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  Dicembre 2012

Articoli n° 10
DICEMBRE 2008
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di Raffaella VENERANDO

2009, Quale approdo per il Mezzogiorno?

L’attuale crisi economica ricadrà con maggiore violenza
soprattutto sulle regioni economicamente più deboli del Paese



La crisi economica che nell’ultimo periodo ha investito i mercati mondiali non accenna in alcun modo a perdere intensità. I suoi effetti negativi sono ancora lontani dall’essersi dissolti e le ripercussioni sull’economia reale paiono presentare un conto ogni giorno più salato.
I numeri con cui i Paesi non solo europei devono misurarsi sono sconfortanti: stando alle stime preliminari sul PIL, messe a punto dall’Istat, il Prodotto Interno Lordo è diminuito in termini congiunturali dello 0,1 per cento negli Stati Uniti, dello 0,5 per cento nel Regno Unito e in Germania. In termini tendenziali, invece, il PIL è cresciuto dello 0,8 per cento negli Stati Uniti e in Germania, e dello 0,3 cento nel Regno Unito.
Le previsioni per il futuro, di rimando, soprattutto quello prossimo, non lasciano grande spazio alla fiducia: c’è chi azzarda una fine delle conseguenze inevitabilmente negative nel 2009 e chi, invece, pensa che la portata della crisi sia così ampia e così “senza precedenti” che l’unica cosa realmente prevedibile è che il peggio probabilmente deve ancora venire. Lo spettro della recessione pare quindi prendere consistenza e, se recessione sarà, la sua natura non potrà essere altro che globale perché ad essere coinvolte saranno tutte le maggiori economie industriali, comprese quelle emergenti.
Dati Unioncamere aggiornati a novembre preannunciano che tra la fine del 2008 e la prima parte del 2009 l’attività economica dei Paesi industrializzati potrebbe subire un’ulteriore contrazione rispetto ai primi nove mesi del 2008, in quanto la perdita di ricchezza e l’inasprimento via via maggiore delle condizioni creditizie stanno erodendo in maniera sensibile quote di investimenti da parte delle imprese e dei consumi da parte dei cittadini.
Ovviamente anche l’economia italiana non è risparmiata da quest’ondata di “cattivo tempo” e l’anno alle porte si preannuncia tutt’altro che roseo.
Nel nostro Paese la crisi finanziaria tra i suoi primi effetti sta avendo quello di seminare su vasta scala massicce dosi di paura, pessimismo e insicurezza sociale. Un’Italia sempre più povera, dove cresce il malcontento e dilaga un senso generalizzato di sfiducia è in effetti quella che viene fuori dall'Annuario Statistico Italiano, pubblicato agli inizi di novembre dall'Istat. Secondo le rilevazioni statistiche - nello specifico - la quota di famiglie che giudica peggiorata la propria situazione economica è del 54,5 per cento, contro il 41 per cento del 2007, mentre scende al 39,4 per cento - l’anno precedente era del 51,9 per cento - la percentuale di chi ritiene sostanzialmente non modificata la propria posizione economica. Addirittura sale al 16,2 per cento la percentuale di chi ritiene invece che la propria condizione economica sia “molto peggiorata” (l’anno scorso la stessa percentuale si attestava intorno al 9,2 per cento).
I consumi stagnano e le imprese tagliano i bilanci per potersi mettere al riparo rispetto a un futuro imminente che non lascia presagire sonni tranquilli. L’Istat inoltre conferma - purtroppo ancora una volta - come sia il Mezzogiorno a subire le più preoccupanti difficoltà economiche. Al Nord infatti la quota di cittadini che dà un giudizio positivo sulla propria situazione economica è del 51,8 per cento , contro il 43,1 per cento del Centro e appena il 33,4 per cento del Sud. Un 18,7 per cento di famiglie residenti nelle regioni del Mezzogiorno poi ritiene che nel 2008 la propria situazione economica si sia di gran lunga aggravata rispetto all'anno precedente. La stessa percentuale, invece, nel Nord del Paese si ferma al 14,9 per cento. Ancora, secondo i dati elaborati a novembre dal Centro Studi di Unioncamere in collaborazione con Prometeia, il Sud pagherà molto cara la recessione con un meno 0,6% per la diminuzione del Pil prevista nel Mezzogiorno contro una media nazionale di meno 0,3%. Il rallentamento della crescita delle esportazioni nel 2009 sarà più accentuato nel Meridione, l'area dove i consumi delle famiglie conosceranno la diminuzione più sensibile.
Sempre stando alle rilevazioni Istat, nel terzo trimestre del 2008 il Prodotto Interno Lordo italiano è diminuito di mezzo punto percentuale rispetto ai tre mesi precedenti e dello 0,9 se paragonato allo stesso periodo dell’anno scorso. Trattandosi quindi di un secondo calo consecutivo, per l’Istat non ci sono dubbi: per l’Italia è necessario parlare di recessione tecnica.
Al quadro già a tinte fosche delineato dall’Istat vanno poi ad aggiungersi i dati altrettanto negativi forniti dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). A fine novembre infatti l'Ocse ha peggiorato ulteriormente le sue stime non solo per il nostro Paese, ma addirittura per l’Europa tutta. Il Prodotto Interno Lordo italiano, dopo il -0,4 per cento segnato quest'anno, dovrebbe andare giù fino all'1 per cento nel 2009. Di rimando, i consumi continueranno a registrare segno negativo per poi riprendersi - si spera - almeno verso la fine dell’anno prossimo. Quanto alla voce occupazione, l'Ocse preannuncia che la disoccupazione passerà dal 6,9 per cento raggiunto nel 2008 al 7,8 per cento previsto per il 2009, fino a raggiungere l’apice massimo dell'8 per cento nel 2010. Previsioni ballerine poi per l’inflazione, che dal 3,5 per cento del 2008, dovrebbe calare all'1,5 per cento nel 2009 per poi rimanere sostanzialmente invariata fino al 2010.
Come ha evidenziato l’Ocse, non sono state solo le spinte recessive degli ultimi tempi a frenare di colpo l’economia italiana. Gli effetti delle turbolenze che la crisi dei mercati finanziari ha portato con sé sono stati e saranno tanto più devastanti se si tiene conto che il nostro Paese già da tempo soffriva di un lungo periodo di rallentamento economico, dovuto ad anni prolungati di bassa produttività, bassa capacità competitività e alto debito pubblico.
Anche la produzione industriale convalida la fase recessiva: -2,6 per cento il dato dichiarato dalle piccole e medie imprese manifatturiere relativo al III trimestre 2008, circa il doppio di quanto emerso nei primi due trimestri dell’anno, come ratificano le ultime rilevazioni di Unioncamere di novembre 2008. La produzione nel Sud e Isole si contrae fino a raggiungere quota -4,6 per cento e in particolare emergenza sono soprattutto le imprese fino a 49 dipendenti (-3,9 per cento). In flessione anche il fatturato delle piccole e medie manifatturiere che - nei mesi tra luglio e settembre - segna una flessione pari al -2,2 per cento ed in particolare al Centro-Sud. I settori più colpiti risultano essere il tessile, abbigliamento e calzature (-5,9 per cento), l’industria cartaria, editoria, oreficeria, giocattoli e altri beni per la persona e per la casa (-5,7 per cento) e il legno-arredo (-4,6 per cento).
Ad una tale situazione difficile, il Governo ha risposto negli ultimi giorni di novembre con un decreto legge ad hoc, che contiene tra l’altro misure studiate per le imprese e le famiglie e che, come ha sottolineato il ministro dell’economia Tremonti, vuole «trasmettere fiducia a chi lavora e a chi consuma. Solo sulla base della fiducia c’è la tenuta complessiva del paese in fase di crisi».
Come era stato annunciato, risulta confermato il bonus per i redditi bassi, il calmiere per i mutui e il blocco degli automatismi delle tariffe per il 2009. Più nel dettaglio, il decreto legge anticrisi prevede uno stanziamento di 2,4 miliardi per il bonus in favore di famiglie, lavoratori, pensionati, non autosufficienti. Il bonus, che verrà erogato a partire da gennaio 2009 attraverso i sostituti d'imposta e gli enti pensionistici, interesserà i nuclei familiari fino a ventiduemila euro e l'importo dipenderà dal numero dei componenti. Per le imprese, invece, è confermato il taglio di 3 punti degli acconti Ires e Irap. Inoltre, per il periodo 2009-2011, in via sperimentale, il pagamento dell’Iva avverrà al momento dell'effettiva riscossione del corrispettivo. Restando in tema Irap, in arrivo una deduzione dall’Ires della quota di imposta che grava sul costo del lavoro e degli interessi. Stanziati 100 milioni per il 2009, 500 milioni per il 2010 e 400 milioni per il 2011. Il pacchetto anticrisi però secondo la Confindustria non è sufficiente, considerata l’eccezionalità della situazione economica. Anche se quello varato dal governo va nella giusta direzione, il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia auspica che «già nelle prossime settimane ci sia uno stanziamento di ulteriori fondi a supporto delle imprese». Confindustria infatti chiede «che vi siano agevolazioni fiscali per le imprese che investono in risparmio energetico e riduzione delle emissioni, e questo deve arrivare da una rimodulazione dei fondi strutturali per ottenere ulteriori risorse a supporto dei redditi, sotto forma di ammortizzatori sociali o di altre risorse che devono andare alle famiglie».

***
L'aggravarsi della crisi finanziaria internazionale ha costretto gli studi di settore a rivedere le prospettive di crescita dell'economia italiana. Previsioni dell’ultima ora confermano infatti che il 2009 sarà un anno difficile, soprattutto per le regioni economicamente più deboli del Paese sulle quali la crisi attuale ricadrà nel tempo con sempre maggior violenza. Difficoltà manifeste nell’accesso al credito per le imprese e crollo dei consumi e della domanda interna mettono in serio pericolo quindi l’economia produttiva italiana che rischia una pericolosa battuta d’arresto.
Abbiamo pertanto chiesto ai presidenti delle Territoriali campane di Confindustria e a due economisti, in base alle loro sensazioni in che modo l’economia reale, colpita dai rovesci negativi della finanza, può tirarsi fuori dalla crisi.



Non abbiamo ricette preconfezionate per uscire dalla crisi.
C’è di sicuro in atto una recessione ed è forte il timore che possa sfociare in depressione.
I summit mondiali stentano ad individuare ed indicare misure coordinate; i governi nazionali, in particolare il nostro, sono presi da vincoli di bilancio che limitano la praticabilità e la portata di misure anticicliche. Non dico le soluzioni, ma almeno la strada percorribile, insieme ad un nuovo governo dei processi mondiali, è quella di dare maggiore risalto all’economia delle imprese e del lavoro.
Quindi in Italia sostegni alle imprese per la maggiore produttività, alle famiglie per salvaguardarne la dignità e per la crescita della domanda interna, agli investimenti infrastrutturali, che sono di per sé una misura anticiclica e sopperiscono al fabbisogno sempre attuale di modernità.
Al termine di questa crisi cambieranno i parametri con i quali fino ad oggi abbiamo operato ed indissolubilmente l'economia avrà nell'etica, nell'eco-sostenibilità, nell'equilibrio della crescita, fondamentali imprescindibili che richiedono un salto culturale da parte di tutti. É una crisi terribile ma anche una occasione storica per riformulare nuovi modelli di sviluppo con rinnovata fiducia.



 Il messaggio che vorrei lanciare è certamente un messaggio di fiducia, vale a dire che le imprese da un lato, e il governo e le Istituzioni dall’altro, devono garantire il massimo impegno per affrontare le difficoltà future.
Soltanto svolgendo, con responsabilità, ciascuno il proprio ruolo si potrà creare un Sistema Paese più forte e capace di tutelare ciò che di buono esiste al proprio interno.
Dal punto di vista economico, ritengo che sia necessario puntare al risanamento di alcune debolezze strutturali del nostro sistema economico: burocrazia; infrastrutture; costo del lavoro.
Insomma tutti interventi tesi a favorire le imprese che vanno messe al centro della politica economica in quanto è solo grazie ad esse che si crea reddito e si genera ricchezza, ed infine, e non per importanza, altri elementi su cui poter intervenire sono e devono essere: riduzione del carico fiscale, interventi che favoriscano e tutelino il made in Italy, incentivi automatici (ad esempio il credito d’imposta), purchè gli stessi siano parametrati e adeguati al prodotto interno lordo regionale.
In ogni caso ritengo indispensabile concentrare tutte le energie verso scelte strategiche capaci di sostenere il sistema economico in questo contesto di difficoltà, evitando strumentalizzazioni politiche inutili e deleterie per l’economia dell’intero Paese.



 Le piccole e medie imprese sono il motore del Paese. Un motore che da qualche mese è in evidente affanno, per effetto di una crisi internazionale che non conosce confini, a quanto pare. Infatti, tutte le nazioni, direttamente o indirettamente, sono coinvolte in questa congiuntura. E tutti i governi, chi più chi meno, stanno intervenendo con misure forti per fronteggiarla.
La crisi preoccupa tutti, e non poco. Forse perché non se ne ha una percezione esatta, né rispetto alle proporzioni né rispetto alla durata.
Nessuno sa dire, infatti, con certezza se la situazione peggiorerà nei prossimi mesi. Quello che è certo, però, è che le piccole e medie imprese italiane stanno scontando, alla base di questa crisi, colpe che non sono proprie.
La crisi, come tutti sanno, affonda le radici nell’anarchia del sistema finanziario. Lo stesso che si è impinguato dei maggiori profitti nell’ultimo decennio. Ora, gli effetti della crisi, pure in presenza di interventi o garanzie di intervento da parte del nostro governo, si stanno manifestando soprattutto attraverso il credito, colpiscono cioè le imprese nel polmone che alimenta investimenti e produzione.
É chiaro che c’è qualcosa che non funziona, in questa storia. E che a pagare non possono essere le imprese, altrimenti pagherà l’intero Paese. E neanche i consumatori, evidentemente, segmento egualmente importante del processo produttivo.
É vero, non bisogna indulgere al pessimismo. Bisogna avere e alimentare fiducia.
E, tuttavia, non è possibile, direi quasi non è morale, che le banche - da cui, in fondo, tutto è cominciato - ora non ci scontano più nemmeno le fatture. Non solo. Sta diminuendo la liquidità, c’è una restrizione di cassa, sono aumentati anche in modo ingiustificato spread e commissioni sui finanziamenti a breve, c’è una richiesta maggiore di garanzie sui finanziamenti a medio e lungo termine, un rallentamento dei tempi di risposta delle domande o ampliamento dei fidi.
Ed è esattamente quello che non dovrebbe accadere per uscire dalla crisi. Oltre, naturalmente, ad un consistente taglio delle tasse, da parte del governo, per imprese e famiglie. La speranza è che presto prevalga il buon senso. Ne va del bene di tutti.



 L’area che rischia di subire i maggiori colpi dalla crisi, con conseguente probabile inasprimento delle tensioni sociali, è il Mezzogiorno.
L’Unione Industriali di Napoli ha sostenuto in questi anni l'applicazione di una fiscalità di vantaggio nel Mezzogiorno. L’ipotesi di un provvedimento ad hoc non ha avuto un via libera da parte dell’Unione Europea, ma non si è mai avuta la sensazione che fosse posta con la necessaria determinazione dai vari Esecutivi alternatisi alla guida del Paese.
C’è tuttavia una misura tecnica, proposta da tempo dal sottoscritto e condivisa anche da economisti di fama nazionale come Tito Boeri, che potrebbe assicurare un concreto vantaggio per il Sud pur essendo indirizzata a tutto il territorio nazionale.
Si tratta della defiscalizzazione dei redditi più bassi, operazione che consentirebbe da un lato di abbattere il costo del lavoro per le imprese, dall'altro di innalzare la propensione al consumo delle fasce più deboli.
Proprio perché applicabile all'intero Paese, la misura non andrebbe incontro a divieti comunitari. Gli effetti positivi tuttavia sarebbero indubbiamente maggiori nel Mezzogiorno, laddove vivono i due terzi delle famiglie a basso reddito.
Oltre a rendere più competitive le imprese, il provvedimento favorirebbe una ripresa dei consumi e quindi della domanda interna. Anche qui, con efficacia accresciuta per le aree meridionali, dove le imprese hanno tassi di internazionalizzazione inferiori a quelli medi del Paese.
L’altro fronte fondamentale su cui agire è il rapporto con le banche.
Lo sta facendo Confindustria a livello nazionale. Lo ha fatto l’Unione Industriali di Napoli, che ha già attivato un tavolo anti-crisi con tutti i principali istituti di credito operanti sul territorio.
L’obiettivo è scongiurare fenomeni di credit crunch, tali da avvitare la recessione in un circuito vizioso (meno credito, meno investimenti, meno lavoro, meno consumi).
Infine, è auspicabile, come ho ribadito anche nella relazione alla recente Assemblea Pubblica dell’Unione Industriali, l’esclusione dal patto di stabilità di qualsiasi investimento per le infrastrutture e la sicurezza realizzato nel Mezzogiorno.



 Le prospettive di recessione per il 2009 possono stimolare un’azione straordinaria di sostegno al tessuto delle imprese locali, dando un impulso decisivo alla risoluzione delle criticità che impediscono da tempo alla nostra economia di competere sui mercati.
La capacità di ascolto e di dialogo reciproco con la componente istituzionale è di estrema rilevanza per “remare” tutti nella stessa direzione, soprattutto in un momento così delicato e complesso. Non è il momento delle rivendicazioni o, peggio ancora, dei distinguo o delle recriminazioni.
Tra i principali interventi che riteniamo urgenti e necessari rientrano certamente: il miglioramento degli asset infrastrutturali; l’efficienza e la trasparenza della Pubblica Amministrazione; eliminazione dell’addizionale regionale Irap e l’ottimizzazione dell’utilizzo degli strumenti contenuti nel PASER (Piano di Sviluppo Economico Regionale) considerando la necessità di ampliare aree e settori di intervento in base alle eccellenze aziendali e non soltanto facendo leva su una predeterminata griglia di comparti ritenuti “trainanti”.
Tutte le componenti territoriali con senso di responsabilità, nel rispetto di ruoli e competenze, devono profondere il massimo sforzo per arginare un pericoloso declino della produzione industriale e della capacità di generare ricchezza ed occupazione.
Il sistema-Paese è chiamato a fare squadra nel momento di massima difficoltà dell’economia mondiale e nazionale.


 Quella che stiamo vivendo può essere definita come “la crisi di un mondo di bassi salari”.
Si tratta di un mondo che è sorto a seguito della politica di deregolamentazioni che nel corso degli ultimi anni ha investito tanto i mercati finanziari quanto il mercato del lavoro.
Queste deregolamentazioni hanno ridotto il potere contrattuale dei lavoratori, e hanno quindi determinato incrementi salariali sempre inferiori alla produttività. Essendo però bassi i salari anche la domanda interna si è tenuta molto bassa.
Di conseguenza i singoli paesi hanno sempre più insistentemente cercato sbocchi per le proprie merci al di fuori dei confini nazionali.
Questo meccanismo ha funzionato perché gli Stati Uniti per lungo tempo hanno agito some una sorta di “spugna assorbente” delle eccedenze produttive degli altri paesi.
E questo è avvenuto non perché i salari dei lavoratori americani fossero particolarmente alti, ma perché negli USA montava un debito privato assolutamente gigantesco.
Ora però la bolla del debito americano è esplosa. L’era del dollaro come fulcro del sistema mondiale probabilmente è al crepuscolo e quindi gli Stati Uniti non sembrano più in grado di agire da “spugna” delle eccedenze di produzione mondiali.
Adesso il rischio è che i singoli stati si chiudano in se stessi, alla strenua difesa dei capitali nazionali. Abbiamo già numerosi segnali del tentativo di sostenere le industrie nazionali tramite svalutazioni, sussidi, addirittura esplicite protezioni, e comunque tramite il vecchio, solito contenimento dei salari interni.
Questo tipo di soluzione conflittuale e scoordinata rischia di aggravare la crisi, poiché ogni paese cercherà di scaricare la recessione sugli altri.
Urge quindi trovare una alternativa praticabile. Sotto questo aspetto l’Europa potrebbe proporsi per supplire almeno in parte al ruolo fin qui svolto dagli Stati Uniti.
Ma il Vecchio Continente è reduce da anni di politica economica fortemente restrittiva nell’ambito della quale i salari sono stati piu che compressi e la spesa pubblica è stata sottoposta a pesanti vincoli.
La soluzione allora potrebbe consistere in una svolta di politica economica che trasformi l’Europa in una locomotiva virtuosa, capace di fondare il proprio sviluppo sulla espansione della domanda interna e quindi anche dei salari, sia di quelli diretti sia di quelli indiretti.
Per il momento di questa svolta europea abbiamo solo timidi accenni, vaghi e scomposti.
La gravità della crisi richiederebbe invece interventi vigorosi e coordinati, ossia azioni fondate sull’ampliamento del bilancio pubblico europeo e non demandate solo ed esclusivamente ai bilanci dei singoli stati.



 La rilevanza omogeneamente globale (nessun paese tra le economie sviluppate, quelle in via di sviluppo e quelle emergenti è stato risparmiato), le ricadute capillarmente locali (centinaia di milioni, forse più di un miliardo, di risparmiatori e di famiglie colpiti) e la dimensione addirittura maggiore rispetto ai precedenti tracolli suggeriscono di evitare, nei confronti della crisi che stiamo attraversando, la formulazione di ricette che, come una coperta corta, per quanto prevedano l’erogazione di risorse per svariati miliardi di euro/dollari da parte di quasi tutti i governi del G8, paiono comunque non sortire effetti apprezzabili, se non salvataggi clamorosi di cui è giusto e pio - come dice Umberto Eco nell’incipit de “‘Il nome della rosa” a proposito del monastero su cui è incentrato il romanzo - non saperne di più.
Eppure, se si guarda con attenzione al territorio nazionale e al suo assetto produttivo, alcune riflessioni in tempo di crisi possono ugualmente essere svolte, in particolare con riferimento alla maggiore tra le implicazioni (e le preoccupazioni) derivanti dalla crisi, ossia la stretta creditizia che si teme stia già colpendo, e che comunque potrebbe fisiologicamente colpire, milioni di piccole e medie imprese in Italia, già dall’inizio del 2009. Sarebbe facile dire, come molti autorevoli commentatori pure osano fare, che in questi momenti occorre investire, che alla sfiducia si risponde con la fiducia. Conosco molti piccoli imprenditori operanti a diverse latitudini del nostro paese, e posso immaginare la gracilità competitiva di moltissime imprese, anche se spesso essa si abbina ad una notevolissima resilienza, il che però quasi mai elimina il problema dell’inadeguatezza competitiva e manageriale di questi imprenditori, e quindi la quasi endemica inefficienza delle loro imprese.
In un tale contesto, allora, più che azioni dirigiste concertate a Bruxelles e Francoforte, e attuate dai governi nazionali nei confronti dei rispettivi sistemi bancari, per il nostro paese potrebbe risultare salutare un’azione volta a rendere il tessuto produttivo più forte dal punto di vista manageriale e finanziario e, in quanto tale, meno vulnerabile alle eventuali strette creditizie.
In altri termini, poiché è ampiamente dimostrato - oltre che dai dati descrittivi dell’Istat anche dalle rilevazioni più in filigrana realizzate dalla Società per gli Studi di Settore, SOSE, in tutti i comparti dell’economia italiana - che una percentuale superiore al 90% delle imprese in Italia fattura meno di 5,16 milioni di euro (i vecchi 10 miliardi) e impiega meno di 10 persone, occorre che il governo supporti e incentivi tutte quelle piccole imprese e società di persone ad evolvere, attraverso acquisizioni, fusioni e consorzi in società di capitali, con i seguenti vincoli: all’atto della fusione/acquisizione/consorzio la nuova società deve dichiarare almeno 50 addetti e la somma dei fatturati nei due anni precedenti dei soci, o delle società fuse, o confluite in consorzio deve superare i 5 milioni di Euro; la nuova società/consorzio deve registrare vendite pari ad almeno il 25% del fatturato entro i primi tre anni, e pari al 75% entro i primi sei, in almeno 5 regioni italiane oltre a quella di appartenenza; dovrà poi riuscire a conseguire almeno il 15 del fatturato dalle esportazioni entro i primi 3 anni e almeno il 20% sempre dal quarto anno in avanti; migliorare sensibilmente i propri ratios di capitale umano (rapporto addetti laureati/non laureati; rapporto tra portafoglio capacità innovativa/portafoglio prodotti; rapporto prodotti innovativi/prodotti imitativi; e così via - non menziono i dati relativi alle capacità brevettuali e di ricavi alternativi perché sarebbe inutile, meglio un passo alla volta).
In cambio, il governo dovrebbe garantire un regime fiscale agevolato - da negoziare con Bruxelles dato il carattere di aiuto nazionale che potrebbe rivestire, ma si tratterebbe di un’una tantum in tempo di crisi - ed emanare una sorta di sanatoria fiscale per i tre anni precedenti - per le piccole imprese, ditte individuali e società di persone che, accettando di evolvere in forme giuridiche e competitive evolute, accettano di sposare, oltre che una maggiore managerialità e solidità finanziaria, anche una maggiore trasparenza per il futuro. Premiando tuttavia chi non vi faccia ricorso, attraverso incentivi fiscali per l’innovazione tecnologica e l’export.
Il ritorno per l’erario da questa “emersione” sarebbe duplice: in prima battuta, tutta l’area di evasione dei soggetti adesso confluiti in società di capitali verrebbe fortemente ridimensionata per il futuro; in seconda battuta, tali attività avrebbero maggiore competitività sui mercati nazionali e internazionali, e quindi maggiori fatturati ed entrate per l’erario. Il saldo sarebbe positivo, sotto tutti i punti di vista, soprattutto per la modernizzazione del tessuto produttivo e per la competitività internazionale del sistema paese, in vista della prossima crisi…


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