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  Dicembre 2012

Articoli n° 03
APRILE 2011
 
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STOP ai pagamenti a rilento: una risposta alla crisi a favore delle aziende europee

TRIPOLI: «Bisogna sostenere il valore, anzitutto civile, dell'imprenditorialitÀ»

VIGNALI: «Entro l'estate lo Statuto delle Imprese sarÀ legge»


VIGNALI: «Entro l'estate lo Statuto delle Imprese sarÀ legge»

Lo Stato pretende puntualità da parte delle imprese e dei cittadini per gli adempimenti amministrativi e fiscali; se vuole essere credibile, deve comportarsi in modo analogo


di Raffaella Venerando

Raffaello Vignali
Primo firmatario Statuto delle Imprese

Onorevole Vignali, la Confindustria chiede da tempo riforme a costo zero che facilitino la vita di quanti hanno scelto di fare impresa nel nostro Paese. Lei ha risposto all'appello del mondo imprenditoriale con il suo "trasversale" Statuto delle Imprese che, approvato il 15 marzo dalla Camera in prima lettura e a breve al vaglio del Senato, se diventerà legge consentirà molte agevolazioni specie per le Pmi. Ci riassume la genesi, i contenuti e gli obiettivi della sua iniziativa?
Alla base della proposta c'è la necessità di dare attuazione al primo comma dell'art. 41 della Costituzione, non a caso il titolo esatto è "Norme per la tutela della libertà d'impresa Statuto delle imprese".
Lo Statuto mira al riconoscimento del valore economico e sociale delle aziende, a promuovere un contesto normativo, sociale e culturale favorevole all'impresa e a rendere le pubbliche amministrazioni più attente alle esigenze delle Pmi.
Intende anche recepire i principi dello Small Business Act dell'Unione Europea.
É paradossale: siamo il Paese con il più alto tasso di imprenditoria del mondo, ma siamo anche uno di quelli in cui è più difficile fare impresa.

Lo Statuto delle Imprese introduce tra gli altri anche il sistema di silenzio‑assenso nei rapporti con la pubblica amministrazione. Una svolta di non poco conto in termini di velocizzazione della macchina burocratica…
Il freno maggiore agli investimenti produttivi, sia interni che esteri, in Italia è dato dalla farraginosità delle norme, dalla sovrapposizione delle funzioni tra enti pubblici, dai tempi lunghi e indefiniti della burocrazia e dall'eccessiva discrezionalità dei funzionari. In questi due anni e mezzo Governo e Parlamento hanno lavorato moltissimo per semplificare (riforma dello sportello unico, agenzie per le imprese, scia, ecc.), ma occorre fare di più. Non solo è indispensabile introdurre il silenzio assenso sistematico, senza possibilità di rinvii infiniti, ma anche prevedere come fa lo Statuto che la PA non possa addurre come motivazione una propria inadempienza (ad esempio, "non abbiamo ancora fatto il tale piano").
Lo Stato pretende puntualità da parte delle imprese e dei cittadini, sia per gli adempimenti amministrativi sia per quelli fiscali; se vuole essere credibile, deve comportarsi in modo analogo. Purtroppo, quello che servirebbe davvero per velocizzare è una dimensione che nessuna legge può imporre: la responsabilità. Ogni amministratore, ogni funzionario pubblico quando riceve una richiesta da parte di un'impresa dovrebbe pensare che ciascun giorno di ritardo significa negare Pil al Paese e, soprattutto, occupazione ai cittadini che non hanno lavoro.

Ma la filosofia del piccolo è bello alla base dello Statuto delle Imprese non va in contrasto con le politiche degli ultimi anni promosse dalle associazioni di impresa, fondate essenzialmente sulla cultura delle reti e delle alleanze tra aziende per contrastare la concorrenza internazionale?
Di questo ho parlato a lungo con Vincenzo Boccia, Presidente della Piccola Industria di Confindustria. Alla base non c'è il "piccolo è bello". Semmai ci sono altri due giudizi: "impresa è bella" e "piccolo è quello che c'è".
Se in Italia ci fossero mille grandi imprese in più, sarei naturalmente felicissimo perché le grandi imprese sono driver di innovazione e di internazionalizzazione, così come sono la "nave scuola" delle nuove imprese. Ma non possiamo sognare un Paese che non c'è.
Dobbiamo partire da quello che esiste, ovvero dal fatto che il 99% delle nostre imprese sono piccole. Ad esempio, non è più possibile fare norme per le imprese tagliate sulla misura delle grandi e pretendere che vengano applicate a tutte nello stesso modo. L'ottica dello Statuto è un'altra: mettere le imprese che vogliono crescere in grado di farlo.
Lo Statuto insiste anche sulle reti d'impresa, che sono un modo di aumentare la dimensione delle imprese senza che debbano necessariamente fondersi. I nostri imprenditori sono sì individualisti, ma non sono certo "darwiniani": con la crisi e, prima ancora, con la globalizzazione, hanno recuperato una cultura d'impresa tipicamente italiana, quella della collaborazione, che ha segnato storicamente il modello dei distretti. Insomma, hanno compreso che è necessario "con‑correre per competere": correre insieme per un obiettivo comune.

La svolta forse più importante della sua proposta di legge è di tipo culturale: si prova ad abbattere quel muro di diffidenza che spesso circonda chi decide di investire e rischiare nel nostro Paese. P
urtroppo in Italia è prevalsa una cultura negativa dell'impresa e la prova di questo è evidente nelle norme che regolano le attività economiche: non sono pensate, come dovrebbe essere, per la "fisiologia", vale a dire per la stragrande maggioranza di imprenditori onesti, ma per prevenire le presunte patologie. Il presupposto è che l'imprenditore sia un potenziale truffatore, evasore, sfruttatore, inquinatore e via denigrando. Così si affida alla norma un compito che non è della legge, ma del sistema dei controlli. Per usare una metafora: le norme per le imprese dovrebbero essere autostrade con più corsie, fatte per andare veloci (come richiede la competizione nell'economia globalizzata), con sistemi di controllo efficaci (quali il tutor e la polizia stradale) e non strade a senso unico, strette, tortuose, con semafori e dossi. Un'altra prova della diffidenza verso l'impresa è che nelle nostre università non esistono corsi di laurea in imprenditoria. Se vogliamo imboccare la strada di un rinnovato sviluppo, dobbiamo passare dal sospetto alla fiducia. E i nostri imprenditori hanno abbondantemente dimostrato di meritarla.

Una proposta simile, ma molto meno articolata, era stata avanzata anni addietro da un suo collega, l'onorevole Capezzone, quando lanciò la proposta di legge che consentiva l'apertura di un'impresa in soli sette giorni. Il provvedimento poi non vide mai la luce definitiva. Non teme che anche la sua proposta possa finire nel novero dei proclami non mantenuti?
In realtà la proposta dell'amico Capezzone non è stata inutile: è stata la base per un provvedimento inserito nel primo decreto del Governo Berlusconi, quello sull'"impresa in un giorno", che ha riformato lo Sportello unico delle attività produttive e ha creato le agenzie per le imprese (una sorta di "Caaf" per le pratiche burocratiche). Lo Statuto nasce come iniziativa parlamentare sottoscritta da quasi 150 deputati, di entrambi gli schieramenti, e gode pure del pieno appoggio del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e del Ministro per lo Sviluppo economico Paolo Romani. É già stato approvato dalla Camera in prima lettura il 15 marzo scorso (all'unanimità con 520 voti a favore, nessun contrario e nessuna astensione) e ora andrà in discussione al Senato. Entro l'estate sarà legge. L'approvazione all'unanimità da parte della Camera è stata un segnale importante, perché il benessere di cui il Paese gode lo deve al merito di chi, ogni giorno, rischia in proprio e del proprio. Inoltre attorno allo Statuto sono cresciuti il consenso e il sostegno di tutte le associazioni delle imprese, con cui abbiamo lavorato a stretto fianco. In particolare Vincenzo Boccia, Presidente della Piccola Industria per Confindustria, ha definito l'approvazione dello Statuto «un grande segnale di attenzione alle pmi. Positiva è l'unanimità raggiunta sul provvedimento perché è la prova che di fronte a temi che riguardano lo sviluppo del Paese le forze politiche sono capaci di superare gli antagonismi e recepire le istanze del mondo della piccola e media impresa». Il Parlamento ha quindi dimostrato di non essere sordo, soprattutto quando la società parla chiaro e con una voce sola.

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