Le recenti sentenze della Corte di Cassazione sul tema dell’elusione fiscale hanno provocato grande clamore tra gli operatori, perché sembra che aprano nuovi e praticamente infiniti orizzonti alle attività di recupero di reddito da parte dell’Amministrazione Finanziaria. In buona sostanza, seppur con faticoso distinguo (si veda a tal proposito l’ultima sentenza della sezione tributaria del 21.01.09 n. 1465) la Suprema Corte ha affermato il potere dell’Amministrazione Finanziaria di sindacare le scelte dell’impresa (laddove prive di valide ragioni economiche), anche con riferimento a tributi diversi dall’IRES e a fattispecie diverse da quelle specificatamente previste dall’art.37bis DPR 600/73, che ad oggi è la norma antielusiva generale. Autorevoli giuristi hanno già ampiamente analizzato e discusso sui limiti e sulle implicazioni anche “pratiche” di un siffatto approccio giurisprudenziale, ma può essere utile qualche altra considerazione collaterale. Il problema della qualificazione giuridica dell’elusione ha sempre impegnato dottrina e giurisprudenza, proprio in virtù della difficoltà a collegare direttamente una norma sanzionatoria ad un comportamento, che in realtà nulla formalmente viola, ed anzi il cui presupposto è proprio il pieno rispetto delle norme. Anche per tali ragioni, l’approccio legislativo è stato sempre di tipo induttivo: quando si scopre una nuova specifica fattispecie chiaramente elusiva, si emana una norma speciale (ad esempio: la norma sul riporto delle perdite nelle fusioni - art.172 DPR 917/86), per tutto il resto, con riferimento però ad un novero limitato di operazioni “sensibili” e nell’ambito esclusivo delle imposte sul reddito, si fa ricorso ad una norma generale, di chiusura (art. 37bis citato). Ora, con la Suprema Corte che è riuscita a ricondurre il presupposto dell’elusione nella violazione addirittura del principio costituzionale della capacità contributiva, il tema della qualificazione giuridica sembra d’incanto del tutto superato, smarcato. Ovviamente con i corollari evidenziati anche dalla Dottrina: l’inutilità dell’art. 37bis e l’allargamento a tutte le fattispecie ed a tutti i tributi della sindacabilità delle scelte del contribuente, il quale avrà come sola difesa la validità delle ragioni economiche del suo operare. Questa ultima considerazione trova implicita conferma se si allarga l’osservazione ad altre recenti massime della Cassazione, aventi ad oggetto la deducibilità dal reddito di taluni costi di gestione, maturati in operazioni del tutto diverse da quelle contemplate dal citato art.37bis (compensi all’organo amministrativo, spese di pubblicità, costi da prestazioni intercompany, perdite su cessioni crediti, avviamento su cessioni di azienda). Infatti, con tali sentenze, è stata nuovamente messa in discussione l’insindacabilità delle scelte dell’imprenditore ed è stato affermato il principio dell’economicità della gestione d’impresa - intesa, si badi, non nella sua interezza, ma intrinsecamente, con riferimento ad ogni singolo atto - che nell’attuale diritto tributario è protetto solo in specifiche fattispecie (es.: operazioni con l’estero). Tale principio di economicità, poi, ha finito per prevalere anche sul postulato dell’inesistenza del salto d’imposta, del danno erariale, dove ad un costo deducibile deve corrispondere un ricavo tassabile. In buona sostanza, per la Suprema Corte valide ragioni economiche ed economicità della gestione appaiono parametri di giudizio giuridicamente efficaci (oltre che praticamente coincidenti), al fine di sindacare tutti gli atti d’impresa (non solo quelli di cui all’elenco dell’art.37bis) a prescindere dall’esistenza o meno di un danno erariale. È stato affermato che tali sentenze “rivoluzionarie” sono figlie di casi concreti abbastanza clamorosi e che quindi devono considerarsi, in un certo senso, eccezionali. Casi dove, magari, l’antieconomicità sia stato l’unico mezzo a disposizione per sanzionare ipotesi in cui la “sovrafatturazione” fosse tanto evidente quanto non documentabile. È possibile. È certo invece che, da ora in poi, non vi sarà comportamento dell’Amministrazione Finanziaria che non ne terrà conto, con conseguenze che possono ben immaginarsi sul versante delle attività di recupero di reddito e sulle inerenti motivazioni. Né a molto potrà servire la procedura di interpello, che, come gli operatori ben sanno, ha tempi incompatibili con qualunque strategia d’impresa. Correttamente vengono sollecitati interventi legislativi, anche se non è ancora ben chiaro verso che direzione. Sicuramente occorrerà estendere anche agli accertamenti concepiti solo sulla presunta “sproporzione” dei costi sostenuti, l’agevolazione del rinvio delle iscrizioni provvisorie alla sentenza di primo grado, oggi prevista solo per i casi ex art.37bis, in quanto tali accertamenti si muovono in un ambito concettuale similare. Come pure, saranno opportune specifiche esimenti all’applicabilità delle norme penali di infedele dichiarazione (un atto antieconomico non è di per sé “reato”). Infine, sarà opportuna una norma, anche di natura transitoria, che, con riferimento ai periodi di imposta precedenti il 2009, salvaguardi il legittimo affidamento dei contribuenti sulla esclusiva applicabilità per l’elusione dell’art.37bis. Comunque, al di là di eventuali rettifiche legislative di metodo, nella sostanza, la sensazione è che la Suprema Corte abbia aperto una nuova fase nei rapporti Fisco - contribuente, dove, a torto o a ragione, entra a pieno titolo il “valore di mercato” con un notevole rafforzamento del potere di indagine del Fisco sulle scelte dell’impresa, che non bisognerà osteggiare, ma adeguatamente disciplinare, entro rigidi confini soprattutto su temi, quali: l’effettività dell’onere della prova a carico dell’Amministrazione Finanziaria; la fondatezza della motivazione meramente fiscale, “alternativa” a quella asseritamente antieconomica; l’obbligatoria determinazione da parte degli Uffici Finanziari dei costi non “sproporzionati” alternativi a quelli contestati, con recupero a tassazione della sola eventuale eccedenza; l’adozione di un tax ruling degno di una economia avanzata. Nell’attesa di conoscere quali mutamenti giuridici concreti si produrranno a valle di un così intenso proliferare della Cassazione, appare opportuno che le imprese si pongano sin da subito in compliance con il nuovo approccio, almeno per i temi gestionali oggetto di intervento giurisprudenziale. Pertanto, in tali operazioni, oltre rispettare i requisiti generali di inerenza, competenza ed oggettiva determinabilità stabiliti dal TUIR, è consigliabile: a) documentare la congruità dei corrispettivi pattuiti, anche attraverso criteri, metodi o riferimenti di mercato, che tendano a dimostrarne l’oggettività; b) dare adeguata formalità ai rapporti economici, attraverso contrattualistica nella forma e nella sostanza in linea con la tipologia di operazione realizzata; c) dare dimostrazione dell’avvenuta esecuzione della prestazione, attraverso le forme tecniche più ricorrenti; d) supportare le operazioni di trasferimento di beni complessi (aziende - crediti pro soluto) soprattutto in ambito intercompany, con perizie di valutazione giurate da parte di terzi indipendenti.
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