PIQ: un indicatore di qualitÀ
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L'INTERVISTA -Fioramonti: «Il PIL non È soltanto un numero,
ma rappresenta un modo di gestire l'economia
L'Intervista
Fioramonti: «Il PIL non È soltanto un numero,
ma rappresenta un modo di gestire l'economia»
di Raffaella Venerando
Lorenzo Fioramonti
Ricercatore di relazioni
internazionali all'Università di Bologna e research fellow all'Università di Pretoria (Sudafrica), fondatore
di Beyond Development Srl
Dottor Fioramonti, negli ultimi anni si è parlato molto di vari indicatori alternativi o complementari al PIL. Sembra però che finora nessuno di questi sia riuscito ad ottenere la giusta attenzione a livello accademico e, soprattutto, politico. Secondo lei perché ancora esiste questa resistenza ad andare oltre il PIL per stimare la ricchezza di un Paese?
Il PIL è nato come misura della quantità di beni e servizi prodotti in un Paese, quindi non rappresenta né la ricchezza né il benessere di una nazione. Per misurare la ricchezza avremmo bisogno di altri indicatori, che includano anche l'economia informale (come per esempio il lavoro domestico), l'apporto delle attività non monetarie (cultura, istruzione, salute, eccetera) e la redditività del capitale naturale (risorse ambientali, energia, ecc.). Per quanto riguarda il benessere, poi, il PIL ci dice ancora meno. La ricerca scientifica ha ormai dimostrato come la crescita dell'economia non abbia alcuna correlazione con la qualità della vita. Anzi, spesso è vero il contrario: più cresce il PIL, più diminuisce il benessere. Si lavora di più, si ha meno tempo per la vita privata e si attivano processi (come l'urbanizzazione, l'inquinamento, lo sfruttamento di risorse) che aumentano le tensioni sociali. Purtroppo, nonostante le sue contraddizioni, il PIL è onnipresente perché sottende una visione della società cui siamo ormai abituati, quella del consumo, dell'iperproduzione e della competizione.
Ritiene che il cambio di prospettiva, anche alla luce della crisi ancora imperante su mercati e società, sia finalmente più vicino?
Negli ultimi anni qualcosa ha cominciato a muoversi. Anche un'organizzazione conservatrice come l'OCSE ha riconosciuto le falle del PIL. Persino l'Economist e il Financial Times hanno ammesso che il PIL è uno strumento "imperfetto". Dal 2007, l'UE si è impegnata a sostenere un processo di riforma dei propri uffici statistici ed il Presidente Sarkozy ha sponsorizzato una commissione, presieduta dai premi Nobel Stiglitz e Sen, per rimpiazzare il PIL.
Sicuramente la crisi economica ha aiutato. In Europa, le economie non crescono e vengono indebolite ogni giorno dalla speculazione. Alcuni politici cominciano a preoccuparsi e si aggrappano ad una retorica alternativa. Il PIL sembra in declino e porta sempre meno voti. Solo in Italia, purtroppo, la politica è ferma alle idee di dieci anni fa. Tutti i partiti continuano a sbandierare promesse di crescita, che si scontrano inevitabilmente con la realtà dei fatti. Ciononostante bisogna riconoscere la lungimiranza dell'ISTAT e del suo presidente Giovannini, che sta promuovendo anche in Italia un processo di revisione e integrazione degli indicatori della contabilità nazionale. Si tratta di un momento propizio che va sfruttato per creare non solo delle statistiche più accurate, ma anche una cultura sociale diversa.
Il professor Fitoussi sostiene che nelle tradizionali metodologie di rilevazione dei dati esista una sorta di "difetto di democrazia", in quanto spesso capita che le persone comuni non si "riconoscano" negli esiti delle statistiche pubbliche, non perché queste ultime siano manipolate ma perché gli indicatori utilizzati non sono più espressione di un valore realmente "medio" essendo nel tempo cresciuta la disuguaglianza a livello sociale. Concorda con questo approccio? Quale potrebbe essere un valido indicatore per superare questo gap di rappresentanza?
Tutti gli economisti sanno che le misure "medie" raccontano realtà fittizie. Nel contesto contemporaneo questo problema si è acuito perché le disuguaglianze sociali sono aumentate. Fitoussi ha ovviamente ragione quando critica l'incapacità della statistica di descrivere la realtà attuale, però non parlerei di "difetto di democrazia" perché si può dare l'impressione che le statistiche debbano "assecondare" la politica. Purtroppo, le statistiche sono state spesso asservite al potere. Non si tratta assolutamente di misure neutrali: c'è sempre una visione di società dietro un numero. I cambiamenti climatici, lo sfruttamento delle risorse naturali e le ingiustizie sociali sono le conseguenze più evidenti di un modello economico popolarizzato e rinforzato da una certa statistica. Questo vuoto di rappresentanza potrebbe essere colmato dalla costruzione di indicatori condivisi con la società civile che descrivano il tipo di società che davvero vogliamo. Dalla promozione dell'ambiente alla riduzione delle emissioni, dalla protezione sociale all'istruzione. Questi elementi sono al centro dell'attenzione di tutti i cittadini, ma vengono costantemente trascurati.
La Fondazione Symbola - insieme a Unioncamere e, tra gli altri, a Confindustria - ha proposto il PIQ (Prodotto Interno di Qualità) come nuovo indicatore complementare al PIL. Cosa ne pensa?
Il PIQ è sicuramente un tentativo interessante, anche perché coinvolge direttamente rappresentanti dell'imprenditoria, che non partecipano ai dibattiti tra statistici e accademici. Va comunque ricordato che il PIQ non è un indicatore autonomo ma una misura relativa del PIL. Si limita a dirci quanta parte del PIL è dovuta ad attività produttive di "qualità". Anche lasciando da parte l'ovvia domanda "come facciamo a calcolare la qualità?", resta quindi il problema che il PIQ non cerca di immaginare un modello economico diverso ma si nutre della stessa logica che sostiene il PIL. Il PIQ non ci dice nulla sull'uso che facciamo delle risorse naturali, sugli standard di sviluppo, sulla promozione dei diritti delle persone. Nel mondo contemporaneo queste sono diventate questioni cruciali, ben più importanti della produttività o della competitività.
Non crede però che anche intorno a questa tematica si stia facendo un po' troppo marketing?
É probabile. C'è l'impressione che ogni organizzazione voglia "vendere" il proprio indicatore. C'è molta competizione, mentre invece avremmo bisogno di coordinamento e pressione dal basso. Il PIL non è soltanto un numero, ma rappresenta un modo di gestire l'economia. È sicuramente importante trovare "numeri' migliori del PIL, ma è necessario ripensare l'economia attraverso la costruzione di nuova cultura. Questo lo si può fare solamente sul territorio, promuovendo forme di pressione civica sui rappresentanti politici e sul ceto imprenditoriale. Quindi ben vengano iniziative come il PIQ o come il Quars (Qualità Regionale di Sviluppo) promosso dalla coalizione Sbilanciamoci, ma ancora meglio sarebbe se promuovessero una critica profonda del modello economico imperante.
Secondo lei un Paese può dirsi davvero ricco se…
…Se è in grado di promuovere una cultura della sostenibilità. La sostenibilità si declina in quattro dimensioni: sociale, politica, ambientale ed economica. A livello sociale, un Paese può dirsi sostenibile quando riesce a contenere le disuguaglianze e dispone di strumenti per sostenere i più deboli. Infatti la disuguaglianza crea tensioni sociali e impoverisce la vita dei cittadini, anche di quelli ricchi. A livello politico, la sostenibilità richiede delle istituzioni in grado di promuovere la partecipazione dei cittadini a tutti i livelli, dal locale al nazionale. Senza partecipazione la democrazia s'incancrenisce. La sostenibilità ambientale richiede una modalità diversa di concepire l'ecosistema, passando dal paradigma dello sfruttamento delle risorse a quello della sinergia. L'ambiente non va sfruttato ma valorizzato, in modo da garantire possibilità di sviluppo alle generazioni future. Infine, l'economia sostenibile è quella che permette la realizzazione delle altre tre dimensioni. Un'economia che privilegi il territorio, che si fondi sui diritti e sul benessere. Ciò richiede un cambio di paradigma profondo, che però non è così radicale come molti pensano. Soprattutto in Italia, dove l'economia locale è sempre stata più innovativa di quella nazionale.
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