Il Disegno di Legge delega sulla cooperazione
allo sviluppo
Giovannangelo MONTECCHI PALAZZI
Vice Presidente Assafrica & Mediterraneo-Confindustria
Il recente Disegno di Legge delega sulla Cooperazione italiana allo sviluppo di iniziativa governativa propone alcune riflessioni sul ruolo del settore privato nella cooperazione allo sviluppo.
Credo sia incontestabile che non vi è sviluppo umano sostenibile senza sviluppo economico che lo sostenga e che non può esservi uno sviluppo economico autosostenuto e diffuso senza una partecipazione robusta e attiva delle imprese del settore privato.
La stretta correlazione tra sviluppo umano e sviluppo economico risulta evidente dal confronto tra l'indice di sviluppo umano, proposto dall'economista indiano premio Nobel Amartya Sen e ora calcolato per 177 Paesi dall'UNDP, e l'indice di sviluppo economico di quegli stessi Paesi rappresentato dal PIL. Non solo il confronto evidenzia una stretta correlazione, ma le cause degli scostamenti maggiori sono facilmente identificabili: ad esempio, la scarsa considerazione per la condizione femminile contrapposta alla ricchezza petrolifera in alcuni Paesi arabi, i retaggi di guerre civili e la cleptocrazia in vari Paesi africani.
Oltre che dall'indice dell'UNDP, la correlazione tra sviluppo economico e sviluppo umano è confermata dall'esperienza concreta e dalla considerazione, sia pur sommaria e superficiale, della storia recente, compresa quella italiana e suffragata da un'abbondante letteratura economica. Ricordo qui Benjamin M. Friedman dell'Università di Harvard che sostiene che il miglioramento del tenore di vita favorisce l'apertura, la tolleranza e la democrazia. L'idea pauperista ed estetizzante che vi sia un conflitto tra la ricchezza e lo sviluppo umano nonché tra la ricchezza e la capacità di superare conflitti, difficoltà morali e ristrettezze culturali è un'idea falsa e dannosa. Così come fuorviante e dannoso è limitarsi a demonizzare la globalizzazione e non cercare di utilizzare quanto di buono essa sta producendo.
Alla luce di quanto sopra, il ruolo che il DdL assegna al settore privato appare antiquato, riduttivo al punto da sembrare settario, ma soprattutto straordinariamente disinformato e miope.
Tale impostazione riduttiva emerge in più punti nel testo del DdL, ma per brevità può bastare riportare questo passaggio: «L'Agenzia per lo Sviluppo e la Solidarietà Internazionale, tra l'altro, promuove forme di partenariato con soggetti privati per la realizzazione di specifiche iniziative di cooperazione e iniziative volte ad attrarre risorse finanziarie private per la realizzazione di interventi di cooperazione e di solidarietà internazionale destinati a fronteggiare le emergenze umanitarie, con particolare riguardo a quelli volti alla lotta alle pandemie».
Tengo a precisare di essere pienamente convinto dell'importanza degli interventi privati di solidarietà internazionale compresi quelli volti a fronteggiare emergenze. Ciò premesso, sono anche convinto che incentrare su di esso il ruolo del settore privato equivale a voler ignorare il contributo che può dare allo sviluppo economico, fondamento dello sviluppo umano. Detto in termini banali: il settore privato può e deve contribuire a donare pesci, ma ancor più e meglio può e deve insegnare a pescare.
L'impostazione riduttiva del DdL contrasta con l'esperienza della banche multilaterali di sviluppo, ad iniziare alla Banca Mondiale, che già nel lontano 1956 si “sdoppiò” creando, accanto alla IBRD che presta ai Governi, la IFC - International Finance Corp. per promuovere investimenti privati in aziende dei PVS (Paesi in Via di Sviluppo), nonché con quella della U.E., che nel 1977 con la Convenzione di Lomé creò il CDE-Centre for Development of Enterprises. Rappresenta anche un passo indietro rispetto alla Legge italiana attuale, la n. 49 del 28 febbraio 1987, che all'art. 7 prevede il sostegno agli investimenti italiani diretti nei PVS. É, quindi, legittimo il sospetto che si tratti di un'impostazione settaria dovuta a motivi ideologici.
Ma, ancor più tristemente, è un'impostazione straordinariamente miope che ignora la realtà economica ed il ruolo estremamente interessante che potrebbe essere svolto dall'Italia.
La realtà economica può essere tratteggiata in poche cifre. Negli ultimi cinque anni il PIL dei PVS nel loro insieme è cresciuto del 7% l'anno contro il 2,3% dei paesi sviluppati, ma è da circa venti anni che i PVS crescono più velocemente del resto del mondo.
I flussi netti di Aiuto Pubblico allo Sviluppo a livello mondiale ristagnano da tempo intorno ai $ 65 miliardi (questa cifra esclude la cancellazione dei debiti che rappresenta la presa d'atto di un'insolvenza insanabile, non un flusso di nuovi fondi, nonché gli aiuti ad Afghanistan ed Iraq che obbediscono ad altre logiche). Per contro nel 2005 gli IDE - Investimenti Diretti all'Estero (secondo la definizione OCSE si tratta di investimenti nel capitale di imprese produttive, non, quindi, di prestiti, acquisti di obbligazioni o di investimenti di portafoglio) nei PVS hanno raggiunto i $ 334 miliardi, mentre nel 2006 le rimesse degli emigrati da PVS nei loro Paesi di origine hanno raggiunto i $ 199 miliardi tramite i canali ufficiali (il doppio del 2001) e, forse, i $ 300 miliardi includendo le rimesse per i canali informali.
L'UNDP ha pubblicato numerosi studi sugli effetti benefici degli IDE per i Paesi riceventi, sia diretti che indiretti: occupazionali, di introduzione di nuove tecniche e modelli organizzativi, di inserimento nei circuiti economici e commerciali mondiali (non si dimentichi che circa 1/3 del commercio mondiale è “in house”, si svolge, cioè, all'interno di gruppi aziendali). Sulla destinazione delle rimesse e sui loro effetti planano incertezze, ma si suppone che circa 1/3 venga destinato ad avviare piccole attività, sovente per iniziativa degli emigrati stessi al rientro nei loro Paesi di origine.
Queste cifre potrebbero indurre ad atteggiamenti di ottimistico disimpegno di stampo liberista: “laissez faire, laissez aller”. In realtà non è così.
Per ragioni di dimensioni di mercato e/o di politica industriale gli IDE si concentrano in pochi grandi Paesi. In ben più ridotta misura si dirigono nei più piccoli e meno avanzati tra i PVS; basti pensare che l'intera Africa ne assorbe meno del 10% contro il 30% della Cina.
Pochi ancora sono i Paesi che sono “decollati” ed hanno raggiunto lo stadio dello sviluppo autosostenuto, per utilizzare il linguaggio di Walt W. Rostow, consigliere del Presidente Kennedy. É anche chiaro che, partendo da livelli di PIL molto bassi, saranno necessari vari decenni di tassi di crescita più elevati perché i divari con i Paesi ricchi comincino a ridursi in termini assoluti.
Molto resta, quindi, da fare per promuovere una più robusta e diffusa attività economica, specie nei meno avanzati tra i PVS che, per effetto della globalizzazione, rischiano di essere sempre più marginalizzati. E in un mondo ove si è affermata la libertà di movimento delle merci e dei capitali, ma non quella delle persone, bisognerebbe anche riflettere meglio sui rapporti tra sviluppo economico e migrazioni. Mi pare che finora l'attenzione si sia concentrata principalmente sulle conseguenze nei Paesi di destinazione, molto meno su quelli di provenienza e sulle persone dei migranti, quasi che l'espatrio non fosse un trauma per chi lo subisce per necessità.
Analogamente si è messo molto l'accento sui danni della globalizzazione. Ma poiché essa, è «inarrestabile come il succedersi delle stagioni», secondo l'arguta espressione di Nelson Mandela, e poiché essa, ancorché si preferisca tacerlo, sta contribuendo a ridurre come non mai la povertà nel mondo, sia in termini percentuali che assoluti, sarebbe bene riflettere anche sulle opportunità che offre.
Delle evoluzioni sopra descritte, dei problemi e opportunità che pongono, non v'è traccia né nell'illustrazione né nell'articolato del DdL. Vi è, anzi, un regresso, un diniego dell'esperienza e delle acquisizioni internazionali, europee ed italiane in materia di contributo imprenditoriale allo sviluppo. Tale negazione della realtà è ancor più desolante se si considera il ruolo che potrebbe avere l'Italia, specie nei PVS meno avanzati, quelli più poveri, di minori dimensioni e maggiormente svantaggiati per circostanze storiche e/o geografiche. Quelli il cui “decollo” è più problematico.
In tali Paesi è obiettivamente difficile trasferire “di peso” grandi realtà economiche che non siano collegate all'estrazione di materie prime. É relativamente più facile trasferire l'esperienza italiana delle PMI, come ci viene chiesto da ogni loro Ministro in visita in Italia.
E se per radicarsi o per commerciare in Cina o in Brasile a un imprenditore italiano sono sufficienti i normali strumenti pubblici di sostegno promozionali (ICE), finanziari (SIMEST) e assicurativi (SACE), per indurlo, invece, ad investire o avviare rapporti stabili in Tanzania o nel Burkina Faso è necessario uno sforzo ulteriore di assistenza come quella offerta dal CDE alle PMI dei Paesi europei e ACP o a quelle italiane dalla collaborazione avviata tra UNIDO e Cooperazione italiana ai sensi dell'art. 7 della L. 49/1987.
Analogamente dovrebbero essere sostenute le iniziative di imprenditori locali e, in particolare, dovrebbero essere favorite le iniziative di emigrati che facciano da ponte tra le realtà economiche dei loro Paesi di origine e la nostra. Un'idea di quel che potrebbe essere fatto la fornisce il piccolo miracolo economico tunisino al quale non sono estranee le circa 2800 aziende estere insediate in Tunisia, di cui 606 italiane che, da sole, impiegano 48.690 persone.
Vi è, dunque, un campo di azioni possibili, collegabile in positivo ai fenomeni migratori, nel quale l'Italia potrebbe dare un suo contributo originale e sicuramente fattivo. Tristemente, neanche di questo vi è traccia nella proposta governativa.
La rapidissima evoluzione del mondo negli ultimi anni giustifica solo in parte l'ignoranza degli sviluppi recenti e il rifiuto delle conseguenze da trarne. Si legittima il sospetto che il DdL si ispiri a principi e logiche obsolete aprioristicamente contrarie all'iniziativa privata e all'intraprendere.
Ma voler ridurre il ruolo della Cooperazione italiana a quello assistenzialistico della fornitura di pesci senza prevedere anche quello di promozione dello sviluppo, dell'insegnamento a pescare, contribuirebbe a prolungare la situazione di dipendenza dei PVS, a ritardare il loro “empowerment”, quello vero, che non consiste tanto nel contribuire a decidere l'allocazione degli aiuti esterni quanto nel disporre di una capacità autonoma basata su risorse proprie.
Prossimamente su CostoZero torneremo
ad approfondire l’argomento. |