Equo (s)compenso
Il provvedimento del Ministro Bondi rischia di penalizzare l’innovazione realizzata
dalle aziende italiane a vantaggio di quella fatta nei Paesi emergenti
Roberto Triola
Esperto di diritto e tecnologie
Il 30 dicembre 2009, il Ministro Bondi ha firmato un decreto con il quale si stabiliscono le novellate misure del cosiddetto “equo compenso” di cui all'art. 71-septies della Legge 22 aprile 1941 n. 633. Si tratta di un provvedimento che sta facendo molto discutere sia per le modalità, sia per la filosofia che lo ha ispirato.
Tutto nasce dal decreto legislativo n. 68/2003 con cui è stata recepita nell’ordinamento italiano la direttiva comunitaria 2001/29/CE sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione. In realtà il diritto del consumatore persona fisica a realizzare la copia privata di un’opera protetta regolarmente acquistata, dietro il pagamento di un equo compenso ai titolari dei diritti d’autore, era già stato sancito dalla Legge 5 febbraio 1992 n. 93. Tuttavia il recepimento della direttiva aveva introdotto un regime temporaneo di 3 anni modificando la disciplina in materia di compenso per la riproduzione privata per uso personale di fonogrammi e videogrammi.
I presupposti giuridici sono chiari: il diritto di copia privata (che non è previsto per peraltro da tutti gli ordinamenti giuridici) appartiene a colui che ha già pagato i diritti d’autore per fruire dell’opera regolarmente acquistata, ma in cambio di una remunerazione aggiuntiva che va al titolare dei diritti d’autore. Rimane da capire come si struttura questo “equo compenso”.
A cosa si applica in concreto il cosiddetto equo compenso?
Il decreto legislativo 68/2003 stabiliva, introducendo nella legge sul diritto d’autore l’art. 71-septies, che il compenso è dovuto (con modalità di calcolo diverse) per:
- apparecchi esclusivamente destinati alla registrazione analogica o digitale (di fonogrammi o videogrammi);
- apparecchi polifunzionali;
- supporti di registrazione audio e video (CD, DVD, memorie);
- sistemi di videoregistrazione da remoto (novità introdotta dalla Legge 31/2008).
Individuato a cosa si applica l’equo compenso lo stesso decreto legislativo 68/2003 stabiliva, all’art. 39, come questi compensi andavano calcolati sulle diverse tipologie di apparecchi e supporti, seppur in modo temporaneo, in attesa dell’emanazione di un decreto del Ministero dei Beni Culturali cui lo stesso art. 71-septies comma 2, delegava il compito di intervenire in materia.
Oggetto della delega che la Legge affida al Ministero è quindi esclusivamente la determinazione della misura del compenso dovuto e non l’individuazione di nuovi apparati. Con il nuovo regime voluto dal Ministro Bondi, invece, vengono inclusi nelle categorie dei prodotti soggetti all'imposizione anche computer, cellulari e decoder.
Un primo profilo di critica al Decreto Ministeriale, quindi, è che sia stato esercitato un eccesso di delega.
Vero è che all’interno della categoria “apparecchi polifunzionali” è possibile ricomprendere gli apparati individuati dal nuovo Decreto Ministeriale, ma è quantomeno “scivoloso” sostenere che si debba pagare per tutti i telefonini, dal momento che molto difficilmente un utente userà il telefonino per “caricarlo” e ascoltare le copie private di brani musicali digitalizzati regolarmente acquistati, ad esempio via computer.
Allo stesso modo perché sottoporre tutti i PC al pagamento dell’equo compenso per la copia privata? È assai improbabile che un lavoratore usi il computer professionale a questi scopi (pensiamo a tutti i PC che vengono acquistati dalle p.a.), anche perché è fatto divieto di usare i mezzi informatici aziendali a fini privati. E di nuovo come per i telefonini, è quantomeno dibattuto che si debba pagare un prezzo fisso per un apparecchio che non verrà mai usato per fare copie private di opere tutelate dal diritto d’autore.
Insomma, un conto è assicurare un ragionevole e proporzionato compenso agli autori, in rapporto al consumo di una singola opera o di una sua parte; tutt'altro conto è istituire un prelievo forzoso (giacché non si tratta di una vera e propria tassa) sugli strumenti con cui queste copie vengono poi materialmente riprodotte, anche indipendentemente dalla effettiva utilizzazione o destinazione d'uso di tali apparecchi, presumendo che comunque servano o possano servire allo scopo. Perché mai si deve pagare di più per un cellulare, se lo si adopera solo per telefonare, inviare e ricevere messaggi o scambiare posta elettronica? E quand’anche si utilizzasse l’apparecchio mobile per ascoltare brani legittimamente scaricati dopo averne pagato le apposite licenze d’uso (come consentono alcune applicazioni) perché si dovrebbe pagare una copia privata che non verrà mai realizzata? E per quale motivo il PC e la “pennetta” devono costare di più, se si utilizzano soltanto per scrivere e memorizzare i documenti di lavoro?
Un secondo profilo di critica riguarda un tema a lungo dibattuto, ma mai risolto, tanto che il Ministro si è limitato a fare una sola audizione prima di emettere il decreto: il rapporto tra i titolari dei diritti d’autore (o le loro organizzazioni associative) e le imprese produttrici di tecnologie e servizi innovativi (o le loro organizzazioni associative). Perché invece di un decreto ministeriale non si favorisce una delegificazione, promuovendo accordi tra le parti e codici deontologici, poi eventualmente ratificati da un decreto?
Un terzo profilo di critica riguarda, infine, il rapporto tra diritto e tecnologie. Perché invece di procedere a continue modifiche di una legge risalente ormai a 70 anni fa, quella sul diritto d’autore, non si realizza un testo unico che recepisca le novità tecnologiche e di mercato?
In tutto il mondo, l'industria dei contenuti sta trovando soluzioni per vendere i prodotti editoriali sulle nuove piattaforme di distribuzione, e la copia privata sta diminuendo progressivamente a vantaggio dell'acquisto diretto e della contestuale fruizione dei contenuti digitali sui nuovi dispositivi (in Italia nell’ultimo anno il valore della musica acquistata in streaming è aumentato del 65% sul PC e del 21% sui telefonini).
In un’epoca in cui tutto si sta spostando sulle “nuvole” di internet (tanto per citare il nuovo modello di rete che Google sta disegnando), in cui non c'è più alcun bisogno di masterizzare alcunché perché il web stesso è pieno di servizi che consentono di fruire dei contenuti da hard disk virtuali accessibili da qualunque parte del mondo, in qualunque momento e con qualunque dispositivo, senza dover quindi realizzare copie private, un decreto del genere avrà l’unico risultato di penalizzare l’innovazione realizzata dalle aziende italiane a vantaggio di quella fatta nei Paesi emergenti. Il rapporto tra protezione dei diritti d’autore ed evoluzione delle tecnologie richiede, quindi, una riflessione molto più approfondita di un decreto ministeriale che sancisce un travaso forzoso stimato tra i 120 e i 200 milioni di euro l’anno dall’industria dell’hi-tech all’industria dei contenuti (con aumento compreso tra il 100 e il 330 per cento rispetto all’attuale raccolta pari a circa 60 milioni di euro). Considerando che il 50% del prelievo per equo compenso finisce all’industria editoriale e della distribuzione (l’altro 50% va agli autori) e calcolando in 1 miliardo circa il giro d’affari delle imprese discografiche e dell’home video, ne consegue che il decreto ministeriale aumenta artificialmente di un 10% ca. gli incassi delle imprese dei contenuti. Un valore del tutto spropositato rispetto alle dinamiche reali di mercato.
Si crea, quindi, per decreto, una sorta di equo “scompenso” tra un’industria e un’altra, per di più in una situazione di mercato non favorevole che ha visto il valore della produzione 2009 e soprattutto l’occupazione dell’hi-tech calare del 5% in ragione d’anno (30mila addetti in meno).
Per questo le associazioni di rappresentanza del settore ICT (Assinform e Asstel, ma anche la Federazione che le rappresenta, Confindustria Servizi Innovativi e Tecnologici) hanno chiesto con forza al Governo di sospendere immediatamente il decreto e aprire un vero confronto per modificare uno status quo che sfugge ad ogni ragionevolezza tecnologica e di mercato.
Ancora una volta l’intero settore hi-tech italiano, che attende invano da anni lo stanziamento di contributi concreti allo sviluppo e alla diffusione dell’innovazione nel Paese, rischia di essere penalizzato, insieme alle famiglie, alle imprese e alle P.A. che vogliono intraprendere un virtuoso percorso di digitalizzazione.
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