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  Dicembre 2012

Articoli n° 07
AGOSTO/SETTEMBRE 2010
 
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MEZZOGIORNO: la Svimez indica le "mosse" per il rilancio

L'INTERVISTA - Bianchi: «Non c'È futuro per il Mezzogiorno senza un'industria manifatturiera competitiva»

Bianchi: «Non c'È futuro per il Mezzogiorno senza un'industria manifatturiera competitiva»

«La denuncia di troppo torpore, e ancora troppa disattenzione nei confronti del Sud, non può cadere nel vuoto. Negli ultimi anni non è stata messa in cantiere alcuna proposta efficace per affrontare i tanti ritardi strutturali presenti nel Mezzogiorno»

di Raffaella Venerando

Dottor Bianchi, l'ultimo Rapporto Svimez restituisce cifre agghiaccianti. Emerge inesorabile il crollo dell'industria che al Sud è addirittura "a rischio di estinzione". A soffrire sono soprattutto le grandi imprese. È davvero così critica la situazione produttiva nel Mezzogiorno?
Nel Rapporto Svimez 2010 abbiamo lanciato un grido d'allarme rispetto al futuro dell'industria e del settore manifatturiero nel Mezzogiorno poiché gli ultimi anni sono stati contraddistinti da una progressiva, ma inesorabile, riduzione dell'occupazione manifatturiera al Sud. Quella che "raccontiamo" è una crisi di carattere strutturale, partita molto prima della grande crisi mondiale e che, purtroppo, rischia di andare ben oltre la congiuntura. Nel Mezzogiorno, infatti, già dal 2000 i settori tradizionali - vedi tessile, abbigliamento, mobili - hanno faticato a ricollocarsi nel nuovo quadro internazionale, a causa della concorrenza aggressiva dei paesi a basso costo del lavoro; su queste difficoltà strutturali poi si è innestata la grave crisi internazionale che non ha fatto altro che accelerare il processo di perdita di competitività in atto. I dati relativi all'industria mostrano che il valore aggiunto nel solo 2009 si è ridotto del 15,6% per i settori tradizionali, ma anche per la grande impresa pesante presente nel Mezzogiorno; in più sempre nello stesso lasso temporale anche le esportazioni hanno subito un brusco rallentamento. La causa è sostanzialmente una: da troppi anni manca per il Sud un vero e proprio disegno di politica industriale. I casi di Termini Imerese e di Pomigliano d'Arco - la questione Fiat per intenderci - hanno posto in evidenza come non sia assolutamente possibile lasciare ad una sola grande impresa il futuro industriale di quest'area del Paese. La vita produttiva, economica e di rimando anche sociale di una regione grande come la Campania, ad esempio, non può essere legata ad una sola industria. Ad oggi è pericolosa - e lo si è visto - la dipendenza così forte da quel tipo di investimento.

Un altro dato preoccupante è quello legato al tasso di disoccupazione giovanile.
Le vittime silenziose della crisi e degli errori commessi dalle classi dirigenti politiche nazionali e regionali sono senza dubbio le giovani generazioni. Assistiamo a un vero paradosso: mentre infatti i giovani rappresentano la punta più avanzata del Mezzogiorno perché maggiormente scolarizzati e sensibili al cambiamento, al tempo stesso risultano la parte più penalizzata. Al Sud sono soprattutto i giovani al di sotto dei 35 anni a riscontrare le maggiori difficoltà di accesso al mercato del lavoro. Cresce così ineluttabile anche l'area grigia di inattività in questa parte del Paese, perché in molti per lo scoramento, smettono addirittura di cercarlo un lavoro. L'unica via di fuga rimane quindi l'emigrazione che porta via dal Mezzogiorno soprattutto i laureati, i laureati eccellenti, quelli che hanno concluso il ciclo di studi con le migliori votazioni. Di questo passo, l'unica forma di mobilità sociale al Sud rischia di diventare la mobilità tout court e questo è inaccettabile. Tanti giovani infatti scelgono – se di scelta si può parlare – di emigrare al Centro-Nord e questa onda di emigrazione è la prova più sconcertante della totale incapacità delle classi politiche di investire su quella che invece potrebbe essere "la leva" di svolta e di cambiamento.

I toni pessimistici del Rapporto hanno subito più di qualche critica. Come risponde a chi vi ha bollati come apocalittici?
Alla Svimez siamo profondamente convinti del lavoro svolto. Abbiamo posto con forza il problema di una questione sociale nel Mezzogiorno, cosa che personalmente rivendico come un importante contributo dato al dibattito pubblico nazionale. Le sole campagne ideologiche contro i fannulloni, piuttosto che contro i cialtroni, a poco servono se prescindono dal fare luce sulle reali condizioni di vita del Mezzogiorno. Restano così pura accademia e sterili chiacchiere da salotto. I dati allarmanti sulla disoccupazione, sulla povertà crescente sono temi che un dibattito di politica economica non meramente giornalistico dovrebbe tenere presente. Ci sono dei cittadini che stanno soffrendo non solo a causa degli errori della classe politica dirigente locale contro cui si punta il dito, ma anche per effetto di lunghi anni di totale attenzione della politica nazionale verso il Mezzogiorno. Ritengo che fosse necessario avere toni così duri nel fotografare lo stato delle cose al Sud, non a fini rivendicazionisti, ma nel tentativo di richiamare con forza la responsabilità collettiva delle classi dirigenti centrale e regionale perché i fallimenti sono ascrivibili ad entrambe. Peraltro, il nostro pessimismo non è fine a se stesso ma legato a un contributo operativo, a delle proposte. Non ci fermiamo alla denuncia, ma indichiamo la strada secondo noi più adeguata per far ripartire il Mezzogiorno.

Qual è questa strada e di quali proposte è fatta?
Noi come Svimez abbiamo indicato alcuni obiettivi guida che dovrebbero essere il perno intorno cui disegnare la politica industriale per il Mezzogiorno: sostegno alla ricerca e supporto all'innovazione tecnologica, all'aumento dimensionale delle aziende, alle reti di impresa, alla valorizzazione delle filiere produttive. Bisogna tornare ai fondamentali della politica industriale, completamente persi di vista negli ultimi anni. Questa totale disattenzione per lo sviluppo del Mezzogiorno, associata ad una cattiva gestione delle classi dirigenti politiche locali, non ha fatto altro che depauperare il Mezzogiorno, desertificandolo di investimenti ma fortunatamente non di prospettive. Sia chiaro però: non c'è futuro per il Mezzogiorno senza un'industria competitiva. Alla Svimez siamo convinti occorra un grande progetto di sviluppo nazionale che vada oltre le dicotomie oppositive nord-sud. Come accadde nel dopoguerra, dobbiamo dimostrare che la crescita del Mezzogiorno è funzionale allo sviluppo dell'intero Paese. Per questo abbiamo recuperato il concetto di "Mezzogiorno come frontiera", ovvero come area in cui sperimentare nuove linee di sviluppo. Sostanzialmente, la frontiera Sud deve passare per un rafforzamento delle vie dell'internazionalizzazione attiva: torna allora sotto i riflettori la grande prospettiva del Mediterraneo che però rischia di diventare una giaculatoria già sentita se, nonostante oggi un quarto delle esportazioni del Mezzogiorno sia rivolto verso i Paesi extra Ue, ancora l'integrazione economica è così complicata da aversi. Altra leva su cui insistere sono poi gli investimenti in ricerca e innovazione. Anche qui le prospettive sono di valore, soprattutto perché capaci di valorizzare il capitale umano, ma ancora mancano progetti di dimensione rilevante nonostante i fondi Ue che, in parte, verso questo obiettivo dovrebbero essere indirizzati. Infine, al Mezzogiorno un volano per lo sviluppo potrebbe essere la green economy, intesa non solo come la possibilità di produrre energie alternative, ma anche come occasione per rinnovare i settori tradizionali. Si pensi ad esempio agli investimenti in prodotti e tecnologie green da inserire in settori tradizionali, come sta già accadendo nella chimica verde. Si sta sviluppando tutto un mercato di prodotti "verdi" sui quali deve essere l'intero Paese ad investire. Tutte queste nuove vie per la crescita e il riallineamento del Mezzogiorno con il resto del Paese però ne sottintendono una imprescindibile, preliminare, che da sempre rappresenta la grande emergenza irrisolta del Sud: le infrastrutture. Abbiamo pertanto proposto un progetto di infrastrutture di trasporti che, con un costo complessivo di circa 38 miliardi di euro, consentirebbe di rendere finalmente realtà le grandi direttrici stradali nord-sud: faccio riferimento al completamento dell'Autostrada Salerno-Reggio Calabria e della Statale "Jonica"; alla realizzazione di nuove tratte interne alla Sicilia; all'estensione dell'Alta Capacità (se non dell'Alta Velocità) nel tratto ferroviario Salerno-ReggioCalabria-Palermo-Catania (a completamento del Corridoio I Berlino-Palermo); al nuovo asse ferroviario Napoli-Bari. La loro non ultimazione non dipende, e non è mai dipesa, da un deficit di risorse: forme di finanza di progetto e di partenariato pubblico-privato sarebbero gli strumenti più adatti al reperimento delle risorse. Noi di Svimez abbiamo invitato sia le Regioni sia il Governo centrale a partecipare a questo piano di rilancio del Paese. Staremo a vedere se il nostro invito sarà

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