chiave di lettura: poiché da alcuni anni quasi tutti i sistemi previdenziali nazionali hanno abbracciato la regola del contributivo (che prevede una pensione calcolata esattamente in funzione di quanto si è versato durante l'intera vita lavorativa) se oggi si pagano più pensioni rispetto ai contributi incassati ciò avviene perché qualcuno (chiaramente) sta incassando pensioni molto più alte di quanto non abbia versato durante la sua vita lavorativa.
In altri termini, se oggi si incassano 200 e si spendono 300 per pensioni (e ciò non potrà più avvenire in futuro) è perché 100 sono coperti dalla tasse (e, dunque, da chi lavora, oltre che dagli stessi percettori di pensioni). Ciò, evidentemente, attribuisce un "vantaggio" ai pensionati attuali a scapito dei "pensionati futuri".
É ovvio che in un sistema sociale non si possono "tagliare le pensioni minime", ma quelle superiori ad una certa soglia (1.500/2.000 euro mensili) potrebbero essere ridotte sino a riportarle all'esatto livello del montante contributivo accumulato dal pensionato. Così facendo, oltre a ristabilire una più chiara equità tra generazioni, si intaccherebbe una parte consistente della spesa del bilancio dello Stato (oltre il 38% a valori 2011) e potrebbe concretizzarsi (su numeri certamente più consistenti di quelli in discussione) una spending review utile a dare un futuro al Paese e ai suoi giovani, inscindibilmente legati nel loro destino.

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