ARCHIVIO COSTOZERO

 
Cerca nel sito



Vai al numero in corso


  Dicembre 2012

Articoli n° 10
DICEMBRE 2009
 


UNIONE Industriali DI napoli - Home Page
stampa l'articolo stampa l'articolo

Sospendere per un biennio l’addizionale Irap nel Sud

Inserto: Mezzogiorno, ripartire dopo la crisi

Formazione e flessibilitÁ: strumenti per lo sviluppo

Progetto SIS: Sviluppo Imprese in sicurezza

Antimo Caputo nominato vice presidente Yes for Europe

Opera Prima per l’internazionalizzazione

Energia elettrica con sconti fino al trenta per cento

Inserto: Mezzogiorno, ripartire dopo la crisi

Il Sud resta ancora la grande questione nazionale

di Lucio Avagliano,
già preside della Facoltà di Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Salerno


Il tema che abbiamo affrontato nel seminario del 30 marzo scorso dal titolo “Mezzogiorno e crisi” ha fatto registrare interventi notevoli tra cui quello di Adriano Giannola, Pasquale Persico, Ernesto Pappalardo, Raimondo Pasquino, Antonio Lombardi, Luigino Rossi, Roberto Galisi.
Da marzo ad oggi, la crisi è divenuta più profonda e, forse, è stato anche avviato a livello mondiale un suo superamento, fatta eccezione per il settore occupazionale. All’incalzare della crisi, si sono moltiplicate le iniziative ad opera di Enti ed Associazioni dedicate all’analisi delle cause e delle possibili soluzioni al difficile periodo economico che i nostri territori stanno vivendo. Rispetto al Mezzogiorno, però, non si è avuta una visione d’assieme anche per l’oscillare di una politica economica soggetta alle divisioni della politica stessa, anche nell’ambito della maggioranza, ma appare chiaro che la crisi ha colpito il Nord più duramente del Sud. Questo è accaduto per un motivo molto semplice: la localizzazione industriale è diffusa prevalentemente e storicamente proprio nelle regioni del Nord; tuttavia i riflessi si sono avuti anche al Sud, nella misura in cui - sia pure in parte sommersa - una struttura industriale è stata sempre presente anche nel Mezzogiorno. Ricordiamo a tale proposito che il frutto della crisi degli anni Trenta fu la delocalizzazione di gran parte del patrimonio industriale nel Sud e questo avvenne grazie all’azione intelligente degli uomini dell’Iri, in gran parte - com’è noto -meridionali. Le crisi, infatti, come osservato da più parti, devono essere viste come grosse occasioni di cambiamento (cfr. le varie iniziative del Ministro dell’Economia: Banca del Sud, parziale detassazione degli investimenti nel Sud e cosi via).
Dobbiamo osservare però che tali iniziative sono ancora ben lontane dall’aver spiegato tutti gli effetti positivi che potevano avere, com’è stato ben osservato al recente convegno dei Giovani Imprenditori di Confindustria a Capri lo scorso ottobre. Esso è certamente un lavoro di lunga lena ma anche frutto di una collaborazione tra maggioranza e opposizione che su tale tema, come è stato in Germania, avrebbero dovuto trovare ben altro vigore e spinta bipartisan nell’interesse nazionale.
In conclusione, il Sud resta una grossa questione nazionale ancora aperta dalla cui soluzione dipende la stessa possibilità di superamento della crisi e di ripresa del nostro sviluppo economico tutto intero.

Contro la crisi, necessario un cambio di rotta veloce

di Roberto Galisi,
dottore di Ricerca in Storia dell’Industria presso l’Università degli Studi di Salerno

La crisi - che ha avuto origine nella finanza - ormai ha interessato l’intera economia. Direi che qui c’è già un primo aspetto su cui riflettere. Faccio un esempio: quando noi attiviamo una fiscalità che premia la finanza ma penalizza il lavoro, stiamo incoraggiando quel tipo di investimento e scoraggiando, invece, un investimento che dovrebbe essere, dal nostro punto di vista, più diretto verso l’industria e la ricerca.
Bisogna aggiungere che, senza una rimodulazione delle infrastrutture, un Paese è molto esposto alle crisi. Molte fonti attestano che il Sud è l’area del Paese maggiormente “scoperta” rispetto alla attuale crisi, proprio perché in questo momento non dispone - come del resto è noto - di infrastrutture adeguate per affrontare e superare tale crisi. La Questione Meridionale a tutt’oggi non può dirsi infatti conclusa.
Aggiungo anche che indubbiamente c’è bisogno di un nuovo modo di fare banca, che funzioni correttamente, come accadeva con i grandi “banchi” meridionali del passato. Finché questi ultimi hanno funzionato correttamente, come tutte le banche sane hanno prosperato conquistando sempre più consensi.
È questa la prima sfida da vincere, nel Sud come nell’Italia tutta.
Senza una nuova fiducia e maggiori profitti, non c’è né reddito per il lavoro né margine per le aziende, ma solo una prospettiva di stagnazione di fronte alla quale non bisogna affatto cedere.
Occorre sbloccare nuovi fondi affinché i nostri imprenditori locali possano ottenere risultati migliori rispetto al passato, perché la crisi si combatte anche con i finanziamenti pubblici. Un caso esemplare si è verificato in Spagna: in tre mesi sono state appaltate opere per 8 miliardi di euro.
Concludo citando una fonte onorevole, ovvero il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che qualche mese fa, a proposito di Sud così si è espresso: «Il Paese non decolla se il Sud non si riprende».
La cosa peggiore in questo momento è proprio “non fare”. In proposito fanno riflettere le parole di Paul Krugman, grande economista e Premio Nobel per l’economia: «Questa è la più grave crisi che abbiamo vissuto dal ’29 ad oggi. Per evitare che questa crisi si ripercuota sui redditi, sulle imprese e sull’occupazione, la parola d’ordine è una sola: velocità».
Una crisi che colpisce maggiormente i giovani e chi è in difficoltà, aumentando così le disuguaglianze economiche; un indice di povertà assoluta in crescita del 2% nel Mezzogiorno e che riguarda oramai un italiano su dieci.
Serve un cambiamento di rotta. Come ottenerlo? L'economista Tito Boeri spiega che molto può essere fatto, e subito. Sfruttando, ad esempio, leggi già esistenti ma che non vengono applicate come la 146 del 1990 sulla Previdenza Sociale, la riforma Dini sulla regolamentazione del diritto di sciopero o la legge sul potenziamento dei servizi degli ispettorati del lavoro per contrastare le morti bianche.
Alla base di siffatte considerazioni vi è dunque la certezza che i periodi di crisi devono ineluttabilmente “servire” a spronare, a rendere finalmente concrete e attuabili le riforme strutturali: la strada da fare è sì tanta, ma sicuramente percorribile.

La retorica del federalismo fiscale

di Adriano Giannola,
professore ordinario di economia bancaria dell’Università di Napoli Federico II


La crisi che ci interessa tutti ha il suo epicentro finanziario negli Stati Uniti che l’hanno irresponsabilmente esportata all’Europa e al mondo. Nel caso italiano gli effetti che dalla crisi finanziaria si ribaltano sull'economia sono particolarmente penalizzanti. Tra i Paesi fondatori dell’Unione Europea, il nostro dualismo rende proprio noi tra i più vulnerabili. Il fatto poi che intervenga l’avvio di una riforma istituzionale come quella del cosiddetto Federalismo Fiscale, accentua ulteriormente i rischi di disarticolazione del sistema. Se c’è chi vede nel federalismo l’opportunità di un generale guadagno di efficienza, c’è anche chi, più realisticamente, vede la minaccia incombente per le aree deboli del Paese. Sull’intreccio tra debolezze strutturali del Sistema Italia e l’illusione di affidare alle riforme istituzionali una catartica possibilità di riscatto, cercherò di concentrare questo intervento.
Nel suo manifestarsi la crisi mette a nudo anzitutto la debolezza del nostro settore bancario che non può ricondursi agli effetti (da noi limitati) dei “titoli tossici”. Questa debolezza condiziona pesantemente le possibilità di sostenere le imprese proprio in una delicastissima fase nella quale, oltre al pesante ciclo negativo, esse dovrebbero affrontare processi di ristrutturazione e - soprattutto - di diversificazione capaci di arrestare la progressiva perdita di competitività evidenziata negli ultimi dieci anni dall’ Italia.
Quando si argomenta che le banche dovrebbero ora più che mai assicurare credito alle imprese, e Confindustria lamenta che, invece, le imprese stanno subendo il morso della restrizione, va detto che il problema più che alla volontà delle banche, rinvia alla loro impossibilità di poter sostenere il livello del credito a causa di una sostanziale debolezza patrimoniale. Nel sistema attuale, una banca deve operare secondo i cosiddetti coefficienti patrimoniali minimi dell’accordo di Basilea 2. Il principale vincolo è dato dal rapporto tra attività ponderate per il rischio e patrimonio utile ai fini della vigilanza. Nella misura in cui questi coefficienti patrimoniali non sono adeguati, la banca non può operare o, tanto meno, espandere il credito. Progressivamente, l’attivo delle principali banche si è fatto più rischioso e a fronte di ciò il loro patrimonio si è deteriorato e, in realtà, è meno reale di quanto non dicano i bilanci. C’è - sommerso - un problema effettivo che limita l’accesso al credito di una clientela che, da parte sua, si sta facendo via, via più rischiosa. Questa debolezza investe in modo più intenso i grandi protagonisti (banche s.p.a. quotate) del cosiddetto consolidamento del settore creditizio. Più fisiologica è la condizione della componente del sistema bancario di tipo mutualistica (banche di credito cooperativo e popolari) cioè il sistema delle banche locali, più naturalmente propense al rapporto con l’impresa minore. Banche no -profit fino a ieri date “in estinzione” guadagnano invece quote di mercato. Esse, forti nel Centro-Nord, al Sud hanno subito, (assieme a quelle profit) il drastico ridimensionamento del “consolidamento”. Il peso di questa debolezza strutturale, l’assenza di una appropriata terapia di politica industriale impediscono di rovesciare le tendenze consolidate al declino del Nord e del Sud. Che su questo aspetto ci si nutra invece di illusioni è reso evidente dalla convinzione (tutta lombardo-veneta) che spetti al federalismo fiscale liberare la nostra economia dal nodo scorsoio che la sta soffocando. Illusione alimentata dalla convinzione che a frenare il sistema sia il Mezzogiorno riproposto - con metafora antica - come palla al piede che impedisce “al più forte di correre”. Alla radice delle difficoltà del Nord starebbe il ruolo parassitario del Sud che assorbe risorse, di qui il diritto alla “restituzione” di trasferimenti “illegittimi” che la soluzione federale deve realizzare riformando radicalmente i rapporti sul territorio.
Tale argomento, è una diagnosi errata che propone una terapia altrettanto errata.
Se andiamo a vedere i dati essenziali del nostro sistema nazionale, vediamo che dall’introduzione dell’Euro, per tutti gli anni fino al 2007, vigilia dell’esplodere della crisi, il Centro-Nord - come il Mezzogiorno - ha avuto performance estremamente negative e drasticamente diverse dalle performance degli altri paesi europei. In termini di produzione industriale la Germania nel periodo 2001-2007 ha realizzato una crescita del 17,5% laddove il Centro-Nord segna una contrazione dell’1,5%. Il divario è parimenti macroscopico nei confronti della Francia e del complesso dei Paesi dell’Unione. Se guardiamo la produttività per addetto, il Centro-Nord ha una dinamica talmente negativa da determinare un aumento del costo unitario del lavoro nonostante che i salari siano caduti. All’opposto Germania, Francia e gli altri paesi della UE, realizzano un aumento della produttività tale da consentire incrementi del salario reale e, al contempo, un aumento della loro competitività sui mercati. Il Nord, dunque, al pari del Sud, è fortemente in crisi dal punto di vista di tutti i parametri competitivi. Guarda caso questo avviene con l’avvento dell’unione monetaria, momento in cui si sgonfia la ruota di scorta della svalutazione del cambio che ha sempre consentito al Centro-Nord di galleggiare sulle difficoltà strutturali ben evidenti del modello di sviluppo italiano.
Di fronte a ciò è infondato, e particolarmente pericoloso, evocare una Questione Settentrionale che pretende con la scorciatoia del Federalismo fiscale di liberare il Nord, invocando il risarcimento da un’ ingiustizia fiscale che si materializza in presunti imponenti ed ingiustificati flussi di trasferimenti al Sud.
L’infondatezza di tali pretese impone l’urgenza di una puntuale attività di contro informazione al fine di chiarire i reali termini delle “Questioni”.
Controinformazione per mostrare che la contabilità dei trasferimenti dice esattamente il contrario. Se, come stabilisce l’art. 53 della Costituzione, continuiamo ad attenerci al principio base di finanza pubblica che le tasse si pagano (magari con aliquote progressive) in base al proprio reddito e i servizi si fruiscono in quanto cittadini indipendentemente dal reddito e dalla residenza, risulterà evidente che i trasferimenti Nord-Sud non sono per nulla in linea con l’applicazione di questo elementare principio (ed in misura crescente nel tempo). Il Sud paga in proporzione al reddito più tasse rispetto ai servizi che riceve; viceversa il Nord. Il Sud sopporta una redistribuzione che lo penalizza rispetto all’ipotesi di neutralità fiscale. Se un’ingiustizia fiscale c’è, essa è il contrario di quel che viene lamentato. E ciò risulterebbe rafforzato se , come si dovrebbe fare, si considerassero anche gli effetti redistributivi - fortemente sfavorevoli per il Mezzogiorno - connessi alla gestione del nostro imponente debito pubblico. Tanto più necessaria questa opera di controinformazione in presenza di una retorica “federalista” di tanti meridionalisti più realisti del re lombardo-veneto che alimentano l’ansia collettiva di una salvifica espiazione. Ormai il meridionale medio, si sente soprattutto colpevole di essere cittadino “assistito”, oggettivamente artefice dello spreco e preda e complice, al contempo, della corruzione e dell’illegalità diffusa.
Questa infondata e malintesa ansia di catarsi, è un ingrediente pericolosissimo che alimenta, legittimandola, la prospettiva di perseguire, via federalismo fiscale, la disgregazione della Repubblica.

Qual è il vero volto del Sud? Come superare il gap tra “reale” e “percepito”

di Ernesto Pappalardo,
giornalista economico


Lo scenario della “rappresentazione” del Mezzogiorno si configura come “modello” di riferimento per tentare di comprendere attraverso quale percorso si giunge alla percezione diffusa di una situazione che in molti casi non corrisponde alla “realtà effettuale”. In estrema sintesi, nella fase di diffusione dei diversi “messaggi” che concorrono ad alimentare il circuito delle notizie inerenti il Sud interagiscono una serie di elementi che rendono operativa una “distorsione” dei fatti, stimolando un circolo vizioso: anche le fonti istituzionali arrivano a “leggere” in maniera disinformata analisi, dati, statistiche, studi e ricerche in base ad un meccanismo che privilegia o “strumentalizza” la massa di informazioni che “rappresentano” il Meridione d’Italia. Un esempio pratico per dare concretezza a questa premessa. É ormai da tempo che nell’opinione pubblica e in parte della rappresentanza istituzionale meridionale a tutti i livelli è ben radicato il concetto di uno “squilibrio” nella ripartizione delle risorse assegnate alle varie aree del territorio nazionale in favore del Sud. Sul piano concreto non è proprio così. Studiosi e analisti di chiara fama sostengono l’esatto contrario. Eppure, il “sentiment” prevalente anche nel Mezzogiorno - a livello di ceti dirigenti, oltre che di variegata cittadinanza - è esattamente concorde con quello più diffuso al Nord. Come si giunge a questa situazione? In base a quale percorso di notizie e informazioni? E come si alimentano tante “leggende metropolitane” del genere? Esiste un modello di “disinformazione sistematica” oppure si tratta di carenze strutturali sotto il profilo della capacità comunicazionale dei centri di analisi economica e sociale che si occupano del Mezzogiorno? O, ancora, si verifica una concentrazione non occasionale di entrambi i fattori? Esiste in altri termini anche una responsabilità o, meglio ancora, un’incapacità di mettere a sistema l’itinerario info-comunicativo necessario a veicolare lo stato reale del Sud? Se esistono certamente responsabilità, è chiaro che soprattutto sulle dinamiche finanziarie, imprenditoriali, creditizie, culturali e - quindi - sociali occorrerebbe fare luce sulla base di una ricostruzione puntuale, scientifica per quanto possibile, di come i vettori dell’informazione e della comunicazione abbiano generato non solo un’immagine molto deleteria, ma abbiano anche favorito un processo di “auto-coscienza” eccessivamente negativa anche in larghe fasce della popolazione del Sud e segnatamente tra le giovani generazioni. Insomma: occorre capire bene come sono andate le cose per arrivare, poi, ad immaginare un nuovo modello info-comunicativo più efficace, ma, soprattutto, più rispondente alla necessità di “ricostruire” sulla base della realtà - e solo di quella - che cosa oggi è il nostro Mezzogiorno.
Si potrebbe fare anche di più.
Fare marketing della notizia. Laddove, cioè, i numeri, i fatti sono troppo aridi, si può - e si deve - veicolare in maniera forte e ben costruita la notizia. Troppo spesso, infatti, la “crudezza” dei numeri ha poco appeal per i media.
“Rinforzare” invece la notizia che si vuole veicolare con un commento di scenario, una visione, o quando è possibile, una propria proposta che scaturisca dalla lettura dei fatti, può dare maggiore forza all’Ente che eroga l’informazione. Ovviamente oltre alla “costruzione” della notizia, occorre mettere in piedi anche un meccanismo che in maniera “scientifica” ne segua il percorso per ben “posizionarla” sui media. Ma questo è un altro discorso.

Mezzogiorno Europeo e Mediterraneo: una prospettiva policentrica come speranza interpretativa della metamorfosi in corso

di Pasquale Persico,
direttore Dipartimento Scienze Economiche e Statistiche presso l’Università degli Studi di Salerno


«Partire dalle infrastrutture di trasporto per parlare di sviluppo significa risalire a modelli di sviluppo in parte tradizionali», Albert Hirschman. L’idea che gli investimenti in infrastrutture portino prima o poi ad investimenti direttamente produttivi permane forte anche nella politica di coesione e di sviluppo delle aree arretrate nella Comunità Europea.
Il Piano delle Infrastrutture della Comunità spinge i territori in questa direzione. L’assunzione di logiche di sviluppo di corridoi internazionali invita a pensare in termini di macroaree (corridoio 1, il V, 2d il 24 o “corridoio dei due Mari”) ed esorta a sognare.
L’impatto di tali corridoi sullo sviluppo territoriale non ha misure certe; una serie di studi propendono per il pericolo di una ulteriore divaricazione dei differenziali territoriali. Le teorie sulla dipendenza e quelle sulle difficoltà di una politica progressista portano allo stesso risultato.
Il fatto che le mappe territoriali stiano cambiando per effetto del nuovo modo di misurare le distanze, non più in chilometri ma in tempo di percorrenza, ha in ogni caso rivoluzionato il modo di pensare in termini di accessibilità ai temi della città.
All’idea di approfondire il trade off “quale velocità-quale città” si contrappone un’altra visione corrispondente: “quale città-quale velocità”, quasi a rimarcare che i territori e le città muovono reti multiple e l’accessibilità in termini di tempo segue la percezione identitaria che gli stessi territori cercano di riconoscere.
Potrebbe accadere che le città sui corridoi diventino “più vicine” e i territori aggregati alle città si frammentino e le parti di esso si allontanino.
L’aumento della competitività delle città e delle regioni servite dall’AV, dovuto all’allargamento dei mercati di riferimento, consumo e investimenti, porta a specializzazioni identitarie necessarie alle traiettorie tecnologiche potenziali.
Accanto all’accessibilità assoluta, l’accessibilità relativa - con riferimento ai temi dell’economia dell’agglomerazione - è da approfondire.
Immaginare l’avvento dei corridoi europei come la nuova occasione di sviluppo del Mezzogiorno è impresa non facile. Il Mezzogiorno dopo Eboli è ancora territorio inesplorato in termini di potenziale. Eppure, da quel Mezzogiorno dipende anche il Mezzogiorno delle Grandi Città e dei Grandi problemi, Napoli, Palermo, Bari, Catania, per citare solo quelle legate al tema dei corridoi.
Le barriere monopolistiche di questo territorio-Mezzogiorno sono molte e politicamente diverse da quelle della riduzione dei costi generalizzati di trasporto.
Tuttavia, la tematica dei costi di trasporto e il tema dell’accessibilità alle aree continentali dell’Europa e del Mediterraneo ci fa tornare ai tempi dei Vicerè spagnoli. In quel tempo - direbbe lo storico Giuseppe Galasso - l’idea di una Napoli (Mezzogiorno) Europea e Mediterranea era nel DNA della cultura illuminata: è possibile riaprire questa prospettiva? Su quali soggettività politiche e istituzionali occorrerebbe poggiare la fattibilità del percorso?
Le città e i territori del Mezzogiorno hanno accentuato la voglia di nuova identità ingabbiando spesso le aspettative in localismi senza scala; il pensiero legato alle reti lunghe si è dovuto confrontare con la dominanza del pensiero breve, l’identità vista con gli occhi dei secoli passati e non l’identità vista con gli occhi del nuovo secolo, come inviterebbe a fare il Picasso che è in noi.
Per fare questo salto, i due ragionamenti QV-QC e QC-QV tenuti insieme possono aiutare a vedere davvero con occhi nuovi. Il tema “quale città o quali territori-città” possono essere immaginati come infrastruttura complessa per lo sviluppo del Mezzogiorno è senz’altro impegnativo e il gruppo di riflessione che si è formato intorno all’argomento lavorerà - ci auguriamo - proprio per spalancare gli scenari giusti fino ad immaginare di poter contribuire a ridefinire l’indirizzo strategico della rete transuropea di Trasporto (TEN-T).
La revisione concettuale riguarda il modo di vedere la rete rispetto ai potenziali territoriali fino a moltiplicare gli approcci metodologico-disciplinari oggi dominanti.
La prospettiva per l’impresa rappresentata nell’immagine riguarda anche la necessità di immaginare percorsi innovativi per l’organizzazione territoriale delle aree vaste del Mezzogiorno.
Un cambio nel modo di vedersi o di vedere è necessario. La prima freccia verso il basso riguarda il modo in cui si è operato e si tenta ancora di operare, definire risorse in termini di messi ed immaginare percorsi causa-effetti. Senza trasferimenti mirati il Mezzogiorno non esiste. L’apprendimento di tipo uno chiude le prospettive e nasconde il dopo Eboli come potenziale. La seconda direzione - la freccia in orizzontale - riporta in campo l’approccio progressista, il divario può colmarsi con una evoluzione lenta delle istituzioni, l’impresa e il mercato arriveranno nei settori vocazionali, turismo e beni culturali come gabbie per non entrare nel contemporaneo.
La terza prospettiva per l’impresa è anche la prospettiva per il Mezzogiorno: i Paradigmi Identità e Sviluppo e Identità e Diversità possono essere coniugati del terzo modo di vedere le risorse e l’innovazione fino a prefigurare tre speranze.
La speranza dell’improbabile deve essere perseguita. Si tratta della speranza di far parte di una fascia territoriale ampia che ibrida l’identità europea con quella mediterranea fino a parlare di un nuovo ibrido fertile, felice di essere uscito dalle difficoltà interpretando la post contemporaneità necessaria.
La speranza della metamorfosi completa è invece quella che oggi appare come territorio inesistente o in decomposizione (Napoli e le sue spine, le varie mafie dominanti) deve poter immaginare di potersi trasformare ricucendo le reti a scala virtuosa, fino a riuscire a risanare tessuti estranei o regressivi.
La terza speranza è quella rigenerativa, cioè la capacità di un territorio appartenente alla storia di rinascere, come dimostra l’invisibile agli occhi di quanti - molti in realtà - non sono capaci di vedere oltre il dopo Eboli.
Quali Città dovranno essere progettate per infrastrutturare un Mezzogiorno Europeo e Mediterraneo? Stiamo nel tempo giusto o il tempo è fuori squadra e le velocità di apprendimento sono diverse? Quale Velocità dovrà contribuire a portare in squadra il tempo del progetto della città desiderata?



Download PDF
Costozero: scarica la rivista in formato .pdf
Dicembre - 1.980 Mb
 

Cheap oakleys sunglassesReplica Watcheswholesale soccer jerseyswholesale jerseysnike free 3.0nike free runautocadtrx suspension trainingbuy backlinks
Direzione e Redazione: Assindustria Salerno Service s.r.l.
Via Madonna di Fatima 194 - 84129 Salerno - Tel. (++39) 089.335408 - Fax (++39) 089.5223007
Partita Iva 03971170653 - redazione@costozero.it