PIQ: un indicatore di qualitÀ
L'INTERVISTA - Realacci: «Il PIQ legge l'economia con nuovi occhi»
L'INTERVISTA - Dardanello: «Puntiamo tutto sul PIQ
perché la qualità è la leva competitiva
del nostro sistema economico nel mondo»
L'INTERVISTA -Bonomi: «La competitivitÀ e la crescita
del Paese passano per la qualitÀ»
L'INTERVISTA -Campiglio: «Il PIQ descrive e intercetta
le nuove traiettorie dello sviluppo»
L'INTERVISTA -Fioramonti: «Il PIL non È soltanto un numero,
ma rappresenta un modo di gestire l'economia
PIQ: un indicatore di qualitÀ
Studiosi di tutto il mondo sono alla ricerca di nuove strade per misurare non solo
la ricchezza di un Paese, ma il suo livello di benessere. In Italia la Fondazione Symbola lancia il Prodotto Interno di Qualità, il cui scopo è di fornire un valido sostegno
nel ragionamento sul tipo di economia di cui il nostro Paese ha bisogno
di Raffaella Venerando
Le stime di fine giugno del Centro Studi di Confindustria promettono finalmente spiragli di luce, dopo due anni a dir poco bui per l'economia italiana. Secondo il Centro Studi di Viale dell'Astronomia, infatti, «l'Italia è fuori dalla recessione» grazie ad una ripresa più stabile che ha fatto rivedere al rialzo le previsioni dello scorso dicembre, con +1,6% del Pil per il 2011 (dal +1,3%) e +1,2% per il 2010 (da +1,1%).
Detta così, sembrerebbe quindi tutta in discesa la strada che il nostro Paese dovrà affrontare nei prossimi mesi. A ben guardare però così non è, perché - due dati tra gli altri - la disoccupazione è attesa in crescita, dopo una perdita già consistente di 528mila posti di lavoro andati in fumo negli ultimi due anni, così come pure è stimata in aumento l'evasione che, stando alle cifre rilasciate sempre dal CSC, lo scorso anno è stata pari al 28,8%.
Il Pil quindi crescerà e con esso la ricchezza prodotta nel nostro Paese. Quello che forse però continuerà a non aumentare sarà il benessere, cosa altra, più complessa e di non immediata misurazione. Ormai è chiaro infatti - da qualche anno e a diverse latitudini - che se è vero che il Pil è capace di fotografare la ricchezza di un Paese, è altrettanto vero che la ricchezza non è sinonimo assoluto di sviluppo, né tanto meno di progresso. Nel calcolo della ricchezza infatti voci come rispetto dell'ambiente, sostenibilità o qualità della vita non trovano posto.
L'equazione crescita uguale benessere da tempo ormai vacilla e con essa sta crollando inesorabilmente il mito della produttività.
Proprio per questa mancanza di corrispondenza tra la ricchezza stimata e il benessere reale di un Paese, il Pil comincia a perdere colpi quanto ad attendibilità e credibilità tanto che studiosi di tutto il mondo sono alla ricerca di un suo sostituto, o quanto meno di altri indicatori ad esso complementari.
Il dibattito intorno all'efficacia e attendibilità del Pil - indicatore di ricchezza "incontrastato" dagli anni '40 - non è una cosa però dei giorni nostri. Negli ultimi cinquant'anni ci si era già posti più volte il problema se l'indicatore messo a punto dal premio Nobel Kuznets per misurare gli effetti economici avutisi all'indomani della crisi del 1929 avesse ancora un futuro davanti o, se bisognasse ormai ritenerlo "superato". All'origine il Pil risultò vincente poiché si aveva bisogno di un unico concetto inclusivo per calcolare lo stato di ricchezza di un Paese, rinvenuto allora in «quella parte di prodotti finali dell'economia che risulta dagli sforzi degli individui che formano una nazione». Per di più, il Pil rispondeva all'esigenza di avere un'unità di misura unica - fu scelto l'acciaio - che consentisse un equilibrato confronto tra le economie delle diverse nazioni.
Oggi sembra limitato, fuorviante e anacronistico però fare appello al Prodotto interno lordo, visto che questo - pur indicando la portata e l'estensione del mercato - non contempla aspetti ormai imprescindibili per economie industrializzate e non, come la sostenibilità ambientale o l'inclusione sociale. Il Pil paga lo scotto infatti di essere "un misuratore cieco": pur stimando la crescita non fornisce - ad esempio - informazioni sulla qualità della crescita stessa.
Per questa ragione, emerge la necessità di lavorare ad indicatori altri, capaci di dare una fotografia più completa e sfaccettata della situazione economica, sociale e ambientale di un Paese e di indirizzare in modo più corretto e consapevole le sue politiche e la spesa pubblica.
Uno degli studi sul tema che più ha smosso e convinto l'opinione pubblica è stato quello commissionato dal presidente francese Sarkozy e realizzato, nel 2008, da una commissione di esperti tra cui Stiglitz, Sen e Fitoussi. L'obiettivo era quello di avviare un'indagine sulle nuove misure di performance economica e del progresso sociale. I risultati dell'indagine - contenuti nel "Rapporto sulla performance economica e il progresso sociale" e presentati nel settembre 2009 - calcolano non più il prodotto interno lordo ma il benessere pluridimensionale, stimato tenendo conto di ben 8 variabili in virtù delle quali misurare il benessere di un territorio. In esso si rileva che «ad essere fondamentali non sono soltanto le condizioni di vita materiali, la sicurezza economica e fisica, la salute, ma anche le attività personali, l'istruzione, i rapporti sociali, l'ambiente».
Ma non solo in Francia si lavora alla ricerca di indicatori che vadano "oltre il Pil" e che meglio disegnino le economie di oggi varie ed estremamente diversificate.
Un bel progetto di ricerca corale è quello che porta la firma della Fondazione Symbola, presieduta da Ermete Realacci. I ricercatori di Symbola - coordinati dal professor Luigi Campiglio, Pro Rettore dell'Università Cattolica (vedi intervista a pag. 12) - e con la partecipazione di esponenti del mondo scientifico, dell'Istituto Guglielmo Tagliacarne, e il supporto di oltre 150 esperti di settore, ma anche di rappresentanti delle principali associazioni di categoria da Confindustria, Coldiretti, CNA, Confartigianato, Confcommercio, hanno affrontato la questione in modo singolare: il percorso seguito - come ha dichiarato lo stesso Realacci (vedi intervista pag. 8) - «non è stato tanto quello di sostituire il PIL con un nuovo indicatore, ma da un lato, accompagnarlo a letture complementari e a set di indicatori che colgano aspetti che il PIL per sua natura non può cogliere - come per esempio l'ambiente e la società - e dall'altro, approfondirne le caratteristiche, distinguendo "tra PIL e PIL", facendo emergere le informazioni presenti in esso ma non del tutto esplicitate».
Lavorando nel Pil, rinvenendo in esso quanto di buono c'è, l'équipe di studiosi capitanati da Symbola ha così ideato il PIQ, Prodotto Interno di Qualità.
Ispirandosi all'intuizione di Michelangelo, il quale sosteneva che il suo compito era togliere il superfluo dal blocco di marmo per liberare la statua che ne era imprigionata, hanno individuato quella quota del PIL che risponde a criteri di qualità e, perciò, di competitività.
Il PIQ risponde - come si legge nell'introduzione di Campiglio contenuta nel Rapporto 2009 - «alla domanda di nuovi indicatori finalizzati alla migliore comprensione, descrizione e, in definitiva, governo consapevole di una moderna economia ad alto tasso di diversificazione».
Con il PIQ, dicevamo, si è capaci di misurare quanta parte dell'economia nazionale, calcolata dal PIL, è di qualità. La contabilità nazionale viene analizzata attraverso 5 fattori di analisi: competitività del mercato, posizionamento, innovazione tecnologica e sociale, risorse umane e culturali e l'ambiente. «IL PIQ - si legge nell'introduzione al Rapporto - è misurabile in termini monetari e quindi comparabile con gli aggregati settoriali e di spesa pubblica e si può considerare uno strumento non alternativo, ma complementare al PIL».
Symbola ha dato vita a un'operazione brillante, ma nei fatti semplice: partendo dal presupposto che la qualità costituisca un indubbio elemento di forza delle produzioni italiane, il PIQ prova a potenziarla legandola ad altri concetti-chiavi di progresso, come l'internazionalizzazione e l'efficienza produttiva, specie quella di "sistema" o di filiera". Il PIQ si lega così fortemente a quella che viene definita "soft economy", quella parte di economia che, nel nostro Paese, seppur a stento e rilento continua a crescere e che - stando al rapporto PIQ 2009 - vale il 46,3%, ovvero 430,5 miliardi di euro nel 2009.
L'idea progettuale del PIQ è apprezzabile soprattutto perché consente di rileggere quello che è sfuggito per anni alle statistiche internazionali: una trasformazione del nostro sistema produttivo nel segno della qualità, purtroppo ancora oggi sottovalutata.
Un vessillo, quello della qualità, in cui il nostro Paese può riconoscersi compatto e ripartire, in un progetto comune di rete che veda tutti i soggetti economici sani coinvolti.
Con il PIQ, migliorare si può e, come sottolinea lo stesso Realacci, «si riesce anche a ribaltare la prospettiva della crisi e ritrovarsi non più a giocare in difesa, ma a essere in prima linea per incrementare la qualità della vita e la competitività del Paese».
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