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  Dicembre 2012

Articoli n° 5
GIUGNO 2006
 

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La competitivitÀ delle produzioni italiane

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La competitivitÀ delle produzioni italiane

Gian Domenico AURICCHIO

Il “Made in Italy” è l’unico e indivisibile frutto dell'operosa e innovativa creatività del lavoro degli italiani, imprenditori e lavoratori


Con l'avvenuta globalizzazione produttiva, la capacità di competere dei sistemi, dei paesi e delle produzioni, non è più legata esclusivamente a fattori "interni" ma dipende in maniera crescente dalla "dimensione esterna" della competitività, dagli attori emergenti nel nuovo quadro internazionale, dal fluire dei fattori produttivi secondo rotte geo-economiche inedite fino a qualche anno fa, che influenzano i costi e le opportunità di fare impresa a livello globale, e dalla corretta e uniforme applicazione delle regole esistenti. Confindustria ha maturato da tempo la consapevolezza che, per garantire lo sviluppo di un sistema industriale, e del tessuto sociale in cui esso opera, è necessario guardare sempre alle condizioni di un "mercato aperto" in rapida e continua evoluzione. Credo che su questa premessa vi sia il pieno consenso e l'impegno di tutte le parti sociali e del governo. Purtroppo, questa "cultura internazionale", oggi così necessaria, stenta ancora ad essere pienamente percepita in Italia. La divisione manichea, spesso dettata da una osservazione del mercato non completamente scevra da pregiudizi ideologici, tra "protezionisti" e "libero-scambisti", non rende la complessità del problema, né fornisce gli strumenti adeguati per "leggere" la situazione attuale e individuare le azioni necessarie a trasformare le criticità in opportunità. Non possiamo fondare le prospettive dell'Italia del futuro sulla mappa dell'emergenza. Dobbiamo avere il coraggio di risolvere i problemi immediati ma al contempo di guardare avanti, di essere "costruttori di sviluppo". E per farlo, l'ottica è quella strutturale, non solamente congiunturale. In sostanza, il problema della sostenibilità di un modello di sviluppo economico e sociale, non può essere aggirato invocando le asimmetrie nei costi di produzione, gli innumerevoli comportamenti illeciti perpetrati da alcuni concorrenti internazionali, il loro mancato rispetto degli standard sociali e ambientali e la - purtroppo lunga - serie di altri svantaggi competitivi di cui soffriamo.
Perché questo approccio, da solo, rende difficile cogliere la natura dei processi in atto e non favorisce la definizione di un piano di rilancio competitivo globale, che tenga conto dell'avvenuto mutamento e ci proietti tutti, imprese e lavoratori, in una dimensione pro-attiva, fatta di proposte condivise e di unitarietà nelle posizioni da sostenere presso i diversi livelli di governo, regionale, nazionale, comunitario e finanche quello multilaterale, oggi sempre più importante. In quest'ottica è fondamentale, soprattutto, riflettere sulla combinazione di misure di politica industriale e di politica commerciale necessarie a sostenere le nostre produzioni e assume rilevanza strategica il tema delle riforme economiche - che non solo l'Italia, ma tutta l'Europa - devono attuare per fare fronte al nuovo scenario globale. Basti ora sottolineare come i costi sopportati dalle imprese italiane, per esempio, per motivi amministrativo-burocratici, rendano ancor più difficile affrontare la competizione globale, come dimostrano le analisi sui ritardi italiani rispetto agli obiettivi dell'agenda di Lisbona. É sulla base di questa convinzione che Confindustria ha attirato l'attenzione del governo sulla necessità per l'Italia di dotarsi un "Piano nazionali per la competitività", che indichi le azioni da attuare a livello nazionale per favorire il rilancio della competitività. Sottrarsi a questa prospettiva, ossia ritenere che la "prescrizione" di Bruxelles sia di per sé sufficiente a colmare il ritardo che abbiamo, in termini di produttività verso gli USA, e di costi verso la Cina, sarebbe un grave errore strategico che l'Italia non deve commettere. In questo senso, credo che vi sia perfetta unità di intenti di tutte le parti sociali. Anche a livello europeo è avvenuto un cambiamento radicale, che è forse passato inosservato, o la cui importanza è ancora relativamente sottostimata. La "strategia di Lisbona" della UE, quella che vorrebbe fare dell'Europa "l'economia basata sulla conoscenza più dinamica e performante del mondo entro il 2010", ha riconosciuto che riforme economiche e politica industriale non sono le uniche leve per la competitività, e ha esteso il proprio ambito di analisi al commercio internazionale. Per Confindustria questa estensione è significativa perché tiene conto dell'importanza del commercio come fattore competitivo, e, in quanto scelta "politica", va difesa e sostanziata con proposte e azioni concrete.
Ciò significa che dobbiamo pungolare sempre - ma costruttivamente - l'UE ad occuparsi con determinazione, non solo della applicazione delle regole multilaterali, ma anche e sempre di più degli elementi suscettibili di sostenere le imprese europee nell'arena globale. Questo compito non spetta solo a Confindustria, spetta al sistema-paese che, insieme, vogliamo fare crescere anche in termini culturali, di visione, di operatività. In questo quadro di riferimento l'esigenza di valorizzare e difendere il "Made in Italy" è sicuramente prioritaria, direi essenziale, per aiutare a superare le difficoltà che la nostra industria manifatturiera, in particolare quella che non dispone di un "brand" consolidato o propone un prodotto di particolare qualità, sconta per essere competitiva sul mercato.

Il "Made in" europeo
Come é noto, Confindustria e il Governo hanno concluso, lo scorso 16 dicembre, una battaglia campale con la Commissione europea per fare adottare una proposta di regolamento UE che impone la marcatura di origine obbligatoria per alcuni prodotti (molti in verità) dei settori industriali: tessile & abbigliamento, calzature, mobili per arredo, gioielleria, articoli di pelle e cuoio e ceramiche. Lo abbiamo fatto per proteggere le nostre produzioni, ma soprattutto per proteggere i consumatori. I consumatori americani, canadesi, giapponesi o cinesi, o di molti altri paesi sanno che un prodotto viene dall'estero perché c'è scritto sopra. Magari non gli importa saperlo, ma questa informazione gli perviene. La loro legislazione interna, infatti, impone per chi esporta nei loro mercati di indicare chiaramente l'origine delle merci. Perché i consumatori europei non possono ricevere questa informazione? Abbiamo impiegato oltre un anno a dibattere con le altre Confindustrie europee. Ho personalmente incontrato Commissari europei, europarlamentari, tecnici e giuristi di mezza Europa. Abbiamo fatto sentire la nostra voce a tutti. E alla fine abbiamo ottenuto l'impossibile: siamo partiti soli e contro tutti ma il 16 dicembre scorso è stata adottata una proposta di regolamento che tiene conto di tutte le nostre istanze. É un risultato su cui pochi avrebbero scommesso e che, invece, con la forza che ci hanno dato le nostre Associazioni, abbiamo conseguito contro ogni aspettativa.
Ora che la proposta è stata adottata, la decisione finale spetta agli Stati membri. Purtroppo, le informazioni che riceviamo dalle nostre ambasciate in Europa e da Bruxelles non sono confortanti: la maggioranza dei Paesi membri, soprattutto i nordici e la Germania, sono risolutamente contrari. La ragione è evidente: le loro produzioni sono state delocalizzate da tempo e nessun produttore di questi paesi vede con favore l'idea che la sua stessa merce arrivi sul mercato europeo con la dicitura "Made in China". Pertanto, la battaglia, ora, è squisitamente politica e il Governo italiano dovrà utilizzare tutta la sua influenza per vincerla. Siamo fiduciosi, ma non nascondiamo che la strada appare ancora tutta in salita.

Le iniziative nazionali a tutela del Made in Italy
Quando Confindustria ha osservato e analizzato le (numerose) proposte legislative, sia di origine governativa che parlamentare, lo ha sempre fatto con alcune certezze di fondo: la prima riguarda l'indivisibilità del Made in Italy; la seconda la proprietà del Made in Italy, la terza è la congruenza delle scelte del legislatore con l'analisi corretta dei mercati. Per quanto riguarda la prima, la nostra opinione è che il legame tra imprese e lavoratori, da un lato, e il "Made in Italy", dall'altro, è forte: Confindustria non ha incertezze o tentennamenti su questo aspetto: il "Made in Italy" è anzitutto frutto della enorme, operosa e innovativa creatività del lavoro degli italiani, imprenditori e lavoratori. Dove risiede il "Made in Italy"? Certo nelle città d'arte, nelle tradizioni, nella cultura, ovunque voi vogliate vederlo in Italia. Ma soprattutto, direi principalmente, negli imprenditori e nei lavoratori che danno vita a questi prodotti straordinari. Nei loro cervelli, nella loro cultura del lavoro, nella dedizione che vi dedicano, nei processi che adottano, nell'ingegno e nello stile che essi sanno profondere nei loro prodotti, tanto apprezzati in tutto il mondo. Il "Made in Italy" non è semplicemente "un" qualsiasi marchio, esso è "IL MARCHIO" per eccellenza delle produzioni italiane.
Qualcuno pensa che, invece, il "Made in Italy" debba diventare un marchio collettivo di proprietà dello Stato, e che esso debba essere rilasciato solo ad alcuni e ad altri no. Confindustria non è d'accordo. La stragrande maggioranza delle sue associazioni e delle sue imprese associate non sono d'accordo. É per questa ragione che, dopo lunghe consultazioni con i membri del Comitato che presiedo in Confindustria, abbiamo stabilito una linea che respinge le ipotesi avanzate da recenti proposte legislative, sia di origine parlamentare che governativa, che tendevano - invece - a dissipare questo patrimonio. Iniziative come quella del "100% Made in Italy", oltre ad essere fortemente criticate per ragioni giuridiche dalla UE, non stimolano né i consumi né gli investimenti e sicuramente non difendono l'occupazione, ma pongono soltanto delle ulteriori barriere ai nostri stessi imprenditori, specie i giovani, che hanno ancora - per fortuna - il coraggio di rispondere alle sfide e di innovare. Istituire un marchio che attribuisce la "vera titolarità del Made in Italy" a chi produce interamente in Italia non fa altro che relegare le nostre imprese nelle fasce alte - non del mercato - ma dei soli costi di produzione. Il Made in Italy è già - di per sé - un marchio pienamente evocativo della nostra cultura e del nostro stile di vita. Imbrigliarlo nell'obbligo di "produzioni interamente eseguite in Italia" significherebbe arroccarci su principi inadatti a reggere il confronto globale. Scegliere tra "vero Made in Italy" e "Made in Italy realizzato in parte all'estero" vuol dire minare le basi di un patrimonio che va ben oltre la parte di lavorazione eseguita fuori dall'Italia. Farlo, vorrebbe dire che ci sono due Italie, due sistemi produttivi, due "Made in Italy", e poi tre e via cosi, fino alla distruzione finale della nostra bandiera produttiva e commerciale. Se vogliamo che l'Italia mantenga una forte base industriale, a casa propria e che le nostre imprese continuino a creare posti di lavoro, crescita economica e benessere sociale, dobbiamo invece avere la responsabilità di riflettere a fondo sul rapporto tra produzioni nazionali, commercio globale, politica industriale e competitività. Se impedissimo alle imprese di approvvigionarsi di materia prima, o di rinunciare ai vantaggi comparati di una piccola parte della lavorazione all'estero, quando tutto il resto del mondo lo fa in maniera massiccia, ci collocheremmo al di fuori del tempo e del mercato. Non è questo ciò che vogliamo per un paese moderno e ricco di potenzialità come l'Italia.

La lotta alla contraffazione
Infine alcune parole vorrei spenderle sul contrasto alle pratiche contraffattive. Il fenomeno è grave e le sue conseguenze hanno raggiunto livelli intollerabili. Stiamo chiedendo incessantemente di rafforzare sia i controlli alle frontiere, che i sequestri sul territorio. Ciò va accompagnato con un impegno della Confederazione nella difesa dei marchi, dei brevetti, dei disegni e in genere per la tutela della proprietà intellettuale. Dobbiamo diffondere il messaggio che il loro " furto" è un vero e proprio reato perché oltre al danno diretto che subisce il legittimo proprietario vi è anche un danno all'immagine globale del "Made in Italy". Anche in questo campo l'impegno in sede nazionale - che ha visto significativi risultati nelle prescrizioni della Legge sulla Competitività - va coordinato con gli sforzi che si compiono in Europa sull'armonizzazione della lotta alla contraffazione e delle pene per i reati ad essa connessi. Un primo importante passo è stato compiuto, con l'entrata in vigore - il 1° luglio 2004 - del Regolamento 1383/2003, che è una autentica misura "anti-contraffazione" giudicata molto positivamente da Confindustria, soprattutto perché spinge gli Stati membri ad una accresciuta cooperazione doganale, che è lo strumento fondamentale per rendere efficaci controlli e sequestri. Infine il 12 luglio 2005 la Commissione europea ha adottato una proposta di Direttiva - voluta dal Commissario Frattini - per combattere la contraffazione e la pirateria. La proposta in oggetto, recentemente riformulata per ottemperare ad alcuni rilievi mossi dalla Corte di giustizia, contiene disposizioni penali volte a migliorare la lotta contro la contraffazione e la pirateria e costituisce un completamento della direttiva 2004/48/CE sulla proprietà intellettuale. La misura legislativa é finalizzata a promuovere il ravvicinamento delle legislazioni penali e a migliorare la cooperazione tra gli Stati dell'Unione europea per contrastare gli atti di contraffazione e di pirateria. Seguiamo con attenzione l'evolversi della materia: è importante potenziare ulteriormente gli strumenti di cooperazione tra le competenti autorità nazionali e perseguire il raggiungimento di una adeguata base comune per l'applicazione di principi condivisi che rendano effettiva e armonizzata la tutela della proprietà intellettuale e dunque la lotta alla sua violazione. Non dobbiamo rassegnarci al preconcetto che sia inevitabile rassegnarsi alla contraffazione e alla concorrenza sleale come conseguenza, inevitabile, della globalizzazione. Con le giuste norme il nostro Paese ha tutte le carte in regola per eccellere nella competizione globale.

Presidente del Comitato per la Tutela dei Marchi e la Lotta alla Contraffazione - Confindustria

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