Il Ddl sulla Cooperazione
allo Sviluppo: molto da rifare
Giovannangelo MONTECCHI PALAZZI
Vice Presidente Assafrica & Mediterraneo-Confindustria
Lo “slegamento” aprioristico degli aiuti
rappresenta un’ulteriore manifestazione
di freddezza verso il settore privato
Il DdL sulla cooperazione allo sviluppo contiene delle proposte che meritano di essere approfondite.
Una prima riguarda la creazione del “Fondo Unico” nel quale far confluire tutti i mezzi finanziari destinati a vario titolo alla cooperazione bilaterale: stanziamenti per doni e per crediti di aiuto, fondo rotativo alimentato dai rimborsi dei crediti di aiuto concessi in passato, eventuali donazioni private.
É una proposta valida, sollecitata da tempo, volta a conferire snellezza operativa e capacità di adattamento alla cooperazione bilaterale, quella che l'Italia gestisce direttamente, oggi tramite la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo (DGCS) del Ministero Affari Esteri, e in futuro, se il DdL in esame venisse convertito in legge, tramite l'Agenzia per lo Sviluppo e la Solidarietà Internazionale (Agenzia).
Ma è una proposta timida perché, a mio avviso, dovrebbe essere estesa a tutto l'Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS) italiano, sia quello erogato in via bilaterale che quello destinato al canale multilaterale, quello, cioè, versato ad organismi internazionali quali l'agenzia europea FES, la Banca Mondiale, le varie Banche Regionali di Sviluppo e le tante Agenzie delle Nazioni Unite. L'APS multilaterale è gestito dalla DGCS per quanto riguarda il FES, dal Ministero dell'Economia e delle Finanze (MEF) quanto al resto. IL DdL intende trasferire all'Agenzia le competenze della DGCS lasciando immutate quelle del MEF.
Obiettivo della proposta che avanzo, creare un Fondo Unico omnicomprensivo, è sottoporre ogni anno all'esame del Parlamento in sede di legge Finanziaria, in modo organico e non occasionale, la ripartizione dell'APS tra i due canali suddetti, bilaterale e multilaterale.
Si potrebbe così superare gradualmente un'anomalia tutta italiana ben poco nota: mentre i Paesi OCSE erogano i loro aiuti per i 3/4 tramite il canale bilaterale e per 1/4 tramite quello multilaterale, l'Italia destina solo 1/5 del suo APS al bilaterale e ben 4/5 al multilaterale. In conseguenza di tale anomalia si perde per 4/5 la visibilità dello sforzo finanziario italiano e si demanda l'esecuzione della politica di cooperazione ad organismi finanziari internazionali sui quali, ad eccezione dal FES, l'influenza del nostro Paese è pressoché nulla. Viene così disatteso il principio, stabilito dalla legge in vigore, la 49/98, e ribadito dal DdL, che la politica di cooperazione è parte integrante della politica estera italiana. Le cause dell'anomalia sono almeno tre: 1. “onda lunga di Tangentopoli” e conseguenti timori e complicazioni amministrative che per tre lustri hanno spinto la DGCS a delegare all'estero funzioni proprie; 2. inadeguatezza delle strutture tecniche della DGCS che ha rallentato l'esecuzione dei programmi e progetti bilaterali; 3. mantenimento di posizioni di prestigio nelle Istituzioni Finanziarie Internazionali (IFI): le varie Banca Mondiale, Interamericana, Asiatica, Africana ecc..
L'ultimo punto richiede un chiarimento. Gli equilibri interni alle IFI rispecchiano rapporti economici e situazioni politiche risalenti a decenni or sono. Sono, quindi, largamente superati e lo saranno sempre più nei prossimi anni. Già si sta discutendo una nuova allocazione delle quote di partecipazione al Fondo Monetario Internazionale, cardine dell'ordinamento finanziario mondiale. É inevitabile che, a seguito del rapido emergere di nuove potenze economiche e del conseguente minor peso relativo dell'Italia, anche le sue quote di partecipazione alle IFI vengano riconsiderate.
Né, anche ammettendo che certe contropartite possano essere obiettivo della cooperazione allo sviluppo, la destinazione alle IFI di circa 2 miliardi di euro l'anno può essere giustificata dai modestissimi ritorni che ne derivano in termini di influenza, di personale e di esportazioni italiane. Per non parlare dei meschini ritorni di potere burocratico e d'incarichi all'estero per i funzionari del MEF, la cui competenza specifica è, oltretutto, opinabile.
Per riequilibrare la politica italiana di cooperazione allo sviluppo è, dunque, necessario che tutti gli stanziamenti per APS confluiscano in un Fondo Unico veramente omnicomprensivo, in luogo di formare oggetto di provvedimenti legislativi “ad hoc” o di essere distribuiti dalle Leggi Finanziarie in varie Tabelle separate, nelle quali solo gli esperti di contabilità dello Stato riescono a raccapezzarsi, e, da queste, in tanti inalterabili capitoli di spesa.
Altra proposta del DdL è creare l'Agenzia per lo Sviluppo e la Solidarietà Internazionale (Agenzia) in sostituzione della DGCS del Ministero Affari Esteri.
La cooperazione italiana ha due scopi: uno, primario, di promuovere lo sviluppo dei PVS ed uno, accessorio ma rilevante, di essere strumento della politica estera italiana di cui essa, come viene ripetuto nel testo del DdL, è parte integrante.
Ai fini del primo scopo, Agenzia o DGCS, una soluzione vale l'altra purché l'operatività funzioni. Questo, dopo Tangentopoli, è stato sicuramente il tallone d'Achille della DGCS e concausa del feroce e del tutto anomalo squilibrio tra cooperazione bilaterale e multilaterale.
Ai fini del secondo scopo, invece, la separazione è negativa. Nei Paesi che hanno diviso la politica estera da quella di cooperazione allo sviluppo mediante la creazione di Agenzie o di Ministeri dedicati si sono spesso verificati contrasti, il più noto dei quali tra una battagliera Junior Minister inglese ed il Foreign Office. Se ciò è accaduto all'interno di un contesto politico che tende ad esprimere Governi coesi, è facile immaginare cosa accadrebbe in presenza di Governi compositi ed instabili come quelli italiani.
Questo è il primo motivo per il quale propendo nettamente per il mantenimento della situazione attuale, purché accompagnata da un indispensabile robusto rafforzamento delle strutture tecniche dalla DGCS: UTC - Unità Tecnica Centrale e UTL - Unità Tecniche Locali dislocate nei Paesi assistiti.
Il secondo motivo è il timore di un nuovo “carrozzone”. Il DdL prevede che l'Agenzia possa erogare direttamente servizi ed eseguire progetti, valendosi precipuamente della collaborazione delle ONG, sostituendosi, così, alle imprese nelle attività di consulenza, progettazione ed esecuzione materiale di opere.
La marginalizzazione del settore privato, salvo le ONG, da tali attività è talmente strabiliante da dover ipotizzare un refuso. Difatti è esattamente l'opposto della prassi degli organismi internazionali e della U.E. che per studi, progettazione ed esecuzione dei loro progetti ricorrono a consulenti ed aziende selezionate, sotto il profilo tecnico, in base alle loro capacità dimostrate e, sotto quello economico, mediante gare.
Riesce difficile, poi, immaginare che l'Agenzia possa sostituirsi validamente alle imprese in interventi complessi. Sarebbe come se l'Anas si trasformasse nella più grande società italiana d'ingegneria e costruzioni per realizzare e gestire direttamente la rete stradale ed autostradale italiana.
Né, fermo restando il ruolo fondamentale delle ONG in altri settori, si comprende come potrebbero sostituirsi alle imprese senza snaturarsi.
É da sperare che, nonostante certe dichiarazioni di esponenti di ONG, si tratti di un refuso perché ogni altra ipotesi condurrebbe a valutazioni ben poco lusinghiere.
Un terzo tema è il “legamento” degli aiuti, cioè il collegamento degli interventi di cooperazione a forniture di beni e servizi d'origine italiana. In merito il DdL, immediatamente dopo aver fatto riferimento alle norme del DAC (Development Assistance Committee) dell'OCSE, stabilisce che «nelle attività di cooperazione sia privilegiato, compatibilmente con la normativa comunitaria, l'impiego di beni e servizi prodotti nei Paesi e nelle aree in cui si realizzano gli interventi».
Premesso che non esiste una normativa comunitaria diversa da quella OCSE-DAC, si tratta di una reiterazione che ha un retrogusto di animosità preconcetta verso le imprese italiane. Vediamo perché.
Come sa ogni addetto ai lavori, lo “slegamento” degli aiuti è, giustamente, perseguito da anni mediante dettagliati accordi raggiunti in sede OCSE-DAC, accordi che, attraverso revisioni periodiche, diventano sempre più favorevoli all'impiego di beni e servizi prodotti nei PVS. Difatti, già da anni, gli aiuti ai PMA - Paesi Meno Avanzati debbono essere totalmente “slegati”, mentre quelli verso i rimanenti PVS possono essere “legati” solo se hanno un elemento dono non inferiore all'80%, vale a dire solo se concessi a condizioni finanziariamente onerosissime.
Sappiamo anche che i progetti “commercially viable”, quelli che si autofinanziano, non possono beneficiare di aiuti.
Infine, sappiamo che 4/5 degli aiuti italiani sono multilaterali e per tale motivo di per sé “slegati”, mentre del rimanente 1/5 i doni, i contributi alle ONG e gli interventi di emergenza sono sempre stati “slegati”. Restano solo i crediti di aiuto sottoposti ai vincoli degli accordi OCSE-DAC e che, oltretutto, il Comitato Direzionale della Cooperazione tende a “slegare” per percentuali rilevanti.
Era, dunque, davvero necessario ripetere lo stesso principio, peraltro giusto e non contestabile, due volte nello stesso articolo? Dopotutto, che male vi è se, nel rispetto delle regole internazionali e nazionali e a seguito di gara, un'azienda italiana esegue un'iniziativa della Cooperazione italiana? Si può, anzi, affermare che “coeteris paribus” è un fatto auspicabile perché rafforza l'immagine del nostro Paese. Purtroppo, credo non si tratti di una ripetizione, ma di un moto di rigetto aprioristico.
Riassumendo, ritengo che: 1. il DdL non affronti il nodo principale della cooperazione italiana allo sviluppo: lo squilibrio del tutto anomalo tra aiuti bilaterali e aiuti multilaterali; 2. l'Agenzia proposta dal DdL sia nociva ai fini della politica estera italiana e crei le premesse per la nascita di un ennesimo “carrozzone”, oltretutto mal controllabile perché operante all'estero, a presunto beneficio di ambienti di volontariato che, per la loro generosa carica ideale, meriterebbero di essere sostenuti ben altrimenti che mediante snaturanti pratiche di sottogoverno; 3. l'accentuazione dello “slegamento” degli aiuti oltre quanto richiesto dalle norme internazionali sia un'ulteriore manifestazione dell'ostilità verso il settore privato che pervade il DdL.
Nell'articolo precedente, pubblicato sul numero di aprile 2007 di CostoZero, ho già esposto perchè il DdL esprime una visione dello sviluppo superata e miope che esclude il contributo fondamentale che il settore privato può dare allo sviluppo economico, e quindi umano, sostenibile.
Se le considerazioni svolte non sono del tutto infondate, il DdL è da rigettare nello spirito e nei contenuti.
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