di Antonello Tolve
Critico d’arte
Il tramonto
dell’autore
Importante è ricordare, ma ancora più importante è dimenticare; attendere che le cose si riaffaccino sulla soglia della memoria come ricordo. È proprio tra le maglie del ricordo che si configura, ora, un lavoro deciso a dimenticare a memoria il proprio autore, a sottintenderlo e a nasconderlo dietro un fine ordito e una misteriosa fattura. Un’opera, per essere autentica, deve dimenticare il suo autore. Dal Disegno geometrico ai vari Senza titolo degli anni Sessanta. Da Vedo (1970) a Museo (1975), da Atto unico in tre quadri (1979) a La casa di Lucrezio (1984) per giungere, via via, alla luminosa autoreferenzialità delle nove stanze dell’Index o al Padiglione dell’Aurora (1998-99), il lavoro di Giulio Paolini - è di Paolini, appunto, che stiamo parlando - si configura lungo una linea meditativa che apre tematiche in cui l’opera vive al di là del suo autore, è oggetto e soggetto, rappresentazione e spettacolo d’un presente assoluto.
L’autore, per Paolini, è un attore, un deuteragonista silenzioso (ma anche timido esibizionista) che mira all’autosparizione per lasciare spazio ad uno spettacolo rivolto al presente dell’arte.
Critica d’arte che prende corpo, l’opera - nel disegno proposto da Paolini - è cifra estetica che parla di sé, azione e contemplazione, tractatus che raccoglie lo spazio e il tempo in una morsa che sovrastoricizza e si pone come rubrica enciclopedica dell’arte da fare e disfare in un ginepraio trasparente senza tempo e senza mura.
Il grand tour di Paolini, labirinto senza uscita che abita con destrezza gli spazi dell’arte e della storia, del frammento oftalmico e della classicità, naviga, adesso, sull’onda dell’attesa e della rivelazione, dell’epifania costante del tempo e sulla linea chiara, infine, della sovraterritorialità.
Con L’Ora X. Né prima né dopo, apparato visivo realizzato per la Sala della Meridiana - Museo Archeologico Nazionale di Napoli - è la durata a farsi nucleo di un discorso teso ad evidenziare un terrain vague in cui il tempo della realtà resta inafferrabile e, insieme, paradossalmente, ineludibile. Posizionate in forma circolare sull’asse della Meridiana, dodici opere presentano uno spettacolo in cui la vita è vista come una corsa frenata che non lascia spazio a dilazione ma si pone soltanto come visione diretta, intermittenza, silenzioso scorrere di rebus, arcane ambiguità. Interrogandosi sull’«enigma dell’ora, di qualcosa che non si manifesta ma si deposita sul fondo degli abissi del Tempo», Paolini aziona un macchinario estetico che fa del diastema temporale, la zona di rispetto tra l’opera, l’autore, il critico, il pubblico e la scrittura (conformazione pentagonale da slabbrare), per aspettare e ascoltare non solo il riaffacciarsi delle cose ma anche il loro mutare in nuove forme. In questo nuovo progetto lo spettatore - attore che coniuga il proprio tempo all’accadere dell’opera - non solo assiste a uno spettacolo ma compie, a sua volta, una esperienza temporospaziale, con la consapevolezza di commisurarsi con i personaggi e con gli attori muti che compongono la scena.
Lettura chiara e camera totalizzante dei sentieri della storia e della geografia, L’ora X di Paolini proietta e progetta un mondo misterioso legato ad una circolarità - ad una chiusura dell’opera nei recinti del presente - che si fa metafora felice del divenire dell’arte e della vita. Una vita che scorre e che ritorna all’originario mistero della creazione per coincide, infine, con l’infinita vanità del tutto. Tutto ora, appunto. «Tutto qui!».
Sopra e in alto: la mostra L’Ora X (Né prima né dopo) nelle immagini
fotografiche di Luciano Romano |