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  Dicembre 2012

Articoli n° 01
GENNaio/febbraio 2010
 


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La lunga e infinita storia
della riforma fiscale


Tante, troppe tasse per cittadini e imprenditori nel nostro Bel Paese

Alessandro Sacrestano
Componente Gruppo Giovani Imprenditrori di Confindustria Salerno
alessandro.sacrestano@progettoarcadia.com

Di riforma fiscale si parla con una costanza divenuta ormai insopportabile, soprattutto se si considera che raramente alle discussioni si accompagnano poi delle politiche effettive.
Ad ogni tornata elettorale (di qualunque portata sia) si succedono considerazioni, di diverso taglio, sull’opportunità di intervenire in una direzione o in un’altra o, addirittura, se sia il caso di intervenire o meno.
La sensazione è che, allo stato, oltre allo spazio per le “chiacchiere”, rimanga ben poco per sperare in un intervento legislativo che metta mano ad un progetto di riforma fiscale che sia degno delle aspettative che si sono create.
Opportunamente il Ministro Tremonti sostiene che la riforma ci sarà, e che il taglio delle tasse sarà solo consequenziale; tuttavia, perché ciò avvenga, è necessario che ci sia prima la sperata ripresa economica, altrimenti non se ne può fare nulla.Personalmente sono tra quelli che ritengono che una riforma fiscale non solo sia opportuna, ma quanto mai necessaria. Del resto, se le sacche di evasione lungo tutto il Paese (e non solo nel Mezzogiorno!) sono così ampie come ci dicono (e come è legittimo credere), è sintomo che deve pur esserci qualcosa che non funziona.
Quello che non va, in ogni caso, non può essere identificato solamente nell’organizzazione dell’amministrazione o nei controlli. Evidentemente, infatti, è nei principi che regolano il nostro apparato normativo tributario che qualcosa non gira.Luigi Einaudi, in un’occasione, scrisse che «faremmo bene a perdere l’illusione di addivenire ad una vera giustizia tributaria».
Potrebbe non avere avuto tutti i torti.
Quello che però, come dato di fatto, rimane, è che il senso di identificazione sociale appare un elemento troppo labile per continuare a sperare che da solo contribuisca ad una adesione cieca all’obbligo di pagare sempre tutto quello che viene richiesto.
La pressione fiscale identifica il rapporto tra le tasse incassate dallo Stato e la ricchezza prodotta dal Paese (Pil). In pratica, quanti soldi in media ciascun cittadino deve versare allo Stato in proporzione al proprio reddito/ricchezza. Ebbene, nel 2009 la pressione fiscale in Italia, secondo proiezioni, dovrebbe essersi aggirata attorno al 43%, eguagliando il dato rilevato nel 2007.
Qualcuno obietterà che, nella classifica europea, l’Italia si trova dietro alla Danimarca, che ha una pressione fiscale del 48,7% del Pil, alla Svezia che ha una pressione fiscale del 48,3%, al Belgio (44%) e alla Norvegia (43,6%). Tuttavia, mi sembra che il Bel Paese abbia molto da invidiare alle nazioni citate in quanto a qualità della vita.
In particolare, l’Italia è al primo posto per le tasse sul lavoro (44%, contro una media UE-27 del 24,4% e UE-16 del 34,3%), è terz’ultimo posto per le tasse sui consumi (17,1%, contro una media UE-27 del 22,2% e UE-16 del 21,5%), a metà classifica per le tasse sui capitali (36,2%, contro una media UE-27 del 28,7% e UE-16 del 29,8%).
Per quanto riguarda l’imposta sul reddito in Italia l’imposta sul reddito delle persone fisiche ha raggiunto nel 2007 il 44,9%, contro una media UE-27 del 39,1% e una media UE-16 del 42,1%. L’imposta sul reddito delle società ha raggiunto in Italia, nel 2009, il 31,4% (il 9,9% in meno rispetto al 2000) contro una media UE-27 del 23,5% e una media UE-16 del 25,9%.
Sono solo numeri. Ma anche segnali.
Indicazioni che qualcosa (quando non è dato ancora sapere) deve essere necessariamente implementato. Altrimenti, non ci resterà altro che seguire l’esortazione del buon vecchio Celli…e riprendere la nostra cara valigia di cartone, e andare a trovare fortuna in qualche posto dove capacità, intuizione e sacrificio sono ripagate un po’ meglio.

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