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  Dicembre 2012

Articoli n° 09
NOVEMBRE 2009
 


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Morandini: «L’unico antibiotico alla crisi si chiama crescita»

Nonostante la crisi gli italiani in tavola chiedono la migliore qualitÀ

Morandini: «L’unico antibiotico alla crisi si chiama crescita»


Dal Forum di Mantova il Presidente Piccola Industria di Confindustria
lancia il progetto T-Holding che subito incassa il plauso del ministro Scajola: «Da Morandini una proposta seria e importante»


di Raffaella Venerando

Giuseppe Morandini,
Presidente Piccola Industria


Lo scorso fine settimana, il Forum di Mantova ha conquistato l’attenzione di tutti: lei ha detto che le imprese che stanno soffrendo sono ancora molte. Lo scenario è davvero così pesante?

Se i prossimi due-tre anni saranno una sfida per il paese, la sfida della piccola industria saranno i prossimi sei mesi. Bastava sentire la voce della “curva” del palco di Mantova, con i protagonisti di alcuni dei motori forti del made in ltaly (elettronica, macchine utensili, legno/arredo e sistema moda) che hanno snocciolato cifre da capogiro, con perdite sul fatturato anche del 70%. La crisi, vista dai capannoni delle nostre aziende, non sembra mollare. Anzi. Come ha ben evidenziato anche il direttore del Centro Studi Confindustria, proprio dalle pagine del Sole24Ore di sabato mattina (24 ottobre, ndr), la crisi non è finita e la ripresa sarà lenta e densa di insidie, perché siamo ancora pienamente dentro le conseguenze della più violenta recessione degli ultimi ottant'anni, sia per gli effetti sui mercati del lavoro, che sulla ristrutturazione di interi settori in particolare del manifatturiero che è il più colpito dalla caduta della domanda.

Proprio a proposito di ripresa lei a Mantova ha detto di non sapere quando ci sarà, ma di avere qualche idea sul come e il dove. Ce la spiega?
Credo che la ripresa ragionerà per medie. Nel senso che ci saranno alcuni paesi che cresceranno più di prima e altri - come la cara vecchia Europa, se non si sveglia - che faranno fatica a ritornare ai livelli di partenza. Do tre numeri a caso: magari alcuni paesi cresceranno 3; altri 7; la media fa 5. È buona, indica crescita, ma per fare bilancio la piccola impresa è costretta a centrarla, questa media, distribuendo vendite e produzioni tra i paesi che crescono 3 e i paesi che crescono 7. Non solo. La ripresa sarà geograficamente lontana: dai paesi del Golfo in là, verso Cina, India, Brasile. Altro problema. Come ci arriva la piccola impresa su questi mercati, se non cambiando scala?

Cioè?
Viviamo in condizioni di straordinaria difficoltà e quello che fino a qualche mese fa poteva sembrare impossibile - come mettere assieme aziende - oggi diventa, forse, più probabile. Patrimonializzazione e sovracapacità produttiva, sono due problemi che purtroppo il mercato sa benissimo come risolvere. Ora, dobbiamo capire se vogliamo lasciare che la selezione la faccia il mercato, o proviamo a gestirla in proprio, cercando di salvare quante più aziende e posti di lavoro possibili. Credo sia il momento di tentare la seconda strada. Vede, quando un’azienda chiude, oltre ai valori patrimoniali, c’è un valore inestimabile di professionalità, di cultura del rischio e del sacrificio, di posti di lavoro, di storie di famiglie, di vite di persone che se ne vanno. Persi. Di questo io mi sento responsabile. E per questo ho sentito il dovere di proporre uno strumento con cui, volendo, possiamo costruirci una strada per il futuro.
Il progetto T-holding che ha presentato a Mantova. Una proposta «seria e importante», come l’ha definita lo stesso ministro Scajola.
Sì. Con l’Università di Perugia abbiamo fatto una rapida indagine sui bilanci di alcune aziende del nostro manifatturiero tradizionale. Dal campione è emerso che 1/3 delle imprese sta andando bene, 1/3 è in mezzo al guado, 1/3 sta soffrendo. Ci siamo concentrati proprio su questi ultimi, quelli che soffrono di più. E dalla simulazione fatta, è risultato che se 11 imprese “condannate” dal mercato si mettono assieme, 6 se ne salvano.

Come funzionano le T-holding?
L’imprenditore conferisce la proprietà dell’azienda alla T-holding e ne diventa socio, garantendosi un valore patrimoniale e liberandosi dalle garanzie personali. Poi, per quanto riguarda il capitolo finanza, si sta costituendo un fondo a capitale pubblico-privato con 2 miliardi di euro di disponibilità che investe solo ed esclusivamente in queste operazioni di aggregazione. Le T-holding hanno accesso diretto al Fondo di garanzia, il che garantisce loro nuove linee di credito. E le banche che decidono di investire sulle T-holding possono godere di un trattamento fiscale di favore. Come la stessa T-holding che può contare sulle agevolazioni fiscali già previste dal cosiddetto bonus aggregazioni, che va però rafforzato, con la rivalutazione gratuita dei cespiti, senza tetti. E ci guadagna anche lo Stato, che continua a garantirsi gettito in termini di contributi e tasse, che altrimenti - con le aziende chiuse - andrebbe perso. In altre parole, l’imprenditore non ha più il 100% di un’azienda dal futuro traballante, ma una partecipazione in un’azienda solida che genera valore. La notte possiamo dormire tranquilli perché non rischiamo più la casa, l’impresa che nasce può beneficiare di una fiscalità che le dà un po’ di tregua, c’è un investitore pronto a mettere soldi in una struttura così, e le banche non hanno più scuse per stare a guardare. Anzi. Le T-holding sono proprio il buon credito che dicono di voler fare.

Contenti tutti? Anche i lavoratori?
Assolutamente sì. E mi ha fatto molto piacere l’apprezzamento che è subito arrivato dalla Cgil. La cosa più importante di questo progetto, infatti, è che salvando le piccole imprese, salviamo anche il maggior numero possibile di posti di lavoro. Ogni 100, 60 li salviamo subito, ma abbiamo un’azienda sana che a crisi finita ne può generare altri ancora.

Non pensa sarà difficile convincere i piccoli imprenditori a un salto culturale cui hanno sempre guardato con freddezza?
Forse, ma non dovete sottovalutarci. Questa è la nostra parte di responsabilità. E credo che in molti avranno il coraggio di affrontarla e di cambiare. Perché la piccola industria non è più la stessa di solo qualche anno fa, oggi, la Piccola Industria vuole essere classe dirigente e sa bene che le responsabilità dell’essere imprenditore vanno oltre i cancelli delle fabbriche e sono responsabilità decisive anche nei confronti delle famiglie, dei giovani, della società, del paese.

Proprio al paese lei ha chiesto una cosa sola: cambiare, per diventare finalmente normale. Crede sia possibile?
Deve essere possibile. Perché con la febbre alta che abbiamo l'unica medicina, l’unico antibiotico alla crisi si chiama crescita. Non possiamo più accettare, da imprenditori, ma ancora prima da cittadini, di vivere in un paese che quando c’è da crescere, cresce meno degli altri e quando si cala, cala più degli altri. Vogliamo, ci meritiamo, un paese protagonista, che non speri solo sull’effetto traino di altre economie, ma ci metta del proprio investendo risorse sulla ripresa. In questi ultimi mesi tutti hanno ripetuto che la piccola industria è la colonna portante del paese, la spina dorsale dell’Italia. Vero, bene, grazie. Ma adesso vogliamo i fatti.

Che si chiamano?
Iniziamo da due “facili”: rilancio della domanda e dei consumi. Lato domanda. Abbiamo visto che la strada degli incentivi è quella giusta, perché ha dato risultati positivi. Adesso estendiamoli a tutti quei settori del manifatturiero che possono fare da traino. Consumi. La fiducia, da sola, non basta, non è fatturabile. Per essere credibile va agganciata a qualcosa di concreto. Che c’è di più concreto di una riduzione progressiva del carico fiscale e contributivo sulle buste paga dei nostri dipendenti? Non è più accettabile che il netto spendibile del salario di un dipendente sia solo un terzo del costo che l’azienda sostiene perché devastato da tassazioni e contributi. Chiediamo troppo?

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