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  Dicembre 2012

Articoli n° 07
AGOSTO/SETTEMBRE 2008
 


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Relazione del Presidente Silvio Sarno

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di Raffaella VENERANDO

Mezzogiorno,
periferia dell’Europa


Il Rapporto Svimez 2008 riaccende nuovamente
la questione del dualismo Nord-Sud nel nostro Paese

Ancora una volta è una Italia divisa in due quella che viene fuori dal Rapporto Svimez, presentato a Roma lo scorso 18 luglio. L’Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno restituisce l’immagine di un paese bidimensionale con la parte esposta a sud in affannoso ritardo, e non solo rispetto al nord del Paese, tanto da meritare la definizione di “non sistema e periferia dell’Europa”.
A leggere i dati dello studio sembra che l’economia meridionale sia ben lungi dall’agganciare i ritmi dei crescita del Centro-Nord, ma la crisi cui si fa riferimento non è certo storia recente. È da sei anni consecutivi infatti che il Mezzogiorno d’Italia cresce meno del Centro-Nord.
Nel 2007 il Sud ha registrato una crescita modesta del Prodotto Interno Lordo sfiorando lo +0,7%, un punto in meno rispetto al Centro-Nord e 0,4 punti percentuali in meno rispetto alle sue stesse performances relative all’anno precedente, con la Campania ferma allo 0,5% (vedi tabella 1).
Con un tasso di disoccupazione reale che tocca quasi il 28% e che nella nostra regione segna nel 2007 l’11,2% (vedi tabella 3), il Mezzogiorno d’Italia è di fatto relegato all’ultimo convoglio di un treno che - di anno in anno - continua a perdere velocità, allontanandosi sempre più dalle sfide dell’economia globalizzata.
Le cause sono ascrivibili sostanzialmente a due fattori principali: una riconducibile al rallentamento degli investimenti, l’altra al calo vertiginoso dei consumi delle famiglie, di cui oltre la metà di quelle monoreddito (51%) è a rischio povertà, rispetto al 28% nel Centro-Nord.
Nell’area meridionale infatti gli investimenti hanno fatto segnare nel 2007 appena lo +0,5% a fronte di un +2,4% del 2006, indicatore chiaro che se qualcosa cresce è la mancanza di fiducia delle imprese in un’economia che arranca. I consumi delle famiglie del Sud, invece, sono stagnanti con una spesa ferma allo +0,8%, pressappoco la metà di quella che riguarda il Centro-Nord (+1,5%).
Come dei continenti alla deriva, il Nord e il Sud del Paese si allontanano sempre più, ma se è vero che non fa più così notizia che l’economia meridionale non progredisca rispetto a quella nazionale, l’analisi si fa desolante se il confronto si sposta su di uno scenario globale e ad essere in contrapposizione sono le dinamiche economiche del Mezzogiorno con quelle di altri paesi della Unione Europea. Negli ultimi sette anni infatti il tasso di crescita dell’economia meridionale è stato del 2%, quello spagnolo del 4,9%, quello irlandese del 5,5% e, per finire, quello greco ha raggiunto quota 6,2%.
Oltre i numeri c’è di più però.
Nei paesi citati sono state proprio le aree deboli - con caratteristiche assimilabili a quelle del nostro Sud - a fare da traino all’economia nazionale rilanciando i processi di crescita interni, fenomeno di cui la Spagna è l’esempio più riuscito.
Sul fronte occupazione, nel 2007 il Mezzogiorno ha registrato un’occupazione a crescita zero, a fronte di un aumento dell’1,4% al Centro-Nord (+234mila in valori assoluti), ma allo stesso tempo il tasso di disoccupazione reale tocca il 28%, con 101mila disoccupati in meno rispetto allo scorso anno.
Come si spiega questa contraddizione in termini?
Secondo la Svimez il dato numerico non evidenzia un fattore sociale ancor più grave: i disoccupati di fatto diminuiscono perchè in molti hanno rinunciano a cercare lavoro, o peggio, sono alle dipendenze del sommerso che nel Mezzogiorno non è un’industria in crisi. Un lavoratore su cinque, stando ai dati Svimez, è irregolare con agricoltura, commercio e servizi tra i settori dove si concentra il più alto numero di lavoratori in nero.
Negli ultimi dieci anni, poi, dal 1997 al 2007, oltre 600mila persone hanno lasciato il Mezzogiorno per trasferirsi al Centro-Nord.
Nel 2007 i trasferimenti di residenza sono stati 120mila, cui vanno ad aggiungersi i 150mila pendolari di lungo raggio, ovvero quanti si spostano, ma soltanto temporaneamente, al Centro-Nord per ragioni di lavoro, di cui ben 50.000 partono dalla sola regione Campania (vedi tabella 5).
Torna quindi l’emigrante meridionale. Quello dell’emigrazione interna al Paese è un fenomeno tutto italiano, a riconferma di quel male chiamato dualismo che spacca in due tronconi l’Italia.
Si parte dal Sud in cerca di migliori condizioni del mercato del lavoro; a spostarsi ancora più velocemente sono coloro che, avendo conoscenze e competenze (quelli con titolo di studio medio-alto e che svolgono mansioni di elevato livello sono il 50%), ritengono di poter guadagnare di più e produrre meglio altrove - con la Lombardia, l’Emilia Romagna e il Lazio in cima alla lista delle destinazioni di arrivo preferite - piuttosto che al Sud.
Gran parte dei nuovi emigranti è fatta di uomini, di cui l’80% ha meno di 45 anni.
Per quanto concerne invece la dinamica degli investimenti diretti esteri (IDE), ancora una volta si registra come il Sud sia tagliato fuori dai flussi IDE con solo lo 0,66% di spese finite al Mezzogiorno (in Campania si è arrivati allo 0,16%), contro un sonoro ed eloquente 99,34% di investimenti arrivati al Centro-Nord. Scendendo nel dettaglio, la quota IDE per abitante nel Mezzogiorno è risibile: solo 12 euro pro capite contro i 241 del Centro-Nord e i 1200 del Regno Unito!
È un dato questo non affatto trascurabile se si tiene conto che, nell’attuale contesto sempre più globalizzato, gli investimenti diretti esteri sono sempre più considerati come uno dei fattori strategici, in modo particolare per il contributo che questi forniscono allo sviluppo delle aree in ritardo. Infatti, l’insediamento di un primo gruppo industriale estero può fare da catalizzatore verso l’ingresso nell’area di nuove altre imprese afferenti allo stesso comparto, mettendo in moto così un circolo virtuoso di sviluppo autopropulsivo. In più, gli investimenti esteri possono avere ulteriori e non secondarie ricadute positive, in quanto possono innescare processi di spin-off per le aziende locali, incentivare la creazione di vere e proprie filiere produttive, sostenere la crescita dimensionale delle piccole e medie imprese e infine direzionare la struttura produttiva verso comparti più innovativi capaci di tenere meglio il mercato.
Tra le cause di mancati investimenti esteri diretti al Sud svettano la cronica mancanza di infrastrutture, la scarsità di servizi alle imprese, la malaburocrazia, cui si aggiunge l’aggravante criminalità che inquina il Mezzogiorno bollandolo come la terra di nessuno.
Come se non bastasse, a questi mali poi va a sommarsi la consistente penuria di laureati nelle discipline scientifiche, con il record del 10,4 di laureati in Sardegna, e la scarsa spesa in attività di ricerca e sviluppo dove se l’Unione Europea fa registrare un valore medio dell’1,8%, tutte le regioni del Sud Italia - fatta eccezione per la Campania con il suo 1,1% - si fermano al di sotto del punto percentuale (vedi tabella 8).
Ma il dato più preoccupante è quello relativo all’inconsistente efficacia della politica regionale di sviluppo. La quota di spesa pubblica complessiva in conto capitale, infatti, nel 2007 è scesa al 35,3% nel 2007 dal 40,6% del 2001, rendendo quindi un miraggio l’obiettivo del 45% fissato in programmazione.
In una tale situazione, pertanto, poco hanno potuto incidere le risorse di matrice nazionale e comunitaria - oltretutto disperse in mille rivoli e mal utilizzate in interventi il più delle volte scollegati tra loro - che hanno finito solo con il compensare i buchi della spesa ordinaria che ha ulteriormente ridotto l’efficacia delle politiche di coesione nazionale.
Insomma, quello tracciato dalla Svimez, è un quadro del Mezzogiorno davvero con poche luci e molte ombre. Dall’Associazione arrivano però anche alcuni suggerimenti per superare le criticità: innanzitutto bisognerebbe riformare la programmazione andando definitivamente oltre le logiche di localismo e di frammentazione territoriale rivelatesi infruttuose e controproducenti; poi appare indispensabile pensare ad un nuovo utilizzo dei finanziamenti nazionali ed europei, che tenga in considerazione non solo la quantità delle risorse ordinarie, ma anche e soprattutto la qualità degli interventi da realizzare.
Occorre inoltre - secondo gli esperti della Svimez - valorizzare le esportazioni di beni e servizi in modo da consentire una concreta internazionalizzazione delle imprese meridionali, che finora hanno avuto non poche difficoltà ad affrontare la crescente competitività internazionale soprattutto a causa delle ridotte dimensioni, e, al contempo, rendere di nuovo attrattivo per gli investimenti esteri il Mezzogiorno; infine, urge la realizzazione di un sistema dei trasporti efficiente.
Sono queste le contromisure indicate dal Presidente di Svimez Nino Novacco che, alla presentazione del Rapporto, ha dichiarato: «Diventa sempre più necessario che il Paese si decida a scegliere ed adottare soluzioni strutturali capaci di porre rimedio al problema dei crescenti “divari territoriali” perché il Sud era e resta un problema aperto per l’Italia».
Quello che serve, più di ogni altra cosa, è un organico disegno di politica economica che colmi la differenza di produttività economica e di coesione sociale che esiste tra le due macroaree del Paese. Se non si espande l’economia meridionale e se non si risana la società meridionale, il rischio è che si fermi la crescita di tutta l’Italia e che il declino - ancora rimediabile - diventi anche per le ricche regioni del Nord un destino cui non si può sfuggire.
Non c’è più tempo da perdere. L’Unione Europea ha già annunciato che, esaurito l’ultimo ciclo delle politiche di coesione (2007/2013) non ci saranno più aiuti per le regioni deboli dei paesi “fondatori”. Non possiamo più pretendere che un problema nazionale sia risolto con risorse finanziarie trasferite da altri e che poi non sono state utilizzate in modo appropriato.
Bisogna che la politica scelga, decidendo la giusta strategia per aggredire il dualismo e superarlo, mettendo in campo capacità progettuale nel definire e realizzare la vocazione di un Sud che torni ad essere parte di un Paese unito.





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