di Antonello Tolve
Critico d’arte
Gli SPAZI della CRITICA
Il dibattito teorico attraverso le mostre 1980‑2010 Anni Ottanta #4
«Abbiamo bisogno di mostre che rimescolino i confini dell'arte e del mondo dell'arte, di un influsso di artefatti esterni veramente inassimilabili» ha suggerito James Clifford in un suo libro luminoso del 1988.
Questo perché bisogna rivedere, criticare e trasformare «i rapporti di potere grazie a cui una parte dell'umanità può selezionare, valutare e collezionare i frutti puri delle altre» regioni del mondo. Ma «non è compito da poco», apostrofa l'antropologo statunitense.
«Nel frattempo si possono almeno immaginare mostre che mettano in risalto le produzioni impure, inautentiche della vita tribale passata e presente; mostre radicalmente eterogenee nella loro totale misura di stili; mostre che si situino in specifiche giunzioni multiculturali; mostre in cui la natura rimanga innaturale; mostre in cui i principi d'incorporazione siano apertamente discutibili».
A questa linea immaginativa pare aver risposto, con un po' di ingenuità e di triviale pluralisme a detta di Yves Michaud, ma non senza entusiasmo naturalmente, Magiciens de la Terre, una mostra aperta al pubblico dal 18 maggio al 14 agosto 1989. L'interazione, il multiculturalismo e l'apertura all'alterità.
Ma anche, e soprattutto, il collasso definitivo dell'eurocentrismo e il dialogo con – e tra – le differenti civiltà. Nel 1989, un anno dopo la pubblicazione del libro The Predicament of Culture: Twentieth Century Ethnography, Literature and Art, e stesso anno in cui cade il muro di Berlino e si schiude il progetto politico planetario per l'organizzazione di una pericolosa cultura globale, Magiciens de la Terre riprende, difatti, una riflessione cruciale sull'arte legata a quello che Alfred Sauvy ha definito tiers monde, parafrasando il tiers état messo in campo da Emmanuel-Joseph Sieyès durante la Rivoluzione Francese. Nata con lo scopo di celebrare le Bicentenaire de la Révolution française e la Déclaration des droits de l'homme et du citoyen, Magiciens de la Terre rappresenta, così, il primo modello espositivo che, se da una parte offre un ampia selezione di autori e opere provenienti da diversi paesi extraeuropei, dall'altra mettere in risalto una trasformazione radicale dell'arte contemporanea ponendo l'accento – cent'anni dopo L'Esposizione Universale di Parigi (1889) dedicata all'esotismo e dopo le varie avventure dell'arte negra nel panorama avanguardistico europeo – su una mappa creativa di artisti africani post-coloniali [Richard Oniango e David Ochieng (Kenia), Georges Lilanga e Maurus M. Malikita (Tanzania), Cyprien Toukoudugba (Mali), Esther Malangu (Sud Africa), Seni Camara (Senegal)] sconosciuti al popolo dell'arte e agli addetti ai lavori perché mai usciti dal loro paese d'origine. Disegnata da Jean-Hubert Martin per gli spazi parigini del Musée national d'art moderne/Centre Georges Pompidou e per quelli della Grande Halle de La Villette (París), Magiciens de la Terre si pone, allora, come un vasto contenitore che esprime (attraverso 104 artisti) un confronto tra paesi diversi e colloca al centro della discussione il quesito della «décontextualisation de la tradition des autres culturess» (Martin). Figlia di alcuni studi proposti sulle riviste Third text.
Third world perspectives on contemporary art and culture e Revue noire, Magiciens de la Terre è, dunque, una mostra che – al di là delle varie innocenze – vuole rendere partecipe una generazione di artisti extracontinentali alla vita dell'arte contemporanea, togliendoli dal silenzio al quale li ha relegati l'Occidente, «car enfin ce tiers monde ignoré, exploité, méprisé comme le tiers état, veut lui aussi, être quelque chose» (Sauvy). Una mostra sull'espansione degli orizzonti culturali e sull'integrazione necessaria.
Su una cartografia planetaria che – al di là delle varie critiche – si pone come luogo privilegiato per mostrare la situazione dell'arte contemporanea in tutte le sue frammentazioni e le sue pulsanti diversità. |